Doc. IV-quater, n. 76





Onorevoli Colleghi! - La Giunta riferisce su una richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità concernente il deputato Vittorio SGARBI con riferimento ad un procedimento penale pendente nei suoi confronti presso la corte d'appello di Bari (proc. n. 1159/98 RGNR). Il procedimento penale scaturisce da una denuncia-querela della dottoressa Bombina Santella, all'epoca del fatto giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Taranto.
I fatti oggetto del procedimento consistono in dichiarazioni rese nel corso delle trasmissioni televisive «Sgarbi quotidiani» del 15 e 16 gennaio 1998. Per come risulta dal capo d'imputazione, l'onorevole Sgarbi addebitava alla dottoressa Santella fatti determinati e usava linguaggi offensivi della sua reputazione di magistrato. In particolare, tra l'altro, il deputato Sgarbi così si esprimeva: «...è arrivato un documento inaudito... tale B. Santella non sa ciò che le compete»; e, ribadendo il suddetto documento alla vista dei telespettatori e riferendo che si trattava di un provvedimento col quale il giudice Santella respingeva l'istanza di revoca dell'arresto richiesto per il Cito, proclamava: «ma sarà una stronzata sovrana! Eccola qua!»; egli inoltre proseguiva, ricorrendo talora ad apparente ironia e sempre in un contesto connotato di saccenteria dispregiativa della professionalità del giudice, sottolineando che la «gippa Santella» ... «questa illuminata magistrata ha fatto buoni studi grammaticali, però non sa bene quello che deve fare»; salvo poi a pretendere di impartirle - con incoerenza presuntamente ironica ma non meno offensiva - una lezione di grammatica con cui dopo avere spiegato che il soggetto non può essere diviso dal complemento di specificazione, aggiungeva a chiosa «A scuola! La grammatica! Altro che il diritto».
Per tali dichiarazioni, il deputato Sgarbi è stato condannato dal tribunale penale di Bari a 1.000 euro di multa oltre che a 43.000 euro di risarcimento del danno morale nei confronti della parte civile. L'appello è attualmente pendente.
La Giunta ha esaminato il caso nella seduta dell'11 giugno 2003, invitando anche il deputato Sgarbi a essere ascoltato, facoltà di cui egli non si è avvalso.
Orbene, l'esame ha chiarito che le affermazioni del deputato richiedente si riferiscono alla vicenda giudiziario-parlamentare che ha coinvolto Giancarlo Cito, deputato nella XIII legislatura. Questi risultava indagato in un procedimento penale per concorso in turbativa d'asta e concorso in concussione e fu oggetto di una richiesta di autorizzazione all'esecuzione di una misura cautelare restrittiva inoltrata alla Camera dalla dottoressa Bombina Santella.
Senonché, mentre pendeva la richiesta presso la Camera dei deputati, i coimputati del Cito - nei cui confronti la misura cautelare era stata eseguita - si videro revocare gli arresti per la sopravvenuta carenza di esigenze cautelari. Sicché il difensore del Cito avanzava anch'egli alla dottoressa Santella un'istanza di revoca del provvedimento restrittivo. A tale richiesta, il magistrato opponeva che non si poteva revocare ciò che non era mai stato eseguito e quindi ne rinviava l'esame. Nel frattempo - nella seduta dell'Assemblea del 25 febbraio 1998 - la Camera deliberava il diniego dell'autorizzazione all'arresto per Cito.
Questo episodio fu il motivo per cui sulle reti MEDIASET tra il 15 e il 16 gennaio 1998 andarono in onda una serie di trasmissioni dedicate a quella che veniva definita la «giustizia politicamente orientata, che colpisce una parte per favorire l'altra». A parere dei partecipanti a queste trasmissioni («Fatti e misfatti» su Italia 1, condotta da Paolo Liguori e «Sgarbi quotidiani», su Canale 5, condotta da Vittorio Sgarbi) la condotta della dottoressa Bombina sarebbe stata un fulgido esempio di questo di tipo di squilibrio nell'esercizio della giurisdizione. A parte il contesto - che di per sé è apparso alla maggioranza dei componenti la Giunta espressisi sul punto assai forzato, giacché la dottoressa Santella non era nel novero dei magistrati più esposti sul piano mediatico, come per esempio quelli di Milano o di Palermo - la medesima dottoressa Santella si è comprensibilmente sentita offesa da espressioni - peraltro pronunciate in diretta e con voce alterata - del tipo «stronzata sovrana! Eccola qua!», «gippa», «magistrata [che] ha fatto buoni studi grammaticali, però non sa bene quello che deve fare» e «la grammatica, altro che diritto».
Peraltro, qui non si vuole affermare che i giudizi critici nei confronti del suo provvedimento di rigetto della richiesta di revoca degli arresti per l'ex deputato Cito non fossero meritevoli di condivisione nel merito: di questo del resto dà atto la stessa sentenza del giudice di prime cure di Bari. Il problema della Giunta (e della Camera) è se le espressioni pesantemente offensive del deputato Sgarbi possano essere ricondotte a un legittimo esercizio del diritto di critica pertinente alla sua funzione istituzionale, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione. Non sono significativi al riguardo i rilievi relativi all'esame parlamentare del doc. IV, n. 9, perché il deputato Sgarbi non intervenne nella seduta dell'Assemblea del 14 gennaio 1998 (nella quale l'esame iniziò, pervenendo a un rinvio in Giunta) e - sebbene intervenne in quella del 25 febbraio 1998 - certo non pronunciò parole analoghe a quelle per cui è stato chiamato a rispondere.
Per questo già il giudice del tribunale di Bari ha correttamente escluso ogni nesso con la funzione parlamentare alla luce della consolidata giurisprudenza costituzionale. In particolare, il giudice ha fatto pertinente richiamo alla sentenza della sovrana Corte n. 257 del 2002: «Contrariamente a quanto sostenuto negli atti difensivi della Camera, nelle espressioni rivolte dal deputato Sgarbi [...] non è dato ravvisare alcuna «corrispondenza di significati», né formale né sostanziale, con il contenuto di atti parlamentari tipici. Gli atti di sindacato ispettivo evocati e prodotti dalla difesa della Camera, in cui il deputato Sgarbi compare come cofirmatario, precedenti o di poco successivi al dibattito televisivo, non hanno alcuna connessione con l'attività giudiziaria posta in essere [...] o, comunque, con comportamenti tenuti dallo stesso, ma contengono rilievi critici di ordine generale sui rapporti tra magistratura e potere politico, sui supposti obiettivi di delegittimazione delle assemblee legislative perseguiti dall'autorità giudiziaria, ovvero su disfunzioni dell'attività processuale strumentali al raggiungimento di finalità politiche, talvolta specificate in relazione ad altri magistrati o a uffici giudiziari diversi da quelli [qui in questione]. A prescindere dal rilievo che alcune delle espressioni usate si sostanziano in meri insulti personali, si deve concludere che le parole pronunciate dal deputato Sgarbi non sono coperte dall'immunità ai sensi dell'articolo 68, primo comma, Cost. [...]».
Orbene, è apparso alla Giunta che queste motivazioni si attaglino perfettamente al caso in esame: sebbene il caso della richiesta d'arresto nei confronti del Cito fosse d'attualità parlamentare, certo è che in nessun formale atto parlamentare si sono usate espressioni così gratuitamente offensive del magistrato procedente. Ma c'è di più.
L'eccessiva latitudine applicativa dell'insindacabilità parlamentare praticata dalle Camere oggi non riceve più sanzioni interne all'ordinamento italiano (da parte della Corte costituzionale) ma riporta severe censure anche in sede internazionale. È noto infatti che la Corte europea dei diritti dell'uomo, con una sentenza, resa all'unanimità nel caso Cordova vs Italia n. 2, depositata il 30 gennaio 2003, ha esaminato i seguenti fatti: il deputato Sgarbi aveva rivolto espressioni nei confronti del dottor Cordova nel corso di un comizio («lo chiamano mastino e io ho detto che ha una faccia da caratterista, d'attore, tanto che potrebbe fare sia il poliziotto che il cane del poliziotto. [...]. Vaff..., Cordova, vaff...»). Nel 1997, la Camera aveva deliberato l'insindacabilità dei fatti e i giudici procedenti non avevano elevato conflitto d'attribuzioni. Vistesi precluse le vie della tutela giurisdizionale in Italia, il dottor Cordova ha ritenuto di adire la Corte europea dei diritti dell'uomo, lamentando la violazione da parte dello Stato italiano dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La sentenza non si pronuncia sulla questione generale della compatibilità con la Convenzione europea delle modalità applicative nell'ordinamento italiano della regola dell'insindacabilità, ed in particolare del meccanismo in virtù del quale compete alla stessa Camera di appartenenza del parlamentare pronunciarsi sulla applicabilità dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, salvo il ricorso dell'autorità giudiziaria della Corte costituzionale. La Corte si è limitata viceversa a valutare in ciascun caso concreto l'eventuale contrasto con l'articolo 6 della Convenzione, ravvisandolo nel caso in esame. Il ragionamento della Corte muove dalla constatazione che l'insindacabilità delle opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari può comportare una limitazione del diritto di accesso a un tribunale per un equo processo. Essa tuttavia ha argomentato che tale limitazione non può in astratto dirsi incompatibile con la Convenzione se in concreto la compressione del diritto si rivela proporzionata ai fini per i quali l'ordinamento nazionale la prevede (in questo caso: la garanzia che la funzione parlamentare sia esercitata in modo libero da condizionamenti). Ciò a maggior ragione quando la limitazione del diritto di accesso alle corti è volta a permettere ai membri eletti dal popolo di esprimersi quanto più liberamente. La proporzione della compressione del diritto di cui all'articolo 6 della Convenzione (e dunque il bilanciamento tra il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero e il diritto alla reputazione e al decoro personale), secondo la Corte deve essere riscontrata in relazione alle circostanze particolari del fatto concreto. Nel caso in questione - sostiene la Corte - il giudizio sulla proporzione deve essere condotto in modo particolarmente rigoroso, giacché manca tra i fatti di causa e l'attività parlamentare un legame visibile e poiché il giudizio sull'insindacabilità è svolto in prima battuta da un organo politico. Alla luce di tale rigoroso parametro, la Corte ha ritenuto che la decisione giudiziale di non elevare il conflitto abbia comportato un sacrificio sproporzionato per il diritto del dottor Cordova a un'equa tutela giurisdizionale. Sicché la Corte ha ritenuto sussistente la violazione da parte dello Stato italiano dell'articolo 6 della Convenzione e lo ha condannato, offrendo tra l'altro all'interpretazione data all'articolo 68, primo comma, della Costituzione dalla Corte costituzionale italiana una sponda di considerevole forza.
A queste considerazioni vanno aggiunte infine quelle relative al nuovo articolo 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, la quale non era entrata in vigore quando la Giunta ha esaminato il caso della dottoressa Santella, ma che comunque offre alcuni spunti importanti. La norme richiamata infatti ribadisce che l'articolo 68, primo comma della Costituzione si riferisce ad atti di ispezione, critica e denuncia politica «connesse con la funzione di parlamentare». Con ciò la legge ribadisce che non tutte le espressioni di critica politica genericamente considerate sono di per sé insindacabili: lo sono solo quelle connesse la funzione. Sicché, il concetto di nesso funzionale è ancora uno snodo decisivo della materia. Le Camere possono tentare di opporre alla nozione elaborata dalla Corte una loro interpretazione della connessione con il mandato parlamentare. Ma non sarà offrendo copertura ai meri insulti che esse perverranno a tale opzione alternativa o faranno un buon servizio ai nobili istituti delle prerogative parlamentari. Del resto il linguaggio sconveniente e offensivo è vietato all'interno stesso della Camera da diverse disposizioni regolamentari (articoli 58, 59, 60, 89 e 139-bis del Regolamento). Non si comprende allora perché mai un deputato intra moenia dovrebbe controllarsi per timore di essere ripreso dalla Presidenza o per fatto personale, mentre extra moenia egli potrebbe ingiuriare impunemente chicchessia.
Per tali motivi, a maggioranza, la Giunta ha deliberato nel senso che i fatti per i quali è in corso il procedimento non concernono opinioni espresse dal deputato Sgarbi nell'esercizio delle sue funzioni.

Lello DI GIOIA,
relatore per la maggioranza.


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