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Ridola


PRESIDENTE. Do ora la parola al professor Paolo Ridola dell'Università "La Sapienza" di Roma.

PAOLO RIDOLA (Università "La Sapienza" di Roma). La ringrazio, signor Presidente, anche per l'invito a contribuire a questo incontro con un intervento che cercherò di mantenere nei limiti del tempo assegnato. Affronterò essenzialmente l'argomento dei procedimenti parlamentari per il "seguito" delle sentenze della Corte costituzionale: procedure che hanno avuto - ciò è noto ed è stato più volte rilevato - un risalto complessivamente modesto, nella prassi parlamentare (ormai trentennale) ma che mi sembrano ugualmente ricche di potenzialità non trascurabili come strumento di raccordo interistituzionale tra il potere legislativo e la giustizia costituzionale.
Debbo anche affermare che su questo terreno la ricerca comparatistica da me condotta non ha portato a risultati di particolare interesse; tuttavia tale ricerca ha fatto emergere la novità delle procedure per il "seguito", previste dai nostri regolamenti parlamentari, una novità che si inquadra nelle peculiarità del modello italiano di giustizia costituzionale, che è un sistema largamente influenzato dal modello kelseniano, sia pure rivisitato e rielaborato con tratti originali.
Evidentemente, su questo sfondo il nodo dei raccordi con il potere legislativo è un passaggio centrale che offre, comunque, per quanto riguarda l'Italia, una certa difficoltà nella comparazione con altri sistemi di giustizia costituzionale. Non parlo evidentemente della comparazione con il modello francese, che ha collocato il controllo di costituzionalità nell'ambito del procedimento legislativo, sebbene poi questo modello abbia subito, con gli anni, una serie di temperamenti e sviluppi. Difficile è anche la comparazione con il modello tedesco - o con quello spagnolo - che fa emergere le virtualità di un raccordo più dinamico fra la giustizia costituzionale ed il potere legislativo, soprattutto nell'ambito dell'abstrakte Normenkontrrolle.
Vi sono tuttavia degli elementi comuni. Da un lato, nel diritto comparato abbiamo di fronte delle formule, anche costituzionali, che fissano il vincolo dei poteri dello Stato, e quindi anche del legislatore, nei confronti delle sentenze costituzionali: l'articolo 31 del Bundesverfassungsgerichtgesetz, l'articolo 38 della legge "organica" sul tribunale costituzionale spagnolo, l'articolo 89 della Costituzione ceca e l'articolo 145 della Costituzione rumena. Si tratta, tuttavia, di formule piuttosto generiche come più avanti avrò modo di approfondire. Dall'altro lato, nondimeno, anche in altre esperienze costituzionali non è sconosciuta l'incidenza della giurisprudenza costituzionale - delle sentenze costituzionali - sui percorsi del procedimento legislativo. Ricordo, ad esempio, una sentenza del 1992 del Bundesverfassungsgericht, sul finanziamento dei partiti, che ha avuto tutta una serie di seguiti di grande interesse nella riforma della normativa tedesca sul finanziamento dei partiti.
Per quanto riguarda l'Italia, il discorso muta sensibilmente, perché i costituenti sono partiti dall'idea che la Corte costituzionale dialoghi con gli altri poteri (legislativo e giudiziario) essenzialmente attraverso atti, nella dialettica legge-ordinanza di rinvio-sentenza. Le orbite della Corte e del Parlamento sarebbero, dunque, destinate a non incontrarsi mai se non nel luogo geometrico delle sentenze di annullamento.
L'insufficienza di questa prospettiva, avvertita non soltanto dalla dottrina, ma anche dagli stessi soggetti istituzionali, era in qualche modo originariamente riflessa nella stessa interpretazione e nello stesso impianto dell'articolo 136 della Costituzione, che statuisce che la sentenza di accoglimento "è comunicata alle Camere ed ai consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali". L'ispirazione originaria di tale articolo era differente da quella che, poi, si sarebbe imposta nello sviluppo della stessa disposizione costituzionale. Era infatti incentrata sull'alternativa, posta al potere legislativo, fra l'abrogazione delle disposizioni dichiarate incostituzionali e il loro mantenimento attraverso il procedimento previsto dall'articolo 138 della Costituzione. Questo impianto è poi venuto meno, perché si è stabilito che la sentenza di dichiarazione di incostituzionalità produce immediatamente effetti, senza la necessità di un intervento del legislatore, mentre il riferimento ai consigli regionali valse a mettere nell'angolo l'interpretazione dell'espressione "nelle forme costituzionali" come riferita all'articolo 138. Peraltro, l'articolo 30 della legge n. 87 del 1953, più modestamente, parlava di Camere e consigli regionali, a cui la sentenza viene comunicata, affinché adottino i provvedimenti di loro competenza.
Tuttavia il modello derivante dall'articolo 136 era sostanzialmente rigido ed ha trovato una serie di significativi temperamenti nel segno del principio della leale cooperazione tra i poteri, più volte richiamato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Vorrei ora soffermarmi sulle norme regolamentari che disciplinano le procedure per il seguito delle sentenze costituzionali. Esse sono nate nel clima della filosofia complessiva della riforma dei regolamenti del 1971, la cui idea centrale era che il Parlamento dovesse uscire dall'isolamento rispetto alla società civile, alle istituzioni comunitarie, agli altri poteri dello Stato e, quindi, anche rispetto alla Corte costituzionale. La normativa sul seguito delle sentenze costituzionali va collocata proprio all'interno di questo contesto: lo spostamento dell'orizzonte, con i regolamenti del 1971, dal procedimento al processo legislativo. Tale spostamento ha investito anche le procedure per il seguito. La Corte costituzionale italiana è evidentemente fuori dal procedimento legislativo, ma la sua presenza nel processo legislativo va valutata con un metro più ampio che tenga conto della circostanza che le sentenze della Corte sono, insieme ad altri fattori, parte di tale processo come fonti culturali delle attività di predisposizione normativa (così come è stato scritto da Ruggeri).
Anche attraverso questa normativa il processo legislativo si apre a quella "società aperta degli interpreti della Costituzione", sulla quale ha insistito negli ultimi anni Peter Häberle. Vale a dire, il giudizio di costituzionalità (anche per le modalità della sua instaurazione) costituisce un osservatorio di istanze che emergono dalla società civile e che, attraverso le procedure del seguito, rifluiscono poi nel procedimento legislativo.
Si tratta di una dinamica sulla quale influiscono alcune variabili, le quali condizionano gli input derivanti dalla giurisprudenza costituzionale. L'attivazione del procedimento legislativo conseguenziale presuppone infatti una rispondenza in valutazioni politiche suscettibili di trovare sbocco in un progetto di legge, governativo o parlamentare, con il rinvio quindi ineludibile alle dinamiche del principio maggioritario. Forse bisognerebbe tentare una distinzione fra moniti a carattere tecnico (quelli a cui faceva prima riferimento il professor Roberto Nania), come la qualità della legge, la chiarezza, la certezza, aspetti che lambiscono la mediazione parlamentare degli interessi, ed altri tipi di moniti che possono invece introdurre elementi più difficilmente suscettibili di mediazione.
Tutti questi elementi di carattere generale trovano in qualche modo conferma sia nei lavori preparatori del regolamento del 1971, sia nella sua prassi applicativa. Nei lavori preparatori si sottolineava spesso che le procedure servivano a non isolare l'attività della Camera ed a potenziarla nel confronto con l'apporto costante degli altri organi dello Stato. Quanto poi alle procedure per il seguito, nei lavori preparatori si precisava che esse riguardavano non solo le sentenze di accoglimento, ma anche le sollecitazioni e i preavvisi. Tale impostazione è stata poi confermata dalla prassi, anche se nei primi anni dopo l'entrata in vigore delle nuove norme regolamentari il clima interpretativo prevalente vede una lettura decisamente conflittuale delle procedure del seguito. In proposito, ricordo le discussioni svoltesi nella I Commissione permanente della Camera sulla sentenza n. 226 del 1976, relativa alla legittimazione della Corte dei conti in sede di controllo sui decreti legislativi delegati, così come quelle sulla sentenza relativa ai professori universitari.
A partire dagli anni '80 il clima cambia. L'onorevole Riz, allora presidente della I Commissione affari costituzionali della Camera, affermava che "le finalità dell'articolo 108 del regolamento della Camera non sono e non possono essere quelle di un dibattito fra sostenitori e detrattori delle sentenze della Corte", ma essenzialmente "costruttive". Vi era, quindi, l'auspicio per un'interpretazione non restrittiva del regolamento, sia con riferimento alla tipologia delle sentenze esaminate (nel 1984 infatti l'esame si sposta anche sulle sentenze di inammissibilità a partire dalla n. 170 dello stesso anno, in materia comunitaria) sia sotto il profilo dei contenuti dei documenti conclusivi, sia con riferimento alle modalità procedimentali dell'esame delle sentenze della Corte costituzionale.
Vi sono, ovviamente, delle differenze fra il regolamento della Camera e quello del Senato. Il modello del Senato sembra, a prima vista, più rigido e risentire più da vicino dell'impianto dell'articolo 136 della Costituzione. Prevede la competenza esclusiva della Commissione competente, previsione in parte temperata dalla prassi (nella IX legislatura, infatti, le sentenze venivano trasmesse alla Sottocommissione pareri della I Commissione). Questa competenza esclusiva della Commissione competente rende certamente più stretto il legame funzionale fra la dichiarazione di incostituzionalità e le attività conseguenziali. Ritengo invece che, nel regolamento della Camera, uno dei profili più significativi sia proprio quello dello spazio riservato alla Commissione affari costituzionali. Ciò attiva, infatti, un circuito di discussione politico-istituzionale, indotto dalle sentenze della Corte costituzionale, che va al di là della rigida distinzione tra accoglimento e rigetto.
Un altro elemento che differenzia il regolamento del Senato da quello della Camera attiene ai poteri del Presidente, il quale (nel regolamento del Senato) ha un obbligo di trasmissione per le sentenze di accoglimento e una facoltà per le altre, che egli giudica opportuno sottoporre all'esame della Commissione.
Vi sono, poi (sempre nel regolamento del Senato), delle particolarità per quanto riguarda gli esiti. Il controllo può terminare con una risoluzione con la quale il Senato invita il Governo a colmare le lacune, ove non sia stata assunta alcuna iniziativa legislativa, o ad assumere particolari iniziative in relazione ai pronunciati della Corte.
C'è, poi, un altro elemento di questa disciplina regolamentare su cui vorrei richiamare l'attenzione: la disposizione (sia nel regolamento del Senato, sia in quello della Camera) in base alla quale il documento finale (alla Camera) e la risoluzione (al Senato) debbono essere comunicate al Governo e al Presidente dell'altra Camera (nel regolamento della Camera, anche al Presidente della Corte costituzionale). Tutto ciò attiva un circuito di comunicazione di tipo cooperativo fra gli organi costituzionali.
Per quanto riguarda la Camera, svolgerò rapidamente alcune considerazioni in quanto conoscete sicuramente meglio di me la disciplina. A me sembra che il profilo centrale sia proprio quello del ruolo assegnato alla I Commissione, che amplia l'ambito della procedura per il seguito ed il ventaglio delle alternative che la giurisprudenza costituzionale pone al legislatore: attivazione dell'iniziativa legislativa conseguenziale, sconsigliare la reintroduzione surrettizia di norme già invalidate, iniziative di dubbia costituzionalità, eccetera. Interessante è anche l'articolazione del procedimento: in relazione ai tempi, ai soggetti che intervengono (il Governo), al rapporto con l'iniziativa legislativa (un documento finale sulla necessità di iniziative legislative indicandone i criteri informativi, oppure l'esame congiunto con le iniziative già presentate in materia).
Mi soffermo molto rapidamente sui profili problematici che tale disciplina pone soprattutto sul terreno del rapporto tra l'attività conseguenziale e l'indirizzo politico. In questa materia si tocca il tema, molto dibattuto dalla dottrina, dei rapporti con l'iniziativa legislativa del Governo. Un tema sul quale si sono confrontate posizioni divergenti dal punto di vista teorico: alcuni autori (Sandulli, Patrono) ritengono che il nostro sistema costituzionale induca ancora a configurare una posizione di centralità dell'iniziativa governativa, altri invece (Cervati) tendono a valorizzare il carattere diffuso dell'iniziativa legislativa. Secondo alcuni autori, per esempio Pegoraro, la giurisprudenza di indirizzo della Corte ha assunto tale coerenza e intensità da esigere una risposta altrettanto continua ed omogenea, che solo il Governo può elaborare. Per quanto riguarda l'iniziativa legislativa del Governo, certamente vi sono dei profili specifici che attengono agli articoli 76 e 77 della Costituzione, quando l'esigenza di colmare la lacuna rivesta carattere di urgenza. Ricordo che la riforma della RAI del 1975 seguì una notissima sentenza con la quale la Corte aveva posto una serie di comandamenti per il settore radiotelevisivo.
Occorre sottolineare brevemente due aspetti. La novità rappresentata dalla riforma del regolamento della Camera del 1997, con l'introduzione del Comitato per la legislazione (ne ha parlato il presidente Trantino): esso può diventare sicuramente un importante sede di raccordo con la giurisprudenza costituzionale, soprattutto sul terreno degli input di carattere tecnico derivanti dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Sono evidentemente di grande interesse le chance che derivano dalla composizione del Comitato per la legislazione: una composizione paritetica che è insieme istanza tecnica e istanza politica.
L'ultimo punto è rappresentato dalla considerazione che, in sede di riforma dei regolamenti parlamentari, un suggerimento potrebbe forse emergere dal disposto dell'articolo 23, ultimo comma, della legge n. 87 del 1953, che prevede, anche per le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, la trasmissione ai Presidenti delle Camere. Forse si potrebbe immaginare un vaglio delle ordinanze di rimessione o l'estensione delle procedure di raccordo con la giustizia costituzionale anche al vaglio delle ordinanze di rimessione, come input di una attività legislativa attenta ai profili di costituzionalità.

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