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Nania


PRESIDENTE. Do la parola al professor Nania, dell'Università di Bologna.

ROBERTO NANIA (Università di Bologna). In via preliminare, è da precisare che, se si assumesse l'idea di "qualità" della legislazione nella sua accezione più ampia, occorrerebbe dare conto dell'incidenza complessivamente espressa a tal fine dal sindacato di costituzionalità sulle leggi. Risulta infatti evidente che, in un sistema come il nostro, ispirato, come tutti quanti sanno, al paradigma della Costituzione superiore, un prioritario fattore di qualificazione della produzione di atti di normazione primaria è rappresentato, appunto, dalla sussistenza di un rapporto di armonia fra questi atti ed i principi costituzionali: ciò al fine di salvaguardare la tenuta della legge, e della volontà politica che in essa ha trovato espressione, anche a fronte delle eventuali censure che le vengano mosse nei modi e nelle forme previste dall'ordinamento vigente.
Naturalmente, vi possono essere, e si sono in effetti avvicendati, diversi modi di pensare al rapporto tra Costituzione e legge, ossia immaginando in termini più o meno stringenti la componente prescrittiva espressa dei principi costituzionali. E tale raffigurazione dovrebbe essere la più equilibrata possibile, in modo da preservare sia l'irrinunciabile spazio di gioco per le dinamiche programmatico maggioritarie, specie in un sistema politico istituzionale ad impianto bipolare, sia le impellenze date dalla diversità dei tempi. Ciò precisato, resta comunque fermo che quello della ponderazione del rapporto tra Costituzione e legge è uno snodo importante sotto il profilo dei requisiti di "qualità" della legislazione intesa, appunto, in senso sostanziale quale attitudine dell'atto ad insediarsi congruamente e stabilmente nel sistema delle fonti di produzione normativa e ad occupare in seno ad esso il posto che le compete.
Quanto detto risulta ancora più percepibile se si pensa alle modalità di applicazione dell'articolo 3 della Costituzione, messo in opera da una ormai copiosa giurisprudenza costituzionale come canone di razionalità delle classificazioni legislative, e conseguentemente plasmato su quei parametri di misura che integrano, nell'opinione diffusa, l'istanza di crescita qualitativa della legislazione, soprattutto sotto il profilo delle necessarie coerenze sistematiche: e ciò senza considerare la parentela che potrebbe ravvisarsi, in una prospettiva di pieno dispiegamento del principio di "sussidiarietà", tra il canone considerato e quello della effettiva indispensabilità dell'intervento normativo dove viene ad emersione, oltre alla esigenza empirica di fronteggiare i noti e lamentati fenomeni di ipertrofia regolativa, il bisogno di restituire alla legge lo smalto dell'atto meditato e tutt'altro che inopportuno dal punto di vista dei rapporti sociali oggetto di disciplina.
Da una siffatta prospettiva di ordine generale, meriterebbe di essere considerata anche la nutrita giurisprudenza costituzionale concernente le leggi di interpretazione autentica, in considerazione dei canoni fissati per il corrente esercizio di questa tradizionale tecnica di legiferazione ed ai quali il legislatore non può restare insensibile dato il valore messo in gioco, ossia quello dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica. Beninteso, la Corte ha difeso la possibilità d'uso di tale tecnica normativa, affermandone la compatibilità costituzionale in forza dell'assunto che (trascrivo letteralmente) "la funzione giurisdizionale non può dirsi violata per il solo fatto dell'intervento legislativo, perché il legislatore non tocca la potestà di giudicare quando si muove sul piano generale ed astratto delle fonti e costruisce modello normativo" (si tratta dell'ordinanza n. 44 del 2001).
Taluno potrebbe anche chiedersi fino a che punto simili conseguenze siano perfettamente in linea con l'affermazione, ricorrente nella stessa giurisprudenza costituzionale, in ordine alla collocazione sub costituzionale del principio di irretroattività nelle materie non penali; così come ci si potrebbe domandare se la tecnica della interpretazione autentica non sia portatrice di un intendimento, che non potrebbe essere sottovalutato, di chiarificazione in via successiva delle disposizioni legislative (come peraltro non si manca di riconoscere nella citata sentenza n. 525 del 2000).
In ogni caso, si deve tenere presente che nell'ottica della giurisprudenza costituzionale l'esigenza della certezza giuridica è suscettibile di riverberarsi sull'uso delle tecniche legislative, anche a prescindere dal carattere interpretativo delle leggi considerate (in questo senso, posso richiamare la sentenza n. 416 del 1999, dichiarativa dell'incostituzionalità del divieto di cumulo tra ratei pensionistici e redditi da lavoro autonomo con riferimento al periodo precedente all'entrata in vigore della legge, anche se di recepimento di identico divieto già irrogato in un decreto-legge non convertito).
In questo quadro generale una considerazione analoga andrebbe svolta per quella giurisprudenza della Corte nella quale vi è la dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate perché intese a sollecitare interventi di ordine sistematico che sono preclusi alla stessa Corte costituzionale; eppure, anche in questa ipotesi di inammissibilità, la Corte evidenzia dei momenti di caduta della razionalità di grandi comparti normativi cui soltanto il legislatore, facendo salve le sue valutazioni di opportunità, potrebbe porre rimedio. Emblematica è, in questo senso, la sentenza n. 102 del 1998 dove, con riferimento all'indennità di premio di servizio conferito dall'Istituto nazionale per l'assistenza ai dipendenti degli enti locali, si prospetta l'eventualità di una nuova e organica disciplina sia di questa indennità sia di quella di buona uscita, in modo da venire a capo, in via definitiva, delle sperequazioni registrabili in materia nel comparto pubblico. Ma è chiaro che l'ampiezza di una simile nozione di qualità, per quanto suggestiva, esigerebbe rassegne giurisprudenziali di ampio raggio che non sono governabili nell'ambito di questa introduzione.
A parte questi scenari, dunque, è utile attestarsi sulla nozione più circoscritta - se si vuole più rigorosa di "qualità" - ossia quella nozione che è presente in taluni passaggi giurisprudenziali, che la evocano in termini più o meno espliciti, nella gran parte dei casi incentrandola attorno al paradigma della chiarezza legislativa. Esiste una storica sentenza della Corte in cui si è avviato questo filone: mi riferisco alla sentenza n. 364 del 1988 in cui la Corte, dichiarando incostituzionale l'articolo 5 del codice penale nella parte in cui non identificava nella ignoranza inevitabile della legge penale un fattore impeditivo dell'affermazione della responsabilità penale, lamentava anche, con riferimento alla individuazione da parte del legislatore delle condotte ritenute meritevoli di sanzioni penale, il difetto di chiarezza del dettato normativo; dato questo che, nel ragionamento di quella sentenza, avrebbe reso iniquo l'astratto rigore della intimazione all'osservanza del comando legislativo. Tutti ricorderanno le proposizioni presenti in quella famosa sentenza in cui si evidenziava la necessità che il diritto penale costituisse la extrema ratio di tutela della società e che fosse costituito da norme non numerose, non eccessive rispetto ai fini di tutela e chiaramente formulate e dirette alla tutela di valori, almeno di rilievo costituzionale.
A parte queste ultime proposizioni, dove la Corte evidenziava la possibilità di un'immediata ricaduta dal punto di vista della incostituzionalità della legge, si muovevano invece su un terreno costituzionalmente meno incalzante le proposizioni attinenti al dosaggio quantitativo ed alla chiarezza qualitativa della legge (penale) come parametri di buona legislazione (penale). Si trattava pertanto di un auspicio che non profilava necessariamente future comminatorie di incostituzionalità, ma tentava piuttosto di stimolare la progettualità legislativa, soprattutto in vista del ripensamento dei canoni della legislazione penale al fine di instaurare un più sereno e rassicurante rapporto, su questo versante cruciale del contratto sociale, tra i cittadini e lo Stato.
Dopo questa fattispecie risalente, va subito segnalata, per accelerare il passo, la sentenza n. 312 del 1996, che non ha mancato di attirare l'attenzione della dottrina maggiormente interessata al contributo della giurisprudenza costituzionale nel campo della legistica. Come si ricorderà, in tale occasione la Corte - scrutinando la disciplina riguardante la protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione al rumore ed i relativi obblighi, penalmente sanzionati, posti a carico del datore di lavoro - rilevava un qualche scoordinamento tra le tecniche di normazione che erano state utilizzate in materia. Osservava la Corte: "La tecnica legislativa caratterizzata da una serie di prescrizioni puntuali e dettagliate nelle quali i comportamenti che il datore di lavoro deve osservare ai diversi livelli di rumore sono minuziosamente descritti, è contraddetta e sopravanzata (…) da una tecnica esattamente opposta: quella della previsione generale e di principio (…) caratterizzata più dalla predeterminazione dei fini che il datore di lavoro deve raggiungere che dalla individuazione dei comportamenti che egli è tenuto ad osservare, e suscettibile pertanto di ampliare la discrezionalità dell'interprete".
Sembra trasparire dalle proposizioni riportate l'invito rivolto al legislatore ad adottare, appunto, una tecnica di legiferazione meno sbilanciata, intesa a tenere insieme il dovuto tasso di accuratezza normativa ed il margine di gioco richiesto dalla discrezionalità applicativa. Né dunque la "descrizione dettagliata dei comportamenti penalmente vietati" né l'abdicazione alle scelte di pertinenza legislativa che comporti, in buona sostanza, il deferimento al giudice, attraverso norme di scopo troppo dilatate, la effettiva definizione del comportamento destinatario della sanzione.
Non mette conto rifare tutto il percorso seguito dalla sentenza al fine di ricondurre la disciplina esaminata ad un accettabile grado di compatibilità con l'articolo 25 della Costituzione; quello che è importante osservare è che la Corte ha letto la questione nei termini della inadeguatezza della tecnica legislativa, una volta esclusa la sussistenza di un intendimento lesivo dei principi costituzionali da parte del legislatore e una volta dato atto della volontà legislativa di farsi carico anzi dell'attuazione dei precetti costituzionali (nella specie, si trattava del dovere di protezione dei lavoratori di cui all'articolo 41 della Costituzione). Si spiega allora perché la Corte abbia prescelto la soluzione della sentenza interpretativa di rigetto, con la consueta formula del rigetto "nei sensi di cui in motivazione", ossia alla luce della interpretazione della disposizione censurata offerta dalla stessa Corte costituzionale: è questo il segno che la Corte, a fronte di un legislatore compenetrato con la esigenza di realizzazione dei principi costituzionali, non si è sottratta a rendere il proprio contributo di carattere tecnico.
D'altro canto, l'esigenza di temperare la perentorietà con la quale, in taluni casi, la giurisprudenza costituzionale ha proceduto all'applicazione del canone di determinatezza della legge penale, si avverte anche nella sentenza n. 519 del 2000: qui, con riferimento alle censure di costituzionalità sollevate nei confronti del reato di grida e manifestazioni sediziose di cui al codice penale militare di pace, non si è esitato, allo scopo di rigettare le censure medesime, ad appellarsi all'indirizzo interpretativo della giurisprudenza costituzionale e della stessa giurisprudenza comune, assumendoli quali fattori di chiarificazione della disposizione in materia.
Ma è tempo di venire all'altra pronunzia considerata di particolare significato sul terreno della qualità legislativa, la sentenza n. 53 del 1997. In detta sentenza, per la verità, si esordisce criticamente nei confronti delle modalità di redazione dei principi e criteri direttivi di una legge delega di cui il giudice remittente ipotizzava la violazione da parte del decreto delegato; si valutava infatti tale valutazione come "non perspicua" e "di non facile applicazione", soprattutto con riguardo al criterio volto a facoltizzare il legislatore delegato a prevedere l'introduzione di nuove sanzioni penali. Di qui l'auspicio "che il legislatore - sono parole della sentenza - ove conferisca deleghe ampie di questo tipo, adotti, per quanto riguarda il ricorso alla sanzione penale, al cui proposito è opportuno il massimo di chiarezza e di certezza, criteri configurati in modo più preciso".
Tuttavia, anche in questo caso la Corte, attraverso un complesso iter argomentativo, ha ritenuto di poter razionalizzare gli anzidetti principi regolatori della materia, pervenendo alla conclusione della coerenza con essi della norma sanzionatoria introdotta mediante l'atto con forza di legge (si trattava nel caso di specie della ipotesi del noleggio abusivo di opere lecitamente acquistate).
Sulla medesima linea si muove la sentenza n. 49 del 1999 dove, facendo espresso richiamo al precedente appena esaminato, si respingono sì le censure rivolte al testo unico in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo n.385 del 1993, escludendo il dedotto contrasto con la relativa legge di delegazione; nondimeno, viene ribadito (questa volta con riferimento alle sanzioni amministrative) l'auspicio di chiarezza e certezza delle deleghe legislative in materia. Anche nella specie si registra quel tormentato iter ricostruttivo che caratterizza, immancabilmente, le pronunzie che si situano su tale trend, attingendo elementi di chiarificazione della volontà legislativa da uno sfondo più ampio (caratterizzato, anzitutto, dalla presenza delle attuande direttive comunitarie).
Qualche commentatore si è voluto domandare se in tali auspici non fosse racchiusa una componente monitoria, ossia l'incombenza di un intervento perentorio da parte del giudice di costituzionalità, a fronte di perduranti carenze dei requisiti tecnici indicati dal medesimo giudice. Non pare tuttavia fondato disegnare un fatale parallelismo tra le pronunzie in esame e quelle logiche monitorie che sono nate e sono state sperimentate non già su questioni di tecnica legislativa, bensì su di un terreno squisitamente sostanziale. Per di più, detta strategia giurisprudenziale ha riguardato soprattutto la legislazione anteriore e in un diverso quadro di tardività dell'opera di rinnovamento normativo.
Una conferma di quanto affermato potrebbe venire da due sentenze del 1998, ambedue emesse in sede di decisione su ricorsi diretti delle regioni nei confronti di leggi statali che deducevano, tra l'altro, un presunto difetto di chiarezza delle leggi impugnate. Nella prima, la sentenza n. 398, si è escluso che "la lesione della competenza consegua alla non chiarezza o alla più difficoltosa conoscibilità della legge". Le regioni - argomentava la Corte - peraltro dotate di apparati istituzionalmente preposti all'esame, anche sotto il profilo tecnico, della produzione legislativa dello Stato, non possono allegare la non conoscenza delle leggi statali, né invocare i parametri dai quali la Corte costituzionale ebbe a desumere il principio secondo il quale "solo le leggi conoscibili possono essere osservate e rispettate". L'altra sentenza, la n. 408, ha respinto l'ipotesi che "un eventuale difetto di chiarezza e coordinamento della norma" (si trattava della disciplina delle forme di cooperazione tra i diversi livelli di governo) fosse suscettibile di integrare un vero e proprio vizio di costituzionalità a carico della norma stessa.
Infine, sono da richiamare le decisioni n. 560 del 2000 e n. 127 del 2001, concernenti le censure rivolte alla legge n. 479 del 1999 (recante modificazioni di talune discipline processualistiche) dove, pur essendosi sottolineata con accento molto critico la mancanza di qualunque norma transitoria, si è ritenuto che il regime intertemporale fosse comunque ricostruibile per via ermeneutica.
Come si vede, i parametri di qualità legislativa officializzati nella giurisprudenza costituzionale, con particolare riguardo a quello della "chiarezza", appaiono, per ora, collocati in una zona giuridica intermedia; una zona dove, innegabilmente, operano valori di risonanza costituzionale come quelli della certezza del diritto e dell'affidamento del cittadino, ma senza che alla spinta di tali interessi debba conseguire la dislocazione della legge nel cono d'ombra dell'illegittimità costituzionale. E ciò soprattutto in forza della capacità del sistema di apprestare fattori esterni di sostegno della razionalità del linguaggio legislativo.
Tuttavia non mancano, per dovere di completezza espositiva, elementi che possono rendere più mosso il panorama: vi è da chiedersi, ad esempio, quanto abbia giovato, nel senso della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 377 del 2000 la notazione, presente nella sentenza medesima, in ordine alla scarsa chiarezza della normativa presa in considerazione: si trattava della normativa inerente al trasferimento alle regioni a statuto speciale delle funzioni ministeriali in materia di rifornimento idrico delle isole minori. Una ragione in più per ritenere che la questione della qualità debba trovare adeguato appagamento allo scopo di scongiurare l'apertura di un altro fronte di contenzioso costituzionale di cui non si avverte certo il bisogno. D'altronde è anche alto il prezzo di trasferire agli organi della interpretazione quei compiti di determinazione contenutistica della legge che dovrebbero essere interamente assolti dalla volontà finalistica che in essa è destinata a trovare espressione e realizzazione; sotto questo profilo si può, anzi, aggiungere - tornando alle notazioni iniziali - che nel miglioramento della qualità dei testi legislativi è ravvisabile anche un consistente fattore di contenimento dei dubbi di costituzionalità suscitati dalla legge all'atto della sua applicazione che dovrebbe consentirne una più fluida capacità operativa.
Non vi è comunque solo la dimensione dei rapporti interistituzionali; è infatti chiaro - non vi è bisogno che sia io a dirlo - che nella visuale della funzione rappresentativa il tema della qualità tocca in via diretta il rapporto con i cittadini e per conseguenza la stessa base di legittimazione dell'organo parlamentare.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Nania per il suo pregevole intervento

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