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Minardi


PRESIDENTE. Ha la parola Luigi Minardi, Presidente del Consiglio regionale delle Marche.

LUIGI MINARDI, Presidente del Consiglio regionale delle Marche. Una cosa è certa: nel nuovo testo costituzionale non esiste più una materia denominata "lavori pubblici di interesse nazionale". La riforma del Titolo V ha assegnato, all'art. 117, l'intera materia dei lavori pubblici alla competenza esclusiva delle Regioni, con l'unica eccezione costituita dalla potestà legislativa concorrente su tre categorie di intervento, riservando allo Stato compiti relativi ai principi generali, che sono, ovviamente, più astratti della progettazione e della realizzazione delle opere.
Successivamente sono intervenuti la legge 443 del 2001 e il decreto attuativo 190 del 2002. La nuova suddivisione delle competenze in materia di localizzazione delle grandi infrastrutture di impianti fra Stato, Regioni ed enti locali costituisce, ora, una questione molto controversa.
E' aperto un contenzioso tra Governo e Regioni, che ha portato alcune Regioni e il Comune di Vercelli ad impugnare di fronte alla Corte costituzionale la legge 443 e il decreto attuativo 190 citati. Non si tratta in questa sede di affrontare le questioni che la Corte è chiamata a sciogliere - l'udienza, tra l'altro, è fissata il giorno 25 marzo - bensì di cogliere i punti politici che il contenzioso contiene.
Le Regioni ricorrenti non negano l'esigenza di garantire al processo decisionale partecipazione statale e ragionevolezza dei tempi in cui esso avviene. Contestano però che la competenza della decisione sia di un organo statale. Esse sostengono che una volta individuate le grandi opere attraverso la valutazione delle esigenze e dei bisogni dell'intera collettività nazionale, l'attrazione a livello centrale anche del complesso delle funzioni amministrative relative alla localizzazione sul territorio e alla loro realizzazione sia contrastante con la Costituzione. Peraltro il decreto 190 del 2002 attribuisce agli organi statali il potere di localizzare l'opera, compatibilità ambientale compresa, anche contro la volontà regionale. Serve una nuova intesa che da un lato riconosca che metodi di aggiudicazione, gare, qualificazione delle imprese devono essere uniformi sul territorio nazionale, ritenendo un errore avere tanti sistemi di regole diverse quante sono le Regioni e che nello stesso tempo affermi che gli aspetti più propriamente organizzativi e contrattuali delle stazioni appaltanti a livello locale possano essere regolati regionalmente. D'altro lato però, il Governo centrale non deve invadere terreni che appartengono alla competenza esclusiva o concorrente delle Regioni, in particolare per quanto riguarda il governo del territorio e la localizzazione delle opere.
Le Regioni contestano la procedura di approvazione dei progetti che consente agli organi statali il potere di deliberare in via definitiva, anche in contrasto con la volontà regionale. Le Regioni ricorrenti, anche quelle che hanno ricorso alla Corte, hanno sottoscritto intese quadro con il Governo, accettando in qualche modo il partnerariato Regione-Governo, non sottraendosi, quindi, all'impegno di concorrere alla programmazione, alla progettazione, all'affidamento di lavori e al monitoraggio, così come prescrive l'art. 1, comma 1, del decreto 190. Tuttavia, nella concreta applicazione si sono aperti i problemi che riguardano le delibere Cipe di approvazione e finanziamento degli interventi. E' accaduto infatti che il Cipe, di cui è presidente il ministro del tesoro, abbia modificato le indicazioni dell'intesa sottoscritta dal Presidente del Consiglio, dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, dal Ministro dell'ambiente e per la tutela del territorio, dai Presidenti di Regione, come nel caso dell'intervento riguardante le Regioni Marche ed Umbria, relativo al cosiddetto "quadrilatero". E' accaduto pure che il Cipe abbia deliberato in assenza motivata della Regione interessata. Tutto ciò mentre la delibera Cipe dovrebbe dare esecuzione all'intesa e dovrebbe essere adottata in presenza dei presidenti di Regione alle sedute.
Per un buon rapporto tra Stato e Regione serve anche una programmazione realistica. Dobbiamo trovare la coerenza tra programmazione e dotazione finanziaria, senza di che gli accordi di programma con le Regioni diventano lunghi elenchi di opere destinati a rimanere sulla carta per l'assenza delle risorse necessarie. Serve commisurare dunque la programmazione delle opere alle risorse disponibili, che attualmente sono largamente insufficienti. Pensare ad un maggiore utilizzo di risorse private nella realizzazione delle infrastrutture è condivisibile; pensare di colmare lo scarto tra il fabbisogno e la dotazione è irrealistico. C'è il rischio infatti che la realizzazione del programma delle opere strategiche si fermi a quelle più remunerative, perché il ricorso al pedaggio, che non può essere generalizzato, nella maggior parte dei casi non è neanche conveniente economicamente, né praticabile politicamente, perché il prelievo trasferito in periferia sta diventando insopportabile.
Serve un nuovo patto tra Stato e Regioni. Le Regioni ricorrenti intravedono nel decreto attuativo 190 del 2002 un eccesso di delega rispetto alla pur contestata 443 del 2001 e ritengono che l'intervento normativo statale in ambiti formalmente spettanti al legislatore regionale, non permetterebbe neanche un procedimento di co-decisione paritaria.
L'intervento normativo statale successivo alla riforma del Titolo V ha avviato dunque una controtendenza neo centralista, creando contraddizione nel quadro normativo. Il contenzioso originatosi finirà per rallentare le procedure e farà mancare l'obiettivo dichiarato di velocizzare la decisione.
Come se ne esce, allora? La soluzione non può essere affidata solo al lavoro di corretta interpretazione delle nuove norme costituzionali. Il problema va affrontato e risolto anzitutto sul piano politico: serve un patto fra Stato e Regioni. Si dovrebbero concertare con le Regioni le linee fondamentali di un nuovo federalismo cooperativo, istituendo subito un tavolo di confronto, ed affrontare non solo la questione del riparto delle competenze, ma anche la questione delle zone grigie, che non possono essere eliminate per legge, ma che vanno gestite nel rispetto del principio che, nell'esistenza di un contrasto, questo non può risolversi con la negazione di un interesse, né quello generale né quello del territorio. Serve una composizione politica degli interessi, che la politica, quindi, svolga la sua funzione. Serve una seconda Camera delle Regioni e nel frattempo serve attivare la prevista cosiddetta "Bicameralina", la Commissione parlamentare per le questioni regionali.

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