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Armani


PRESIDENTE. Ha la parola Pietro Armani, Presidente della Commissione ambiente della Camera.

PIETRO ARMANI, Presidente della Commissione ambiente della Camera. Mi occuperò delle infrastrutture, anche se la mia Commissione ha competenza nell'ambiente che, pur essendo una competenza esclusiva dello Stato, è una materia trasversale che investe anche altri aspetti: tutela della salute, governo del territorio e così via. Vorrei concentrarmi sulla materia "lavori pubblici" nel quadro del sistema costituzionale italiano, perché questo è un tema di grande interesse, in quanto ci permette di misurare lo spazio che ancora dobbiamo percorrere per giungere, ad oltre un anno dall'entrata in vigore del nuovo Titolo V, ad una effettiva chiarificazione dei ruoli che ciascuno è chiamato a svolgere.
Il legislatore costituzionale del nuovo articolo 117 ha tralasciato di enucleare per lo meno una competenza statale nella disciplina legislativa dei lavori pubblici di interesse nazionale, ma in realtà con la riforma del 2001 si è andati anche oltre: da un lato è venuta meno quella distinzione che era presente nel vecchio testo dell'art. 117 tra lavori pubblici d'interesse regionale, che erano specificamente indicati e lavori pubblici di interesse nazionale che, pur non essendo indicati, per differenza emergevano. Dall'altro si è introdotta in linea generale una competenza esclusiva regionale per tutte le materie non espressamente attribuite allo Stato. Il combinato disposto di queste due novità introdotte dalla riforma costituzionale ha aperto la strada ad una interpretazione che vorrebbe l'intera materia ormai sottratta alla competenza normativa statale, interpretazione che ritengo insostenibile su un piano sistematico ma, ancora prima, su un piano logico e di buon senso e che pure è stata avanzata in alcuni recenti ricorsi dinanzi alla Corte costituzionale, ricorsi che peraltro stanno aumentando in proporzioni esponenziali.
Preliminarmente, in una sede interistituzionale come questa, mi sta a cuore chiarire un dato di carattere più politico e generale: rilevare questa difficoltà applicativa-interpretativa del nuovo articolo 117 e altre che pure vi sono non ha nulla a che vedere con una presunta volontà accentratrice dello Stato. Questo tentativo di rilevare difficoltà applicative è piuttosto da mettere in conto per intero alle oggettive incongruenze della recente riforma costituzionale, o per lo meno alle oggettive difficoltà interpretative.
Tali difficoltà derivano a loro volta dalle modalità e dai tempi con cui la riforma è stata varata.
Vorrei aggiungere con spirito costruttivo un secondo elemento. La Commissione parlamentare che ho l'onore di presiedere intende rispettare competenze giuridiche e rilievo politico delle autonomie territoriali e quindi, in primo luogo, delle Regioni. Ciò è dimostrato dagli stessi lavori parlamentari: mi riferisco alle audizioni dirette dei rappresentanti di Regioni ed enti locali, prima del varo praticamente di ogni provvedimento di rilievo; mi riferisco al valore - rinscontrabile nei nostri dibattiti - assegnato ai pareri della Conferenza unificata, pareri che hanno assunto in via di prassi un'importanza prioritaria e quasi un rilievo preclusivo rispetto alla prosecuzione dell'iter parlamentare. Tutto ciò per respingere il sospetto che il richiamo alle incongruenze del nuovo Titolo V nasconda una forma di neocentralismo o una minore sensibilità all'esigenza di proseguire sulla strada di una compiuta riforma in senso federale. Qui è utile fare riferimento alla legge 443 del 2001, la cosiddetta "legge obiettivo". Questa legge ci permette di considerare più da vicino quelle aporie o per lo meno quelle forti difficoltà interpretative dinanzi a cui ci ha posto il nuovo articolo 117 della Costituzione. Se il nostro Paese non si dotasse di un sistema efficace ed unitario di selezione di priorità in un settore strategico qual è quello dello sviluppo infrastrutturale, non diminuirebbe drasticamente la sua competitività e la stessa capacità complessiva di rispettare gli impegni assunti con i partners europei all'interno del Patto di stabilità? Si potrebbe obiettare: se lo Stato rinuncia o se allo Stato non è consentito di definire un quadro normativo speciale per le infrastrutture prioritarie ai fini di uno sviluppo strategico della nostra economia, potrebbero farlo al suo posto le Regioni attraverso normative autonome, ma reciprocamente armonizzate. Ma, perdonatemi l'ovvietà del mio rilievo, tale armonizzazione, per essere effettiva, non costituirebbe in se stessa una compressione di quella sovranità, cioè una finzione? E se invece fosse espressione di effettiva sovranità, chi garantirebbe l'efficacia e la coerenza del risultato finale?
C'è poi il problema finanziario. E' ammissibile, anche secondo l'interpretazione federalista più spinta, escludere in modo assoluto che lo Stato federale possa assegnare risorse straordinarie alla realizzazione di opere ritenute prioritarie per gli interessi economico-strategici dell'intero paese? E se questo non può essere escluso, come non viene escluso in nessuno degli ordinamenti federali e come fra l'altro viene ammesso dallo stesso art. 119 della nostra Costituzione, secondo quali norme dovranno essere programmate e realizzate le opere così finanziate? Secondo una normativa statale o secondo un collage di norme di fonte regionale?
Inoltre vorrei aggiungere ancora un elemento di riflessione, quello dell'urgenza. Ormai tutti concordano sul carattere di urgenza assunto da gap infrastrutturale italiano. Basta qui accennare al rischio che gran parte dei traffici commerciali sull'asse Europa sud occidentale-Europa orientale "bypassino" in futuro l'Italia, se le infrastrutture rientranti nel corridoio plurimodale n. 5 non verranno realizzate in tappe accelerate e con procedure speciali. Ebbene, il Parlamento ha legiferato per rispondere a questa priorità, che verificheremo durante il semestre di presidenza italiana dell'Unione europea, senza venir meno allo spirito di leale collaborazione richiesto dal nostro ordinamento. Ma il Parlamento ha potuto farlo proprio per il suo ruolo centrale nell'ordinamento e questo ruolo non costituisce una minaccia per le Regioni e non è un dato superabile. Questa vicenda della legge obiettivo, invece, dimostra come anche in un sistema federale sia imprescindibile una sede unificante in grado di orientare le risposte complesse, sempre più sollecitate da un'economia come quella contemporanea, in cui tutto è interdipendente.
So bene che uno Stato che pretendesse di fare tutto da solo, senza un dialogo permanente con i soggetti che amministrano a vario titolo il territorio, è oggi inconcepibile, ma passando ora a ciò che è accaduto sotto i nostri occhi dall'approvazione della legge n. 443 ad oggi, vorrei sottolineare come l'attuazione di questa legge è un processo complesso e articolato di cooperazione fra centro e autonomie. I rappresentanti delle Regioni lo sanno bene: si tratta di un processo attuativo caratterizzato da linee concertative e negoziali che stanno esaltando il ruolo delle autonomie locali, coinvolgendole realmente nei processi decisionali dello sviluppo strategico del Paese (al punto che spesso al Governo è stato rimproverato non già il centralismo ma l'errore opposto: l'essersi lasciato imporre dalle Regioni un elenco pletorico di opere prioritarie). La stessa vicenda dell'approvazione della "legge obiettivo" a cavallo sull'attuazione del nuovo Titolo V dimostra come una certa impostazione prima dell'attuazione è stata poi rettificata con l'intesa con le Regioni, inserita nella lettura successiva, dopo l'approvazione al Senato.
Sul piano dei rapporti con le autonomie, ciò che la legge 443 ha contrastato è solo il potere negativo di veto. Qui interviene, anche se non entra in questo problema del rapporto fra Stato e Regioni, l'articolo 14, che ridimensiona certe forme esasperate di ricorso al Tar, cioè il principio della prevalenza - da parte di coloro che erano esclusi dalle gare - dell'interesse più particolare sull'interesse più generale, ma questo a ben guardare è un sacrificio che si richiede sempre allorché, con una norma di fonte sopranazionale, regionale o statale si identifica un interesse generale degno di tutela. Guai a non riconoscere questo carattere distintivo di ogni norma giuridica o a volerlo erodere o mistificare: gli effetti negativi ricadrebbero non su questo o quel disegno politico, su questo o quello schieramento, ma sulla stessa autorevolezza delle istituzioni cui è affidata la salvaguardia del bene comune.
Per concludere vorrei ricordare ancora una volta che il quadro in cui il legislatore, statale o regionale, è oggi chiamato ad operare, è caratterizzato dalla complessità in un duplice senso: da un lato, in ogni settore assistiamo ad un intreccio di competenze, dall'altro nessun atto normativo è ormai autosufficiente e per questo occorre riformare sollecitamente, dal punto di vista costituzionale a mio avviso, il Titolo V.
Credo che la riflessione su questo dato oggettivo sia spesso più utile che non il semplice appello rituale ai principi di leale collaborazione e il caso dei lavori pubblici rappresenta, probabilmente, un esempio significativo di quanto ho tentato di dimostrare in questo mio breve intervento.

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