Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Vai al Menu di navigazione principale

Stemma della Repubblica Italiana
Repubblica Italiana
Bandiera Italia Bandiera Europa

Inizio contenuto

Caretti


PRESIDENTE. Ha la parola il prof. Paolo Caretti, Direttore dell'Osservatorio sulle fonti, dell'Università di Firenze.



PAOLO CARETTI, Direttore dell'Osservatorio sulle fonti dell'Università di Firenze. Avendo lavorato sugli stessi materiali, le considerazioni che farò sono in grande sintonia con quanto ha appena esposto il collega D'Atena. Il punto di partenza di questo intervento è la rilevazione del dato più innovativo, secondo l'opinione comune, del nuovo Titolo V, cioè l'inversione del criterio di attribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regioni e questa trasformazione dello Stato da soggetto a competenza generale a soggetto a competenza definita e la competenza regionale in parte concorrente e, in parte residuale, esclusiva.

E' una novità di straordinaria rilevanza, se si tiene conto del fatto che, contestualmente, si sono molto alleggeriti i limiti sull'esercizio della potestà legislativa regionale e soprattutto è venuto meno, nel testo del Titolo V, quel limite dell'interesse nazionale che funzionava come elemento di raccordo necessario tra scelte legislative regionali ed esigenze di carattere unitario.

La soddisfazione di questo tipo di esigenze non è certo problema che sia sfuggito in sede di riforma del vecchio Titolo V, ma esso è stato risolto con l'affidamento allo Stato di competenze esclusive, quelle cosiddette "di carattere orizzontale", e con la previsione del potere sostitutivo di cui all'art. 120, comma 2, della Costituzione.

Uno degli interrogativi principali che subito ci si è posti, è come avrebbero reagito i due protagonisti del processo di regolazione di fronte a una novità d'impianto così profonda. Ci si è chiesti cioè quali modificazioni esso sarebbe stato in grado di produrre su prassi ormai consolidate, emanate in un quadro costituzionale diverso, come si sarebbe arrivati all'individuazione delle cosiddette "materie innominate," in una parola ci si è chiesti se il tendenziale criterio di separazione che emerge almeno dal testo del nuovo Titolo V sarebbe riuscito davvero a sostituirsi da subito - e non solo nel dettato costituzionale, ma anche nel concreto svolgersi della legislazione - al modo di legiferare precedente, prevalentemente centrato invece sul criterio della concorrenza.

Il periodo che ci separa dall'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 ci consente di abbozzare qualche prima risposta a questi interrogativi, alla luce dell'analisi condotta dai gruppi di lavoro Camera-Regioni che sono alla base di questo incontro e di quelle condotte dall'Osservatorio fiorentino sulle fonti. Se a ciò si aggiunge l'esame dei pareri che spesso le Commissioni affari costituzionali di Camera e Senato sono state chiamate ad esprimere circa la compatibilità di disegni di legge governativi con i nuovi criteri di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni, i dati più significativi che ne emergono possono essere così riassunti: una tendenza ad un'interpretazione estensiva delle cosiddette competenze esclusive dello Stato e all'affermazione della possibilità di interventi legislativi statali in ambiti che hanno un'attinenza funzionale con materie riconducibili alla competenza anche residuale esclusiva della Regione. Penso ad esempio alla materia agricoltura. Una tendenza all'affermazione della possibilità di interventi, anche prescrittivi, dello Stato in materia, assegnati alla competenza concorrente delle Regioni, ma che più che ambiti materiali alludono a finalità assegnate alla legislazione statale: penso alla materia della tutela della salute. Ancora, una notevole incertezza circa la collocazione di alcuni settori materiali tra le competenze dello Stato o delle Regioni, anche in casi in cui tale collocazione sembrerebbe chiaramente desumibile dal testo costituzionale: è il caso di una delle materie innominate, quella dei lavori pubblici, la quale dovrebbe rientrare fra quelle affidate alla competenza esclusiva residuale delle Regioni, ma che presenta indubbie connessioni con altre materie di sicura spettanza statale come tutela della concorrenza, tutela dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali, e con il governo del territorio. Difatti, come è noto, il D.Lgs. 190 del 2002 risolve il problema recuperando il criterio del livello degli interessi coinvolti, alludendo espressamente ad opere di preminente interesse nazionale, recuperando quindi una nozione esclusa o comunque espunta dal testo del Titolo V e contiene una serie di disposizioni prescrittive nei confronti delle Regioni, salvo poi prevederne, in parte, la possibile, futura derogabilità da parte del legislatore regionale. Ancora, il permanere di una carenza sul piano della predisposizione di una legislazione statale organica di principio, a fronte del moltiplicarsi di normative statali settoriali a carattere temporaneo: è il caso, ad esempio, del D.L n. 7/2002, convertito in legge 55/2002, in tema di energia, che detta una disciplina transitoria valida fino alla determinazione dei principi fondamentali della materia, decreto cui si è poi sovrapposto, successivamente, un accordo raggiunto in sede di Conferenza Stato-Regioni e Stato-Città-Autonomie locali del settembre dello stesso anno. Infine una crescente rilevanza di accordi e intese raggiunti in sede di Conferenza Stato-Regioni, che finiscono con l'imporsi sia al legislatore statale che al legislatore regionale, accordi che in certi casi investono non solo il merito della disciplina del settore considerato, ma lo stesso profilo del riparto di competenze tra Stato e Regioni, come avvenuto per il settore del turismo.

Letti nel loro insieme questi dati, che emergono dalle esperienze del periodo successivo all'entrata in vigore del nuovo Titolo V, sembrano mostrare una notevole difficoltà nell'adeguamento dei modi della legislazione al nuovo modello costituzionale, dovuto in larga misura alle incertezze interpretative che esso pone, ma anche agli elementi di fluidità che il medesimo contiene e alle sue lacune; la tendenza al permanere di prassi precedenti in ordine ai rapporti tra legislazione statale e regionale anche in ambiti che formalmente dovrebbero fuoriuscire dall'ambito della legislazione dello Stato; la tendenza a far emergere tutti i possibili collegamenti funzionali tra ambiti e materiali contigui; la tendenza, condivisa da Stato e Regioni, a ricorrere, almeno per il periodo immediato della transizione dal vecchio al nuovo modello, a forme di partecipazione alla determinazione dei contenuti normativi, soprattutto nei casi di più difficile definizione dei rispettivi ambiti di competenza, anche al fine di contenere il contenzioso davanti alla Corte costituzionale, contenzioso che, seppure non irrilevante - sono attualmente pendenti 109 ricorsi in via principale - non ha assunto la consistenza paventata dai primi commentatori. Si tratta di tendenze che certo non sono prive di aspetti problematici, tra i quali, in primo luogo, il rischio di una progressiva decostituzionalizzazione della disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni quanto all'esercizio della funzione legislativa affidata al moltiplicarsi di procedure e soluzioni diverse da settore a settore.

Ma al di là di queste e di altre considerazioni che potrebbero farsi, l'esperienza di quest'ultimo periodo segnala un dato di carattere generale. Per quanto il modello formalmente disegnato dalla riforma appaia, come detto, ispirato prevalentemente al criterio della separazione, esso sembra avviato a conformarsi invece, piuttosto, nel senso della concorrenza, secondo una sostanziale continuità con l'esperienza precedente, con una differenza importante, tuttavia, nel modo di intendere il rapporto di concorrenza: non più, come per il passato, una concorrenza ispirata sostanzialmente al principio di supremazia dello Stato ma piuttosto una concorrenza giocata sul terreno di procedure che assicurano ad entrambi i legislatori la possibilità di incidere sul contenuto normativo degli atti che spettano all'uno o all'altro. Non è possibile stabilire, oggi, se questo dato debba essere inteso come il frutto provvisorio di una fase di transizione dal vecchio al nuovo modello, ovvero come l'indice di una esigenza non transeunte, ossia quella di assicurare comunque, stante il disposto dell'art. 5 della Costituzione, una coerenza complessiva al sistema legislativo, rispetto alla quale rischia di entrare in rotta di collisione una rigida applicazione del criterio della separazione.

In ogni caso, nell'una e nell'altra ipotesi, il dato richiamato sottolinea sin d'ora l'opportunità di una riflessione sui modi di svolgimento dell'attività legislativa del Parlamento e non solo sui suoi contenuti. Da questo punto di vista, in attesa della riforma promessa dal nuovo Titolo V e sulla quale ha richiamato l'attenzione all'inizio il Presidente Casini, appare di grande importanza l'avvio della soluzione transitoria rappresentata dalla integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali, secondo quanto previsto dall'articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, così come la sperimentazione di ogni altra possibile forma di collegamento tra Assemblee elettive che si affianchi, integrandola, all'esperienza maturata in questi anni nei rapporti tra Esecutivi. Questa appare la via maestra per evitare che i numerosi problemi interpretativi che oggi complicano, più che in passato, l'attività dei legislatori, vengano risolti esclusivamente dalla Corte costituzionale, alle cui decisioni non si può chiedere il grado di flessibilità che viceversa, molto spesso, la soluzione di quei problemi richiede.

Fine contenuto

Vai al menu di navigazione principale