COMMISSIONI RIUNITE
XIII (AGRICOLTURA) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
e 9A (AGRICOLTURA E PRODUZIONE AGROALIMENTARE) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di marted́ 10 maggio 2005


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA XIII COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI GIACOMO de GHISLANZONI CARDOLI

La seduta comincia alle 14,20.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso e attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti dell'ICE, dell'INEA e dell'ISMEA.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di rappresentanti dell'ICE, dell'INEA e dell'ISMEA, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli scenari delle politiche agricole nell'Europa allargata, che la Commissione agricoltura della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica hanno deliberato di svolgere congiuntamente, previa intesa dei Presidenti delle Assemblee.
Anche a nome del presidente della 9a Commissione agricoltura del Senato, senatore Maurizio Ronconi, do il benvenuto agli auditi.
Do la parola al presidente dell'ICE, professor Beniamino Quintieri, che è accompagnato dalla dottoressa Maria Cristina Brunetto.

BENIAMINO QUINTIERI, Presidente dell'ICE. Sono Beniamino Quintieri, presidente dell'Istituto per il commercio con l'estero. Questa è la prima audizione alla quale partecipo in queste Commissioni, ma ho visto che, sull'argomento, si sono svolti molti interventi in precedenza. Ritenendo che chi mi seguirà abbia competenze sull'argomento specifico della PAC, sicuramente maggiori delle mie, non intendo dilungarmi, anche perché la valutazione di una riforma è complessa e dipende, peraltro, dall'angolazione con la quale la si giudica.
Dal momento che, come sappiamo, la questione della PAC dovrebbe proseguire, teoricamente, fino al 2013, si pone un problema di scadenza. È vero che il 2013 è apparentemente lontano, ma credo che l'esperienza che stiamo vivendo, in queste settimane, nel settore tessile dovrebbe rappresentare un campanello d'allarme. Certo, c'è tutto il tempo per ovviare o per far fronte alle eventuali difficoltà che avremo nel 2013, ma in fondo otto anni non sono un periodo così lungo.
In passato, nel settore tessile, abbiamo più volte tentato di sensibilizzare le imprese. Naturalmente quelle medie, quelle più attrezzate, hanno avuto il tempo di organizzarsi di fronte al problema della liberalizzazione dei mercati, mentre molte altre imprese - la maggior parte - non hanno affrontato il problema con il tempismo dovuto. Questo è un aspetto certamente da sottolineare.
Penso che la presenza dell'ICE in questa sede debba significare un'attenzione maggiore ai problemi del settore, in una


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chiave internazionale. Ho visto che il tema è stato già affrontato anche dal viceministro Urso e dai membri delle due Commissioni.
Voglio dire qualcosa, innanzitutto, sui dieci paesi che si sono aggiunti ai 15 dell'Unione europea, ricordando brevemente alcune circostanze. In primo luogo, il settore agricolo contribuisce mediamente, in questi paesi, in una percentuale che oscilla dal 2 al 4 per cento. La prima osservazione da fare riguarda la forte differenza che esiste in termini di rapporto tra occupati e valore aggiunto. Oggi, in questi dieci paesi, l'occupazione nel settore agricolo ammonta al 17 per cento del totale, mentre il contributo al valore aggiunto è pari mediamente al 3,5 per cento. Per i 15 paesi che già facevano parte dell'Unione europea l'agricoltura pesa, in termini di occupazione, per il 4 per cento e, in termini di valore aggiunto, per il 2 per cento.
Dobbiamo osservare, dunque, oltre all'ovvio maggior peso in termini di occupazione e di PIL, che è legato anche allo stadio di sviluppo di questi paesi, anche il fatto che la produttività del lavoro è molto bassa e parte da livelli molto inferiori rispetto a quelli medi dell'Unione europea.
Il secondo aspetto da considerare è che, nonostante o proprio in ragione di questa bassa produttività, tutti i paesi, con la sola eccezione dell'Ungheria, oggi hanno dei disavanzi in questo settore, anche se le potenzialità naturalmente sono forti.
Per quanto riguarda gli scambi fra Unione europea e questi paesi, molto è già avvenuto negli anni '90, quando il processo di integrazione ha avuto inizio, quindi non si prevede un impatto molto forte dal punto di vista dell'integrazione commerciale. Su questo concordano i vari studi che sono stati effettuati e le stime che sono state fatte.
Da questo punto di vista, credo che sia abbastanza utile l'esperienza di paesi come il Portogallo, la Spagna e la Grecia, che sono entrati più tardi nell'Unione europea. Questi paesi avevano caratteristiche simili a quelle dei paesi che entrano oggi in Europa, ma il processo di adeguamento è stato piuttosto lento; ci sono stati incrementi di produttività, ma si tratta di processi che richiedono tempo. Da un lato, certamente l'abolizione di misure protettive aumenta le potenzialità per questi paesi, dall'altro ci sono degli standard che devono essere soddisfatti e questo fa sì che molte industrie, soprattutto quelle della trasformazione, oggi non siano più competitive, alla luce delle regolazioni dell'Unione europea, e questo implica una ristrutturazione del settore.
Per quanto riguarda la PAC, credo che non ci sia molto da dire, fermo restando che ho consegnato al presidente la documentazione, in tre copie. Oggi, sempre a proposito di bassa produttività, l'ingresso dei nuovi membri ha aumentato del 30 per cento il terreno agricolo disponibile, aggiungendo 30 milioni di ettari ai 130 dell'Unione europea a 15. Ma, a fronte di questo aumento del 30 per cento, la produzione agricola aumenta in una misura molto inferiore, proprio in ragione della più bassa produttività. Naturalmente, con l'aumento dell'efficienza il contributo aumenterà presumibilmente negli anni.
Sappiamo che oggi i nuovi paesi possono accedere ai benefici delle politiche delle unità di sostegno del settore agricolo, ma l'accesso è previsto in maniera graduale e si raggiungerà il 100 per cento solo nel 2013. Da un calcolo che è stato effettuato è risultato che, tra oggi e il 2013, un agricoltore appartenente all'Unione europea a 15 riceverà circa 7.500 euro, mentre un suo collega dei dieci paesi, nello stesso periodo, riceverà circa 2.000 euro.
Per quanto riguarda l'Italia, credo che, a fronte di questo scenario di allargamento e di futura eventuale abolizione della PAC, si pongano diversi problemi. Il primo, dal nostro punto di vista, è legato alla necessità di internazionalizzarsi in misura maggiore, parlando non solo delle imprese agroalimentari, ma anche delle imprese agricole. Oggi, per restare al settore della trasformazione, quello agroalimentare è diventato il secondo settore manifatturiero, dopo la meccanica, quindi è diventato un settore di primaria importanza, con mezzo milione di occupati. È


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un settore che, naturalmente, ha grandi punti di forza, ai quali accenno solamente, considerato che l'argomento è stato già sottolineato in precedenti incontri: la qualità, la ricchezza dell'offerta, la specializzazione in prodotti di nicchia. Ricordo, a tal proposito, che l'Italia è leader europeo nelle produzioni di qualità ed ha circa centocinquanta DOP e IGP. Oltre ai punti di forza che ho citato, però, questo settore presenta anche grandi criticità, ed è proprio su queste che occorre lavorare.
La prima criticità, ormai sempre più citata, è quella dell'eccessiva frammentazione del tessuto produttivo. La media di occupati per impresa è bassa, sia nel settore agricolo sia nel settore agroalimentare, e questo comporta una serie di effetti organizzativi: scarsa propensione al marketing, difficoltà nel raggiungere i mercati, proliferazione di piccoli organismi di rappresentanza, difficoltà crescente nella penetrazione della grande distribuzione, polverizzazione delle fonti di finanziamento, e via discorrendo.
A fronte di questa frammentazione produttiva si assiste, invece, a una forte concentrazione dal punto di vista delle esportazioni. Quasi il 70 per cento dell'export è indirizzato verso l'Unione europea a 15 e quattro paesi soltanto (Germania, Francia, Stati Uniti e Regno Unito) coprono il 55 per cento del totale del nostro export. Se già le esportazioni italiane si caratterizzano per un'eccessiva concentrazione verso i mercati tradizionali, questo succede ancora di più, per una serie di motivi, nel settore agroalimentare.
Uno degli obiettivi principali è quello di tendere a una maggiore differenziazione, che implica una capacità di raggiungere nuovi mercati. I nuovi mercati, però, sono quelli più lontani o quelli che si stanno sviluppando e questo richiede una serie di azioni, sia a livello di impresa sia a livello istituzionale, tese a rafforzare il sistema.
Oggi le esportazioni italiane - parlo sempre di agroalimentare - verso i dieci paesi che sono entrati in un secondo momento nell'Unione europea ammontano solamente al 4 per cento. Quindi, c'è ancora una grande potenzialità per aumentare l'interscambio.
Credo che quando parliamo di internazionalizzazione dobbiamo riconoscere la necessità di pensare non solo alla possibilità di esportare, ma anche di presidiare direttamente i mercati. Dobbiamo ricordare che la terra, per quanto importante, è solo un input di produzione, che necessita di essere combinato con altri input. Occorre sostenere l'idea di produrre «all'italiana», ma allargando agli altri mercati e producendo all'estero, soprattutto nei paesi dove, contrariamente a quello che succede altrove, l'Italia ha una presenza abbastanza forte, in termini di capacità di investimento (ho distribuito una nota sugli investimenti in entrata e in uscita nel settore, quindi chi fosse interessato può valutarla).
Voglio ricordare che assistiamo oggi a flussi di investimenti in entrata, soprattutto nel settore della trasformazione. A fronte di una forte frammentazione del tessuto produttivo - parlo, in questo caso, del livello industriale -, vi sono alcune multinazionali straniere che investono, concentrando l'offerta produttiva, ma forse non è questa la via migliore.
Desidero ricordare che, in passato, quando ci capitava di menzionare gli scarsi investimenti italiani all'estero e soprattutto la mancanza di multinazionali, citavamo spesso come esempi positivi la Parmalat e la Cirio, tra le multinazionali che si caratterizzavano per la capacità di investire all'estero. Questo è un elemento che occorre considerare.
Molto brevemente vorrei ricordare, oltre a quelli già citati, altri problemi che oggi rivestono una particolare importanza. Il primo è quello della logistica, aspetto sul quale anche l'ICE sta facendo molto, in quanto oggi la logistica è diventato un fattore fondamentale di competitività. Evidentemente paghiamo il prezzo degli scarsi investimenti e della scarsa attenzione che, in passato, si sono rivolti a questo problema. Dunque, credo che sia necessario puntare particolarmente sulla variabile strategica della logistica. È noto


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che anche paesi che partivano dietro di noi, come la Spagna, grazie a questa organizzazione sono riusciti a raggiungere ottimi risultati.
Mi preme accennare - sto procedendo molto velocemente, comunque sono pronto a rispondere ad eventuali domande - anche alla questione relativa alla contraffazione. A fronte di una grande qualità dei prodotti italiani e di una loro riconosciuta superiorità sui mercati mondiali, assistiamo a una forte presenza di prodotti contraffatti.
Personalmente vado spesso all'estero e visito i supermercati, dove si può avere un'idea di come l'Italia sia presente nei paesi stranieri. Ebbene, soprattutto nel continente americano, nei supermercati, colpisce la forte presenza di prodotti presunti italiani, ossia con nomi italiani. Abbiamo tentato di quantificare il fenomeno, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada - con l'ambasciatore Vento abbiamo svolto un lavoro congiunto -, e abbiamo appurato che il 90 per cento dei prodotti che sono spacciati per italiani di fatto non lo sono. Spesso si tratta di merce prodotta da emigrati italiani, che magari fanno anche parte delle nostre Camere di commercio, i quali legittimamente, una volta emigrati, hanno portato con sé le nostre tradizioni, ma questo rimane un grosso problema. Naturalmente, molto bisogna ancora fare per diffondere la cultura e l'informazione circa la qualità dei nostri prodotti, al fine di meglio identificare i veri prodotti italiani e distinguerli da quelli più o meno contraffatti.
Per quanto riguarda la promozione, ossia l'attività dell'ICE, su questa materia si sente dire di tutto e su di essa, francamente, avrei anch'io parecchio da dire, ma mi rendo conto di non avere molto tempo. La promozione comprende vari aspetti, primo fra tutti quello delle risorse. È difficile calcolare - ci abbiamo provato due anni fa - quante risorse vengano destinate alla promozione, in realtà, tutto il settore di fatto dispone di una quantità di risorse che non è trascurabile, anzi è abbastanza cospicua. Questo in ragione del fatto che anche le istituzioni più piccole (le regioni e via elencando), quando devono fare attività di promozione, partono con il settore agroalimentare, seguendo l'idea che promuovere il vino o la pasta sia più facile che promuovere un prodotto tecnologico. Comprensibilmente, quindi, tutti pensano all'agroalimentare quando devono promuovere qualcosa all'estero.
Le risorse sono tante, ma i problemi sono legati alla polverizzazione, allo scarso coordinamento, nonché alla qualità delle attività che vengono svolte a livello locale. Uno dei capisaldi della promozione è quello della reiterazione delle attività. In altre parole, iniziative mordi e fuggi, una tantum, normalmente non danno risultati. Bisogna puntare sul mercato con le modalità giuste e reiterare le iniziative, mentre prevale, soprattutto a livello locale, la logica dell'una tantum: l'idea è che un anno si fa una gita in un paese e l'anno dopo la si fa da un'altra parte, ma questo è certamente l'aspetto più negativo del federalismo applicato in questo campo. Ci sono aspetti teoricamente o potenzialmente molto positivi, che invece dovrebbero essere sviluppati. Su questo, però, tornerò fra poco.
Riprendendo il tema delle risorse che vengono destinate alla promozione, ribadisco che due anni fa abbiamo tentato di misurarle (un tentativo naturalmente difficile). L'ICE è l'istituto che di gran lunga dispone di maggiori risorse: non solo le ha di base, ma le riceve anche da istituzioni e, soprattutto, quasi la metà di ciò che l'ICE investe in questo campo proviene dal settore privato. Ho consegnato al presidente una tabella che mostra il rapporto tra quota del settore in percentuale e spesa percentuale in termini promozionali. Come si vede, il rapporto tra promozione e quota export è di gran lunga più alto in questo settore. Ciò non per decisione dell'ICE - non sarebbe nemmeno una decisione razionale, visto che dovremmo promuovere anche gli altri settori -, ma perché abbiamo una spinta diretta in questo senso dal settore privato, oltre che dalle regioni e dal Ministero delle politiche agricole e forestali che ci assegnano risorse da investire.


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Abbiamo calcolato che, per la promozione del settore agroalimentare, nel 2002 si sono spesi circa duecento milioni di euro. Si comprende, naturalmente, che è molto difficile fare un calcolo preciso, soprattutto a causa della grande frammentazione: quello che abbiamo verificato, infatti, è che ci sono circa duecento soggetti che hanno partecipato a questa attività, e non parlo di imprese ma di istituzioni. È evidente che è difficile coordinare duecento soggetti che fanno promozione, dunque uno dei primi problemi da affrontare è quello del mancato coordinamento e della scarsa rilevanza delle iniziative.
Ricordo che l'ICE, due anni fa, ha realizzato 100 progetti promozionali nel settore agroalimentare e 250 iniziative in 30 paesi. Attualmente stiamo cercando di ridurre il numero di iniziative, al fine di realizzarne meno ma di maggiore impatto. In ogni ufficio dell'ICE - ricordo che l'ICE è presente in 80 paesi - c'è un esperto del settore e nei mercati più importanti vi sono nove sezioni per la promozione dell'agroalimentare.
Tra gli obiettivi principali vi è, intanto, quello di ridurre la polverizzazione degli interventi, anche cercando di coordinare le iniziative delle regioni. Credo che ci sia, in questo senso, una domanda che viene dal basso, checché se ne dica. Dopo un inizio in cui tutti si erano lanciati a fare promozione, credo che molte regioni si rendano ormai conto, dopo essersi trovate sui mercati stranieri con altre regioni a fare le stesse cose, che questo non è il modo più efficiente di procedere. Pertanto, comincia a farsi strada una domanda di eventi più coordinati e, soprattutto, con una caratterizzazione nazionale. Non ha tanto senso promuovere il prodotto di una regione: come dico sempre, se dovessi chiedere a qualcuno dei presenti di indicare qualche regione del Giappone, penso che molti avrebbero difficoltà a farlo, mentre tutti conosciamo la qualità dei prodotti giapponesi in alcuni settori. Ebbene, lo stesso accade all'estero, dove nessuno conosce la Campania, la Puglia o la Lombardia, ma tutti conoscono la qualità dei prodotti italiani.
Naturalmente, l'obiettivo che si vuole raggiungere è quello di organizzare grandi «eventi contenitori», lasciando al loro interno uno spazio per le singole regioni. È giusto che le regioni più attive abbiano più spazio, ma è anche giusto che le iniziative vengano incorniciate all'interno di un evento nazionale.
È importante che la promozione agisca dal lato della domanda e dal lato dell'offerta. Con troppa superficialità si pensa che andare a fare degustazioni all'estero sia un'attività promozionale. Al contrario, si tratta di attività praticamente inutili. È importante attivare grandi campagne, sia di immagine che di informazione, ma è anche necessario agire dal lato dell'offerta. Non dobbiamo dimenticare che all'estero, in quasi tutti i paesi del mondo, a dettare le regole è la grande distribuzione organizzata. Se non si penetra la grande distribuzione si perde solo tempo. È giusto che i consumatori siano stimolati, ma bisogna convincere chi acquista i prodotti, quindi i distributori, a comprare i prodotti italiani.
Da questo punto di vista, al di là delle questioni logistiche che ho già citato, sulle quali stiamo lavorando, credo che ci sia un problema di dimensioni. Il presidente di Carrefour mi diceva che la sua azienda non prende nemmeno in considerazione imprese che non abbiano un fatturato annuo di diversi milioni di euro. Potete ben comprendere che poche imprese italiane hanno gli standard per arrivare alla grande distribuzione. È evidente, dunque, che da questo punto di vista sarà necessario - qui, a mio avviso, il federalismo è utile - che a livello locale si mettano in moto delle forze per far sì che le imprese si consorzino e producano beni di qualità omogenea, con un unico marchio. Un altro problema che abbiamo, infatti, è quello della frammentazione dei marchi, legata in qualche modo alla volontà di mantenere un'identità, ma oggi l'impresa familiare è troppo piccola rispetto a quello che il mercato richiede.
Di recente abbiamo assunto iniziative presso la grande distribuzione internazionale, dando spazio alle regioni e alle


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piccole imprese. Questa è una modalità che sempre più cerchiamo di perseguire: arrivare alle grandi catene lasciando spazio alle regioni. È evidente che nessuna regione o nessuna piccola impresa sarebbe mai arrivata da Harrod's, per citare un esempio, se non all'interno di un contesto nazionale.
Prima di concludere - ci sarebbe altro da dire, ma mi fermo qui -, voglio solo sottolineare che spesso sull'attività promozionale si tende ad esprimere giudizi con troppa superficialità e senza un'adeguata conoscenza. Certamente c'è da fare molto, ma troppe volte le critiche non colgono il segno.
Incontro spesso il presidente della Sopexa - che vedrò anche la prossima settimana - che ridacchiando sostiene che la nostra intenzione sarebbe quella di copiare il loro modello, un modello che, peraltro, è ormai abbastanza obsoleto. Ricordo, fra l'altro, che la Sopexa è finanziata per il 50 per cento dai privati, e credo che in Italia sarebbe abbastanza difficile pensare a qualcosa del genere. Noi ci spostiamo, infatti, verso modelli diversi. Qualche anno fa, lo ricordo, si guardava al modello canadese come modalità ottimale per organizzare la promozione di un paese. Ebbene, per fortuna non abbiamo seguito quel modello: l'anno scorso il Canada ha cambiato completamente la propria organizzazione, ispirandosi, di fatto, ad un modello molto più simile al nostro.
È difficile, quindi, capire l'efficacia dell'azione promozionale e noi cerchiamo di farlo. Ci sono notevoli difficoltà, ma spesso queste sfuggono e si fanno valutazioni distanti dai problemi reali.
Mi rendo conto di aver toccato numerosi argomenti e sono naturalmente disponibile a rispondere ad eventuali domande.

PRESIDENTE. Grazie, professor Quintieri. Ha facoltà di intervenire il dottor Arturo Semerari, presidente dell'ISMEA.

ARTURO SEMERARI, Presidente dell'ISMEA. Ringrazio il presidente e gli onorevoli senatori e deputati.
L'analisi di ISMEA si concentra sul mercato che, nell'attività di valutazione, è il principale oggetto delle nostre ricerche. Quando si parla di mercato non si può prescindere dagli equilibri mondiali, anche perché siamo in una fase di riapertura degli accordi WTO e si va, quindi, verso ulteriori aperture dei mercati mondiali.
Il consumo dei beni alimentari è previsto in crescita, a tassi particolarmente elevati nei paesi non OCSE, mentre nei paesi OCSE, dove i fabbisogni alimentari sono ampiamente soddisfatti, si prevede una crescita moderata, e con particolare intensità solo per alcuni beni, come carne avicola, formaggi e latte intero.
La produzione complessiva di frumento, riso, carne bovina, formaggi e oli vegetali crescerà ad un tasso maggiore dei consumi. Per la maggior parte dei prodotti agricoli, è prevista una crescita dei prezzi in termini nominali, ma una loro effettiva riduzione in termini reali.
Il ruolo dell'Unione europea a 25 è destinato a mantenersi determinante a livello mondiale, pur essendo soggetto ad un forte ridimensionamento nei prossimi anni. I paesi emergenti sono Cina, India, Brasile e Argentina. I mercati occidentali, quelli più maturi, sono destinati anche loro ad arretrare gradualmente rispetto ai paesi che presentano un tasso di crescita della popolazione e del reddito pro capite molto più elevato.
Anticipo che consegnerò una documentazione contenente numeri più dettagliati, che non sto qui a ripetere. Per quasi tutte le produzioni, le proiezioni di confronto fra oggi e il 2014 indicano un arretramento dell'Unione europea, ma anche degli Stati Uniti, sui mercati mondiali, in particolare per alcuni settori: nell'Unione europea, per i semi oleosi, per gli oli vegetali in generale, per le carni bovine e suine. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda i consumi. La crescita, invece, è soprattutto quella dei paesi che ho appena citato. Questo deriva anche dal fatto che si è ormai avviato un processo di riduzione dei sostegni all'agricoltura nei paesi più sviluppati e ci sarà, quindi, un incremento della competizione a livello mondiale.
Alcuni settori manterranno un buon posizionamento sicuramente fino al 2013,


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con l'approvazione della PAC, ma gradualmente questo processo, considerando l'Unione europea a 25 membri, è destinato a ridursi. L'approvazione della nuova PAC e le scelte di disaccoppiamento che sono state compiute determinano alcune condizioni di opportunità, in prospettiva, e alcune condizioni di pericolo.
L'opportunità consiste nell'assoggettamento ad una legislazione comune circa condizioni igienico-sanitarie e qualità delle produzioni, soprattutto per quei paesi non in grado di competere sul prezzo. Questo sicuramente potrà dare maggiori chances ai paesi della vecchia Unione a 15 rispetto ai paesi appena entrati, che potranno competere in condizioni migliori di prezzo.
Il pericolo della delocalizzazione produttiva dell'industria, che è reale, potrà essere in qualche modo limitato con la possibilità di aggredire, con produzioni di nicchia e caratterizzate da elevati standard qualitativi e sanitari, nuovi mercati che sicuramente si affacciano sia all'interno dell'Europa a 25 sia all'estero.
Il pericolo, nel brevissimo termine, è quello di un ingresso di prodotti poco controllati, che hanno un'alta competitività di prezzo. Questo è sicuramente il pericolo principale, a cui potrà seguire, in seguito ad una riduzione delle produzioni, anche una delocalizzazione dell'attività industriale, che può diventare pericolosa se accompagnata da riduzioni anticipate del sostegno ai redditi per gli agricoltori, riduzioni determinate non solo dall'ingresso di nuovi paesi come Bulgaria, Romania e in prospettiva Turchia, ma anche da rivisitazioni del budget a livello comunitario.
Le prospettive, attualmente, a livello dell'Unione europea a 25, sono le seguenti: riduzione delle superfici cerealicole; aumento del set-aside volontario, che si aggiunge all'aumento della quota di set-aside obbligatorio; stabilità delle rese e miglioramento atteso della qualità delle produzioni cerealicole; crescita modesta delle produzioni zootecniche, con conseguente stabilità nella domanda dei mangimi (questa accompagnata anche da un aumento delle produzioni foraggere, con una riduzione, quindi, dei prezzi); stabilità dei redditi agricoli nella UE a 15, a cui corrisponde un importante incremento dei redditi nei paesi di nuova adesione.
Qualche tempo fa l'ISMEA ha svolto una valutazione delle prospettive dell'applicazione della PAC, con le varie ipotesi (disaccoppiamento, accoppiamento parzialmente, e via dicendo), che sono state oggetto di una pubblicazione inviata a suo tempo alle Camere.
Il modello utilizzato da ISMEA - il cosiddetto MEG-ISMEA, che vuol dire «modello di equilibrio generale applicato» - considera le varie interdipendenze esistenti nel sistema economico e prende in considerazione non solo gli aspetti economici del settore agricolo, agroindustriale e dei servizi, ma anche gli aspetti di carattere sociale.
Dalle analisi svolte, in considerazione della scelta effettuata del disaccoppiamento, quindi del trasferimento del sostegno dal prodotto al produttore, scaturiscono prospettive per una riallocazione delle produzioni a livello nazionale. In particolare, così come avverrà a livello europeo, ci sarà un aumento del set-aside e un incremento delle produzioni foraggere, che porterà un beneficio in termini di costo per le produzioni zootecniche; si prevedono, altresì, situazioni sfavorevoli per alcuni comparti, in particolare per il frumento tenero, ma ancor più per il frumento duro e per la soia, oltre che per alcune produzioni industriali, come la barbabietola da zucchero.
Le eccezioni saranno quelle degli allevamenti, che invece dovrebbero risultare moderatamente incentivati da questa riduzione dei costi, ad eccezione del settore ovi-caprino.
Il rischio, quindi, è quello di una riduzione quantitativa delle produzioni, a cui non dovrebbe corrispondere un incremento reale dei prezzi, perché ormai, in questo scenario di apertura dei mercati, i prezzi sono su scala mondiale e non più su scala periferica. Ci sarà, pertanto, una riduzione delle produzioni (e dei costi, da un certo punto di vista), ma non ci saranno aumenti dei prezzi.


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L'impatto sul settore agricolo, in Italia, non dovrebbe essere particolarmente evidente per quanto riguarda l'occupazione. Si prevede sostanzialmente la stabilità del lavoro dipendente e una certa riduzione del lavoro indipendente. Ci sarà una sostanziale stabilità dei redditi delle imprese agricole, anzi un leggero incremento. Gli impatti sull'industria alimentare potrebbero portare ad un pericolo di delocalizzazione produttiva, mentre per assurdo - come proverebbero queste analisi - dovrebbero portare a un miglioramento della qualità, anche se a scapito della quantità, della materia prima e, quindi, ad un rafforzamento delle filiere di qualità, che hanno prospettive di sviluppo soprattutto sui nuovi mercati.
La riduzione delle produzioni sarà particolarmente evidente per la soia, per alcune colture industriali come frumento duro e frumento tenero, e l'effetto dei prezzi sarà evidente solo per quelle colture a destinazione industriale, per le quali c'è una stretta correlazione tra aree di produzione e trasformazione.
Abbiamo completato l'analisi con l'individuazione di un indice di vantaggio comparato dell'Italia e un indicatore che misura il grado di competitività del paese nel settore specifico. Questo indice assume un valore positivo quando il paese registra un vantaggio competitivo in un certo comparto, diversamente è negativo.
Nell'analisi relativa agli ultimi anni - e la situazione cambia a seconda che l'analisi riguardi l'Italia verso il mondo oppure l'Italia verso l'Unione europea, quindi verso un mercato più circoscritto - si nota che i settori dove l'Italia mantiene, pur con una leggera riduzione, un vantaggio competitivo sono quelli della frutta, degli ortaggi e del vino. Inoltre, registra un miglioramento, anche se permane un certo svantaggio competitivo, il settore dell'olio d'oliva. Questa è la situazione dell'Italia nei confronti del mondo, mentre nei confronti dell'Unione europea le dinamiche sono leggermente diverse. Ad esempio, il vantaggio nel settore della frutta si mantiene stabile, mentre nei confronti del mondo si riduce (questo vuol dire che questi i paesi emergenti porteranno una maggiore concorrenza); il settore degli ortaggi si mantiene piuttosto stabile, mentre nei confronti del mondo si assiste a una forte riduzione, si registra un miglioramento nel settore dell'olio d'oliva e un mantenimento del posizionamento nel settore del vino, mentre a livello mondiale, pur mantenendo l'Italia un vantaggio competitivo importante nel settore del vino, c'è una riduzione alquanto preoccupante.
Mi preme richiamare l'attenzione - cito, al riguardo, l'analisi realizzata dall'ISMEA in collaborazione con Federalimentare sulla catena del valore - sulla tendenza, che si va sempre più accentuando, di una riduzione, all'interno della catena del valore, ai danni del settore produttivo, sia della parte primaria, ossia della parte agricola, sia della parte di trasformazione.
Nel 1995 il peso del settore agricolo era l'8,7 per cento dell'intera filiera, nel 2000 è il 6,6 per cento e tende a ridursi ulteriormente. Il settore della trasformazione, che era al 31,1 per cento, è sceso al 26 per cento, mentre il settore che di gran lunga occupa gli spazi di valore aggiunto della filiera è quello del commercio e dei trasporti, che è passato dal 38 per cento al 44,4 per cento. Un leggero incremento si registra anche per la parte della ristorazione.
Questo è un altro elemento da considerare quando si valuta il settore agroalimentare come l'unico settore della nostra economia in controtendenza. Basti ricordare che il valore aggiunto del settore agroalimentare ha registrato, dal 1980 al 2003, un incremento del 148 per cento, laddove in altri settori, come quello tessile, di cui tanto si parla in questi giorni, si è registrata una riduzione del 30 per cento. È vero che, come ricordava il presidente Quintieri, il settore agroalimentare è diventato il secondo settore manifatturiero italiano, ma gli incrementi sono soprattutto assorbiti dalle fasi a valle del settore produttivo, in maggior misura dalla parte agricola, ma anche dalla parte di trasformazione.


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In sintesi, le analisi rilevano che, tendenzialmente, ci sarà una riduzione delle capacità produttive, quindi dei livelli quantitativi di produzione, e una tendenza importante a un miglioramento qualitativo delle produzioni, anche primarie (dunque anche in campagna, mentre in alcuni settori l'aiuto accoppiato non ha favorito questa tendenza). Si prevede, pertanto, un rafforzamento del settore agroalimentare di qualità, con destinazioni commerciali rivolte soprattutto ai paesi emergenti, dove, in termini di popolazione e di incremento del reddito pro capite, ci sono grandi possibilità di crescita.
Sulle commodities e sulle quantità non differenziate si prospetta, invece, un aumento delle importazioni, quindi una riduzione della capacità di autoapprovvigionamento.
Concludo qui la mia rapida illustrazione, dichiarandomi fin d'ora disponibile per eventuali delucidazioni.

PRESIDENTE. Grazie dottor Semerari. Ha facoltà di intervenire il professor Simone Vieri, presidente dell'INEA.

SIMONE VIERI, Presidente dell'INEA. Grazie, signor presidente, onorevoli senatori e deputati. L'ampliamento di cui ci occupiamo, che è il quinto dell'Unione europea, ha come caratteristica comune a tutti gli altri ampliamenti che lo hanno preceduto il fatto di aver allargato l'Unione europea a paesi che avevano ed hanno condizioni, soprattutto di carattere socio-economico, di maggiore arretratezza rispetto ai paesi che già ne facevano parte.
Questo è un primo elemento del quale dobbiamo tenere necessariamente conto. Del resto, l'allargamento crea le condizioni per l'accesso a nuovi paesi, ed è presumibile che tali nuovi paesi si trovino in una condizione di ritardo. Questa, per quanto ovvia, è una premessa importante, perché in questo caso, nel valutare gli effetti dell'ultimo ampliamento, notiamo significative differenze rispetto agli ampliamenti precedenti.
In primo luogo, il ritardo di sviluppo dei nuovi paesi aderenti all'Unione europea è molto più forte rispetto a quello dei paesi che erano entrati in occasione degli ampliamenti precedenti. Inoltre, occorre considerare che l'Europa, che riceve questi paesi, si è presentata con un livello del processo di integrazione molto più avanzato rispetto a quanto era accaduto in precedenza. Naturalmente queste due situazioni rendono l'impatto molto più forte e, sotto certi punti di vista, anche molto più preoccupante, soprattutto se ci riferiamo a dati economico-politici di tipo generale.
Penso non sfugga a nessuno che l'estensione di statuti, come il mercato unico e la moneta unica, a paesi come quelli che sono entrati nell'Unione europea lo scorso anno, pone dei problemi molto preoccupanti. È ovvio, infatti, che statuti di questo tipo funzionano bene se sono accompagnati da un'elevata omogeneità.
Sappiamo quanto l'Unione europea abbia investito nelle politiche socio-strutturali negli anni passati e sappiamo anche che queste politiche furono varate nel 1988, con il Piano Delors, quando l'obiettivo principale era quello di determinare le condizioni affinché nel 1993 fosse realizzato il mercato unico.
Questa preoccupazione di carattere generale trova inevitabilmente riscontro anche nelle tematiche agricole. Per chiarirne la portata, credo che possa essere utile considerare, in particolare, due numeri. Nell'ultimo ampliamento, il quinto, il PIL pro capite si riduce del 16 per cento rispetto alla situazione preesistente e, addirittura, la media del PIL, se facciamo uguale a 100 la media del PIL dei primi sei paesi che costituivano la Comunità Economica Europea nel 1957, con questi nuovi ingressi scende a 75. È come se tutta l'Europa avesse accusato un ritardo di sviluppo rispetto al parametro in base al quale si misura tale ritardo.
Sapete bene che l'accesso al cosiddetto Obiettivo 1 avviene quando la media del PIL è inferiore al 75 per cento rispetto ad una media europea. Questa considerazione, oltre a elementi di preoccupazione


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generale, ne introduce alcuni più specifici, che si riversano anche sul settore di cui ci occupiamo, ovvero l'agricoltura.
L'Istituto nazionale di economia agraria, negli anni passati, quando si parlava, nell'ambito della più ampia discussione relativa ad «Agenda 2000», delle ipotesi di ampliamento, realizzò uno studio dedicato a questo tema; uno studio che ho riportato, non perché sia attuale, ma perché serve da base storica di riferimento rispetto al materiale relativo al tema dell'audizione.
Questo tema, dunque, è stato già affrontato in passato ed è stato sviscerato nei suoi aspetti più importanti. Tuttavia, questa volta abbiamo focalizzato la nostra attenzione su tre aspetti, che a mio avviso sono quelli che è necessario considerare in questa fase: l'effetto dell'entrata dei nuovi paesi sull'applicazione della PAC, quindi il modo in cui la nuova PAC sarà applicata in questi paesi, l'effetto relativo alla distribuzione delle risorse per le politiche socio-strutturali, l'effetto sul commercio.
Rispetto a questi tre temi, possiamo osservare, in sintesi, alcuni elementi caratterizzanti. Per quanto riguarda l'applicazione della PAC, sappiamo che in passato c'era stata grande preoccupazione e ampia discussione riguardo al fatto di estendere anche a questi paesi gli aiuti diretti. È evidente che, trattandosi di paesi che in gran parte non avevano regimi di aiuto come quelli dell'Unione europea, estendere loro i nostri regimi di aiuto poteva significare ripetere l'errore storico che fu commesso con l'avvio della PAC, cioè incentivare la produzione in modo esagerato ed incontrollabile.
Sappiamo che questo argomento è stato oggetto di un dibattito molto ampio e prolungato, che si è risolto prevedendo una graduale estensione dei regimi di aiuto, che di fatto avverrà durante il periodo transitorio e in un modo sostanzialmente semplificato rispetto a ciò che accade oggi nei paesi che facevano già parte dell'Unione europea. Soprattutto, sappiamo che questi regimi di aiuto verranno applicati - e non potrebbe essere altrimenti - con quello che potremmo chiamare il sistema regionalizzato.
È ovvio che adesso diamo gli aiuti agli agricoltori che facevano parte dell'Europa a 15 sulla base di un periodo di riferimento, mentre in quel caso, non essendovi il periodo di riferimento, non si poteva che scegliere l'opzione della regionalizzazione. Verrà concessa, comunque, la possibilità di disaccoppiare e di utilizzare fino al 10 per cento del massimale per politiche particolari, così come accade per gli altri paesi.
È evidente che tutte queste circostanze, sebbene siano state definite, lasciano il tempo che trovano. Questo sistema, infatti, andrà a regime nel 2013, quando la riforma Fischler potrebbe addirittura finire o essere cambiata completamente. Oggi, quindi, ragioniamo di qualcosa che domani potrebbe non esserci. Pertanto, le considerazioni relative all'impatto che l'entrata di questi paesi provocherà sull'applicazione della PAC, francamente, non ci appassionano molto, né possono appassionarci, perché troppi sono gli elementi di incertezza in questo momento.
Di certo, sappiamo che l'applicazione della PAC in modo corretto, da parte di questi paesi, non può essere analizzata solo dal punto di vista dell'applicazione dei regimi di aiuto, quindi dell'erogazione di risorse. Vi sono numerosi obblighi da rispettare, anche relativi al funzionamento delle strutture amministrative, che sicuramente, allo stato attuale, suscitano qualche perplessità. Sappiamo - e in Italia lo sappiamo particolarmente bene - come sia difficile gestire certi regimi di aiuto, sappiamo, ad esempio, quanto sia stato oneroso, sotto tutti i punti di vista, gestire in Italia il regime delle quote latte. Ebbene, non so quanti di questi paesi, allo stato attuale, possano essere nelle condizioni di dire che, tra otto anni, saranno in grado di avere un sistema amministrativo capace di garantire una piena applicazione del regime della PAC. Questo è un altro elemento di preoccupazione.
Sull'applicazione della nuova PAC e su quale possa essere l'impatto derivante dall'entrata di questi paesi ritengo che, al momento, non si abbiano elementi particolarmente


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rilevanti per fare delle considerazioni che possano avere un valore di previsione, proprio per gli elementi di incertezza che ho riferito prima.
Elementi di incertezza sicuramente esistono anche rispetto al secondo tema, molto più importante dal punto di vista dell'impatto finanziario, quello relativo agli squilibri che l'entrata di questi paesi può determinare in ordine alle politiche socio-strutturali. È ovvio che quello delle politiche socio-strutturali è il principale strumento di cui dispone l'Unione europea per ridurre le differenze e, quindi, gli squilibri al suo interno. È normale, dunque, che questo strumento dovrà rivolgersi prioritariamente verso questi paesi, che, come abbiamo visto prima, si presentano con un ritardo di sviluppo.
Sotto il profilo agricolo, questi paesi, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno sicuramente realizzato una serie di riforme, anche importanti. Certe situazioni, quali la collettivizzazione o l'uso attraverso le cooperative statali dei fattori produttivi sono state superate. Sono state attuate riforme importanti e si è giunti a soluzioni estremamente diversificate. Vi sono situazioni, ad esempio in Polonia, in Slovenia o in Lituania, dove prevalgono decisamente le imprese piccole o piccolissime, mentre in Ungheria e nella Repubblica Ceca è stato compiuto un maggiore sforzo verso la realizzazione di strutture aziendali di dimensioni medio-grandi o anche grandi.
È ovvio che, comunque, non è questa una condizione di per sé sufficiente per far capire quale sia la condizione strutturale di questi paesi sotto il profilo agricolo. È evidente che, trattandosi di paesi che accusano un ritardo generalizzato sotto il profilo dello sviluppo economico, la situazione agricola e anche il peso dell'agricoltura, in questi sistemi economici, più che essere un effetto è l'espressione stessa del ritardo economico. Fa parte, dunque, dell'evoluzione normale dei paesi verso standard di sviluppo più elevato il fatto di avere, in questa fase, un'agricoltura più importante rispetto a quella che hanno i paesi che già facevano parte dell'Unione europea.
Sotto questo profilo, ci sono paesi che hanno una situazione abbastanza simile alla nostra, ad esempio la Slovenia, l'Ungheria e la Repubblica Ceca, ed altri che, invece, sono più indietro, come la Polonia, la Lettonia e la Lituania.
Rimane il fatto che tutti questi paesi accusano dei ritardi di sviluppo e, quindi, verso di essi tenderà a spostarsi una parte importante dell'intervento previsto nell'ambito delle politiche socio-strutturali.
Anche in questo caso, purtroppo, gli elementi di incertezza sono prevalenti, dal momento che siamo in una fase in cui è stato da poco avviato (lo scorso anno) il negoziato con la definizione del programma finanziario del periodo 2007-2013. Circa venti giorni fa, inoltre, la Commissione europea ha formulato una proposta abbastanza avanzata per la rivisitazione degli indicatori che servono per individuare le aree svantaggiate, tuttavia, le proposte al momento sul tappeto hanno trovato forte opposizione ed è, quindi, molto prevedibile che vengano riviste profondamente.
Di certo, a mio giudizio, gli elementi di maggior preoccupazione, relativamente alle politiche socio-strutturali, riguardano sostanzialmente un aspetto. Poiché viene confermata l'importanza primaria degli interventi dedicati alle regioni in via di sviluppo, quindi al cosiddetto Obiettivo 1, è evidente che, considerato il maggiore assorbimento di risorse verso questo canale di interventi, rischiano di essere penalizzate maggiormente - oltre alle regioni prima considerate in ritardo di sviluppo e che oggi, per motivi relativi, potrebbero non esserlo più - le aree che beneficiavano di interventi di sviluppo rurale (mi riferisco a quelle che erano prima le aree 5 B e che in questo ciclo sono state inserite nell'Obiettivo 2).
Questa impressione è fortemente confermata anche dalle proposte formulate alcuni giorni fa, tendenti a modificare gli indicatori che servivano per classificare queste aree. Sappiamo che gli indicatori


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tendevano innanzitutto a misurare dei fatti di tipo socio-economico. Quello che contava, finora, era il PIL pro capite, il valore aggiunto pro capite, la densità di popolazione, il tasso di variazione annua della popolazione e il numero di occupati agricoli sul totale della stessa.
Occorre dire, tra l'altro, che questi dati socio-economici - da questo punto di vista, la Commissione ha ragione - sono difficili da aggiornare, dunque spesso si finiva per stilare classifiche di ammissibilità sulla base di dati anche molto vecchi, addirittura con il rischio di utilizzare fotografie relative ad un censimento vecchio di 10-15 anni.
Ebbene, a livello di proposta, sono stati introdotti, in sostituzione di questi, degli indicatori che misurano fatti più prettamente agricoli: si parla, ad esempio, di una resa media cerealicola inferiore al 60 per cento; di almeno il 60 per cento della SAV a pascoli permanenti, insomma di parametri che determinano in maniera netta le aree che possono essere o meno classificate per avere accesso agli interventi di sviluppo rurale.
Questa proposta ha dato luogo, naturalmente, ad una formalizzazione. Alcuni numeri, che ho allegato alla nota che consegnerò, dimostrano che, in effetti, sebbene per l'Italia la situazione sia più o meno invariata, a livello aggregato è in atto un vero e proprio terremoto. Lo dimostra il fatto che le opposizioni non sono mancate: proprio uno dei paesi nuovi entrati, la Polonia, si è detto contrario. Questo è un punto interrogativo forte, perché sicuramente l'impatto nel settore delle politiche socio-strutturali sarà molto rilevante e rischia di andare a colpire non solo le aree che già erano in ritardo nello sviluppo, ma anche quelle che beneficiavano di interventi cosiddetti di sviluppo rurale.
Questo è un aspetto di cui dobbiamo tenere conto in maniera particolare, perché sappiamo che la riforma della PAC realizzata lo scorso anno stravolge l'originario assetto del sostegno comunitario. Pertanto, queste politiche di sviluppo rurale hanno assunto e assumeranno un ruolo particolarmente importante, in quanto è necessario che accompagnino - passatemi il termine - la riforma della PAC.
Questo è un elemento che, sebbene ancora pieno di incertezze, deve preoccupare, a mio giudizio, più di quanto non debba preoccupare l'applicazione anche a questi nuovi paesi dei regimi di aiuto della PAC.
Un altro aspetto che abbiamo considerato è quello commerciale. Abbiamo analizzato il commercio totale dell'Italia con i nuovi paesi, ma anche la situazione relativa ai cinque principali paesi che sono entrati nell'Unione, la Polonia, le Repubbliche Ceca e Slovacca, l'Ungheria e la Slovenia.
L'INEA produce ogni anno - mi permetto di aprire una piccola parentesi - un rapporto sul commercio estero dei prodotti agroalimentari, dal quale abbiamo tratto queste informazioni. Devo dire che la situazione è un po' diversa da quella che mi aspettavo. Personalmente mi aspettavo un rapporto commerciale più simile a quello che può esserci tra paesi avanzati e paesi in via di sviluppo o quasi. Al contrario, c'è un'integrazione abbastanza forte che si è completata negli anni passati. I rapporti mi pare che siano abbastanza normali, i flussi si sono ben consolidati. A livello aggregato l'Italia ha un saldo positivo con questi paesi, e ciò è sicuramente rassicurante. Nel corso del tempo si è ben delineata una specializzazione, che vede l'export italiano concentrarsi su alcuni prodotti: il primo fra tutti è l'uva da tavola, che ha un peso determinante (tra le prime voci vi sono i prodotti ortofrutticoli), ma è forte anche la componente dell'industria alimentare. I prodotti tipici dell'export italiano, dunque, sono ben rappresentati anche in questi paesi. Sul fronte dell'importazione la situazione è, ormai, ben delineata: importiamo molto, soprattutto prodotti zootecnici, ma questa è una buona integrazione, trattandosi di una voce rispetto alla quale siamo piuttosto deficitari.
Personalmente reputo abbastanza preoccupante il fatto che sia così forte, tra


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le prime voci, la presenza dei prodotti ortofrutticoli. Preciso che questa è una presenza positiva, anche perché, come giustamente ha rilevato il presidente dell'ISMEA, noi godiamo di un vantaggio comparato in questo settore che, però, è uno di quelli nei quali, in questi ultimi anni, abbiamo patito le difficoltà maggiori. Se guardiamo l'andamento nel nostro export agroalimentare, notiamo che più dei due terzi dei nostri rapporti commerciali si sviluppano all'interno dell'Unione europea, e questo fa decadere l'alibi dell'euro, al quale troppo spesso e troppo comodamente si addebita la colpa di alcuni risultati non proprio positivi.
È necessario, sotto questo profilo, prestare grande attenzione ai rapporti con questi paesi, che peraltro sono ormai maturi. Una tendenza risulta del tutto evidente, ossia che noi siamo più portati ad importare prodotti zootecnici, mentre ci siamo specializzati soprattutto nell'export di prodotti che possiamo definire mediterranei. Ebbene, proprio su questi prodotti rischiamo la concorrenza, non dall'esterno, ma dall'interno dell'Unione europea. Un fenomeno che, purtroppo, già stiamo pagando abbastanza caro in questi anni, tant'è che stiamo perdendo quote di mercato non solo all'interno dell'Unione europea, ma anche in Italia.
Bisogna prestare grande attenzione, soprattutto in sede di elaborazione delle politiche, alle azioni volte a favorire l'aumento della presenza dei settori agricoli nell'ambito delle filiere. È importante, quindi, il rapporto con la grande distribuzione, ma sicuramente è necessario uno sforzo per favorire l'organizzazione economica di queste imprese. I buoni rapporti con i settori a valle si riescono ad intrattenere soprattutto se si riesce a sviluppare un'organizzazione economica che consenta di muoversi su basi di pari dignità.
L'elemento rispetto al quale si possono esprimere considerazioni di tipo più conclusivo è proprio quello relativo agli aspetti commerciali e vale, per quanto mi riguarda, ciò che ho appena detto. Relativamente agli altri due aspetti, soprattutto a quello delle politiche socio-strutturali che probabilmente è il più rilevante, purtroppo non abbiamo ancora elementi che ci consentano di fare delle previsioni fondate.
Rimane il fatto - voglio rimarcarlo, visto che mi sembra che l'obiettivo dell'indagine sia anche quello di ragionare sulle politiche - che un aspetto importante è quello di mettere in atto politiche che guardino all'agricoltura non solo come ad un settore produttivo, ma anche in funzione del ruolo che essa svolge sul territorio.
L'azione che l'agricoltura può svolgere ai fini dello sviluppo territoriale è fondamentale e, in questo senso, un ruolo importante possono averlo proprio le politiche socio-strutturali, in particolare quelle di sviluppo rurale. Questo è proprio l'aspetto che presenta le maggiori incognite, ma è anche, a mio avviso, il punto cruciale. Infatti, nell'ambito di una politica come quella che è andata delineandosi in questi anni, che prevede un abbandono del sostegno al mercato, è ovvio che bisogna recuperare la centralità del ruolo dell'agricoltura nelle dinamiche di sviluppo territoriale. Per fare questo, un'attenzione particolare va rivolta proprio alle politiche socio-strutturali.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

FILADELFIO GUIDO BASILE. Grazie, presidente. Abbiamo ascoltato tre relazioni di estremo interesse ai fini della nostra indagine conoscitiva.
Professor Quintieri, ho trovato particolarmente interessante, delle tante cose che ha detto, la sua analisi in merito alle industrie di trasformazione, che lei ha definito, per lo più, non competitive, sottolineando il bisogno di una ristrutturazione di settore. A questo proposito vorrei chiederle, in particolare, cosa cambi nella politica dell'ICE in seguito all'allargamento dell'Europa. In altre parole, l'ingresso dei paesi PECO ha determinato un cambiamento di obiettivi, relativamente agli strumenti adottati dall'ICE?


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Ha fatto bene, professor Quintieri, a sottolineare più volte l'esigenza di un coordinamento degli interventi per la promozione. È vero, come lei ha affermato, che duecento soggetti che fanno promozione sono troppi. Credo che lei intendesse comprendere, in questo numero, tutti i soggetti che operano, anche a livello regionale, per la promozione. Questo è un tema estremamente interessante. Qual è, a suo parere, la soluzione? Quella di far capo al Ministero delle attività produttive? A questo proposito, l'ICE è in grado di formulare delle proposte?
Credo che lei non abbia affrontato, nel suo intervento, il tema della formazione. So che l'ICE da tempo opera in questo campo: rispetto all'Europa a 25, quali strumenti sono stati adottati nel campo formativo?
Una sola domanda, invece, voglio rivolgere al dottor Semerari. Quale metodologia adotta l'ISMEA? Come individua il modo e i soggetti a cui trasferire il patrimonio di dati e di informazioni che raccoglie?
L'analisi del professor Vieri, infine, con riferimento soprattutto ad alcuni problemi relativi all'eccessiva burocratizzazione del sistema amministrativo, che occorre rendere più efficiente, mi spinge a formulare la seguente domanda: quando l'Unione europea sarà a 27, 28, 30, 32 membri, aumenteranno i problemi e, quindi, «si ingolferà» l'esigenza di chiarire? Questo problema si porrà già dal 2007, allorché entreranno nell'Unione i paesi balcanici, la Turchia, e così via. Questi problemi certamente appesantiranno la situazione.

LINO RAVA. Grazie, presidente. Credo che le audizioni siano state estremamente interessanti e abbiano posto in luce il combinato disposto che stiamo vivendo: da una parte, la modernizzazione di agricolture europee che sono nostre concorrenti - pensiamo alla Spagna, un esempio eclatante di un processo rapidissimo di modernizzazione -, dall'altra, l'allargamento dell'Unione europea, con tutte le complicazioni e le incognite che il professor Vieri ha sottolineato con grande chiarezza. A completare il quadro, il processo di apertura dei mercati, che in questi anni ha avuto uno sviluppo straordinario.
Tutto questo porta, naturalmente, da un lato alla necessità di utilizzare alcuni strumenti di cui disponiamo - cito, ad esempio, la clausola di salvaguardia, uno strumento dell'Europa con il quale dovremo abituarci a convivere e che, sebbene si pensasse a un'applicazione eccezionale, probabilmente potrà aiutarci a sostenere questa transizione -, dall'altro a riconoscere che abbiamo bisogno di avere qualcosa di più dalla politica nazionale.
Abbiamo bisogno, in pratica, di un'innovazione politica che veda insieme Stato e regioni, in un concerto che porti davvero al rafforzamento del tessuto produttivo, all'organizzazione dell'offerta e a tutti quei processi che sappiamo essere necessari per affrontare in maniera valida il mercato. Dall'altro lato - e questo è uno dei temi che dovrebbero guidarci - è altrettanto importante, dal nostro punto di vista, sviluppare un sistema di ricerca.
Tale sistema deve rivolgersi ai prodotti - pensiamo, ad esempio, a quello che è successo nel campo agrumicolo, dove l'aver messo in commercio prodotti innovativi ha significato uno sviluppo del mercato, per alcuni paesi come la Spagna, molto più forte rispetto alla capacità del nostro paese di reggere la concorrenza - e ai mercati.
In questo senso, credo che sia davvero positivo il fatto che il dottor Semerari abbia indicato come un impegno principale dell'ISMEA l'analisi di mercato, vale a dire capire cosa succede a livello mondiale e cercare di attrezzarci di conseguenza. Proprio al dottor Semerari voglio chiedere come si possa far diventare questo importante lavoro di analisi uno strumento di orientamento produttivo, ossia un elemento utile, molto dinamico e flessibile, per individuare logiche di comportamento.
Il dottor Semerari ha citato, come elementi forti del nostro sistema agricolo, l'ortofrutta e il vino, settori che in questi ultimi mesi hanno qualche problema. Stando all'intervento che abbiamo ascoltato,


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si tratterebbe di un fatto contingente, ma la paura è che possa diventare un fatto strutturale. Lo dico anche pensando alle annotazioni del professor Vieri sull'innovazione che alcuni paesi europei hanno apportato.
Passo ad altra questione. Le commodities, proprio per le caratteristiche del nostro sistema agricolo, sono e saranno sempre più in difficoltà, e credo che questo sia un dato assolutamente condivisibile. A questo punto, considerato che le commodities sono una parte rilevantissima della produzione nazionale (la percentuale si aggira intorno al 70-80 per cento), dopo aver giustamente rilevato le difficoltà con le quali il sistema rischia di scontrarsi, è necessario dire cosa possiamo fare per evitare che queste difficoltà travolgano una parte così importante del nostro tessuto produttivo. È evidente che, da questo punto di vista, gioca un fortissimo ruolo la trasformazione (penso alla questione della filiera della carne, un elemento che può essere certamente importante), mentre un altro ruolo importante può essere svolto dai produttori no food, soprattutto con riferimento al campo energetico. Mi interessa sapere se, su questi temi, esista già qualche indicazione, qualche studio o qualche analisi, per riuscire a capire che cosa si può fare.
Infine, è vero - mi rivolgo al presidente dell'ICE - che duecento soggetti che fanno promozione rischiano di sprecare risorse. A questo riguardo, professor Quintieri, credo che il grafico che lei ci ha consegnato, con il differenziale tra la spesa di promozione e il risultato economico dell'export, sia significativo. È altrettanto vero, però, che proprio la ricchezza del sistema produttivo nazionale - quella ricchezza straordinaria che deriva soprattutto dai prodotti di qualità che sono stati citati, e siamo d'accordo che dobbiamo sostenerla il più possibile - porta inevitabilmente ad avere tanti soggetti di riferimento, perché tante sono le situazioni locali le cui produzioni hanno un risvolto notevole rispetto all'export.
Da questo punto di vista, credo che debba essere rafforzato il lavoro di coordinamento dell'ICE e di guida nei confronti delle regioni e degli altri soggetti, in modo che nessuno pensi di organizzare autonomamente una degustazione all'estero, che risulterebbe inutile, ma si possa andare, sotto un «cappello ICE», ad esempio alla Fiera di Bordeaux per presentare al meglio, insieme a tutti gli altri, i propri prodotti.
Rispetto a questo ambito, a mio parere, un rafforzamento dell'attività dell'ICE sarebbe necessario.

GIOVANNI PIETRO MURINEDDU. Penso che dobbiamo essere veramente grati agli esperti che sono stati auditi, non soltanto per il contributo di intelligenza che hanno dato al tema che stiamo affrontando, ma anche per i suggerimenti contenuti nelle loro relazioni.
La mia domanda - non so a quale dei tre esperti rivolgerla, dunque la rivolgerò a tutti e tre - riguarda il tema della delocalizzazione. Voi avete messo in evidenza il fatto che il rapporto con i paesi che si sono aggiunti ai 15 ha creato dei problemi e sicuramente ne creerà di più in seguito, sebbene sia in corso un processo di adattamento e di armonizzazione. Resta il fatto, comunque, che anche le imprese agricole stanno delocalizzando, così come tradizionalmente hanno sempre fatto le imprese industriali. Come considerate questo problema? Quali risposte, a vostro giudizio, dovrebbe dare l'Italia per evitare che ci sia questa emorragia di innovazioni e di conoscenze tecnologiche a favore degli altri paesi?
Dobbiamo tener conto del fatto che se si delocalizza, a mio avviso, è perché in Italia c'è una carenza nella rete dei trasporti, i costi di impianto sono eccessivi, la logistica incide dal 25 al 30 per cento sui costi, per non parlare di questioni che rimandano alla parcellizzazione fondiaria, quindi all'impossibilità di creare aziende sufficientemente competitive.
Può verificarsi, anche in questo campo, quello che succede per le imprese industriali? Intendo dire che le imprese delocalizzano, ma il nostro paese perde poco finché conserva l'innovazione tecnologica,


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la sua struttura culturale ed universitaria e la sua capacità di accedere ai grandi mercati.
Si può imitare, nel settore dell'agricoltura, la grande industria, oppure bisogna affrontare, in questo caso, temi molto più radicali di quelli che ci troviamo ad affrontare attualmente?
Questo, a mio avviso, è un aspetto che è necessario chiarire o comunque questa è una mia personale esigenza. Vi sarei grato, dunque, se mi deste una risposta che possa tranquillizzarmi.

ANTONIO VICINI. Sarò breve, in quanto le domande che sono state poste sono numerose e certamente condivisibili. Consentitemi, tuttavia, di svolgere alcune riflessioni.
Devo dire che quando si ha l'occasione di partecipare ad alcune iniziative - sono di Parma, quindi capite che ho un forte interesse al riguardo - si ha l'impressione che comuni, province, regioni, più che concertare, intorno all'ICE, strutture organizzate che obbediscano ad un sistema, stiano creando solo una grande confusione.
Allora, più che pensare di riformare l'ICE - spesso, in Italia, anziché riformare si distrugge, e in questo caso si distruggerebbe qualcosa che ha alle spalle una storia positiva -, non sarebbe il caso di evidenziare, con maggiore lealtà e sincerità, i veri punti critici? Non dovremmo cominciare a comprendere che l'integrazione europea, quella storica e quella allargata, richiede un insieme di politiche precise e puntuali, che dicano la verità, evidenziando gli aspetti positivi e negativi?
Si parlava giustamente di sviluppo rurale e di territorio. Come pensiamo di salvare la nostra agricoltura, intesa in senso lato (quella di collina, quella di montagna, laddove ci sono le migliori IGP e DOP), in un quadro dove sembra che ci sia più da dare che da ricevere? È evidente che quando ci si associa ai più deboli è facile che, almeno per una lunga fase, si debba dare più che ricevere.
Sembrerebbe, anche partecipando ad audizioni alla presenza di ministri e sottosegretari, che ogni tanto si verifichino delle rivoluzioni capaci di dare al settore agricolo uno sviluppo e un incentivo straordinari. Ci si accorge, poi, come dicevano i colleghi che mi hanno preceduto, che il settore dell'ortofrutta sta vivendo una crisi profonda e dobbiamo sostenerlo con provvedimenti straordinari, anche quando non abbiamo le risorse per farlo. Del resto, anche le produzioni DOP - cito alcune fra le migliori della mia realtà: parmigiano reggiano, grana padano, prosciutto - sono in crisi.
È necessario, innanzitutto, adeguare domanda e offerta. Evitiamo, dunque, di dare incentivi senza una logica, evitiamo di allargare i contributi al settore del prosciutto se già ne abbiamo qualche milione in più. Non possiamo certo esportare in Africa, dove si muore di fame, il prosciutto o il parmigiano reggiano. Abbiamo bisogno di aggiustare il tiro, abbiamo bisogno di politiche rurali combinate a livello europeo, che ci permettano di equilibrare domanda e offerta.
Devo ammettere che quella odierna è una delle audizioni migliori alle quali ho partecipato in questi quattro anni. Finalmente mi sembra che si cominci a dire effettivamente come stanno le cose, che non sono né di destra, né di centro, né di sinistra: si tratta dei problemi della nostra economia, che dobbiamo esaminare con maggiore attenzione e maggiore cognizione di causa.
Qualcuno vi ha chiesto a chi fornite i dati. Ebbene, dateli a tutti, alle associazioni di categoria, agli imprenditori agricoli. Ha ragione il collega Agoni quando afferma criticamente che il mondo agricolo ha bisogno di sapere di più, con maggiore puntualità. In Italia, infatti, rischiamo di spingere ad investire, per accorgerci, il giorno dopo, che abbiamo sbagliato gli investimenti, sprecando così risorse pubbliche e private.
Scusate la franchezza, ma le vostre relazioni provocatorie ed intelligenti, veramente all'altezza della situazione, ci permettono di svolgere riflessioni altrettanto intelligenti, come quelle espresse prima dai miei colleghi.


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SERGIO AGONI. Sarò molto breve, ma cercherò di non essere diplomatico come sono stati i miei colleghi, pur ringraziando naturalmente gli auditi per le loro relazioni esaustive.
Non spaventatevi, non parlerò di quote latte, né del comma 551 dell'articolo 1 della legge finanziaria. Il professor Vieri ha accennato a questo problema ed è veramente una vergogna che ancora oggi dobbiamo risolverlo: lo risolveremo, diamo tempo al tempo.
Stando a quello che ho sentito oggi, per bene che vada siamo rovinati. Il professor Quintieri ha parlato di contraffazione, riferendo addirittura che il 90 per cento dei prodotti spacciati per italiani in realtà non lo sono, mentre il dottor Semerari ha affermato che il pericolo deriva dall'entrata di prodotti non controllati. Qui non posso che ritornare al mio pallino, quello della sanità dei prodotti alimentari. Non risolvere questo problema significa non risolvere il vero problema della nostra agricoltura. Non possiamo permetterci, come produttori dei migliori prodotti al mondo, di avere la concorrenza di paesi dove non conoscono nemmeno la legge n. 626.
In questi giorni, nella mia azienda, ho provato a scrivere un elenco di quello che dobbiamo fare, noi agricoltori, a livello burocratico, senza parlare del costo di produzione vero e proprio: registri, fatture, addirittura dobbiamo conservare i sacchetti del mais che seminiamo, per la questione degli OGM, e via discorrendo. Non possiamo assolutamente sopportare tutto questo.
Credo che un tentativo di soluzione del problema zootecnico sia rappresentato dal disegno di legge che presenteremo in Commissione agricoltura al Senato. Tra l'altro, si tratta del risultato di due disegni di legge diversi - uno a firma di chi vi parla, uno a firma del senatore Rollandin - che la Commissione mi ha incaricato di unificare. Questo disegno di legge propone il microchip per ovicaprini e bovini. Continuo ad insistere sulle vacche da latte perché sappiamo tutti che il problema della carne e del latte viene dalle vacche da latte, che quando partoriscono producono latte e carne.
Mettere il paese nelle condizioni di sapere esattamente qual è la produzione di latte e la produzione di carne vuol dire non importare più prodotti simili alle «porcherie» che sono state scoperte un mese fa a Brescia e a Mantova. Brescia è la mia provincia ed è proprio vicino a me Ludriano, dove un pubblico ministero, per caso, ha scoperto una truffa di 5 milioni di quintali di latte scaduto. Se questo latte è stato prodotto in Italia, da vacche italiane, bisogna capire da dove provenga; ugualmente, se è stato prodotto in Francia o in altri paesi bisogna capire da dove provenga.
Il fatto grave è che questa scoperta è avvenuta casualmente, mentre il pubblico ministero Boccassini ascoltava un'intercettazione telefonica per indagare su un mafioso. Questo mi fa pensare che possa trattarsi della classica punta di un iceberg.
Un altro problema è quello della carne. Con questo disegno di legge - spero di portarlo in sede deliberante - potremmo non dover mangiare più «fiorentine» che vengono dall'Argentina, dal Brasile, dal nord-America o da chissà dove. Il provvedimento, che prevede l'esame del DNA (un deterrente enorme perché consente l'identificazione degli animali in modo inconfutabile), porterebbe chiarezza in questo campo.
Spero che questa iniziativa possa allargarsi anche ad altri settori, come quelli dell'ortofrutta. Una ventina di giorni fa, a Cesena, ho partecipato ad una riunione dove erano presenti migliaia di produttori ortofrutticoli che rappresentavano i propri problemi. Conosco, inoltre, i problemi dei colleghi che si occupano di olio extravergine, di agrumi della Sicilia, e via dicendo.
È necessario, innanzitutto, prevedere dei controlli seri sulle contraffazioni. Personalmente sono per la libertà del commercio: se c'è qualcuno più bravo di me, si faccia avanti e lo dimostri, ma se vogliamo correre i cento metri dobbiamo partire tutti da zero. Non è possibile che, nella stessa corsa, qualcuno parta da zero e qualcuno da dieci metri dall'arrivo. Se


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partiamo tutti dalle stesse condizioni, il migliore avrà spazio e gli altri dovranno cambiare lavoro. Insisto, però, sul fatto che tutti dobbiamo essere messi nelle stesse condizioni. Proprio in questo consiste il controllo. Chiedo un maggior controllo non tanto all'estero, quanto in Italia.
Nella zootecnia e nel settore dei formaggi c'è anche la produzione estero su estero. Ormai abbiamo casari che producono grana all'estero e lo esportano sempre all'estero. Queste sono concorrenze sleali contro le quali occorre prevedere alcune misure nell'ambito WTO, ma anche all'interno del nostro paese.
Se vogliamo salvare la nostra agricoltura, i controlli devono essere severi.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Quintieri, per iniziare un giro di brevi repliche.

BENIAMINO QUINTIERI, Presidente dell'ICE. Sebbene abbia appuntato tutto, diligentemente, non posso garantire che le mie risposte saranno adeguate.
L'onorevole Basile ha parlato di imprese non competitive, un tema davvero complicato. Certamente le imprese italiane, anche piccole, hanno degli asset competitivi forti, che di fatto hanno permesso al nostro paese di diventare, negli anni passati, uno dei principali paesi industrializzati.
Il problema è che, cambiando il mondo, cambiano anche le regole in economia e ciò che prima era buono può non essere adeguato in un altro momento. Evidentemente, per come è cambiato il mondo (ora ci sono mercati più lontani, si richiede più innovazione, marchi forti, e via dicendo - non voglio ripetere quanto è stato già detto -), la piccola impresa, a fronte dei vantaggi che sappiamo, presenta alcuni svantaggi per i quali rischiamo di perdere posizioni rilevanti.
Oggi abbiamo il problema di riorganizzarci per affrontare il mondo che è cambiato, senza pensare di poterlo fermare. Indietro non si torna, quindi non dobbiamo fare battaglie di retroguardia, ma prendere atto delle cose da fare.
Si è parlato di strategie nei confronti dei nuovi paesi che sono entrati nella Comunità europea, ma parlerei in generale dei Balcani, ricordando che fra poco entreranno Romania e Bulgaria, paesi che ci vedono in posizioni di primaria importanza. Siamo reduci dalla grossa missione del Presidente Ciampi in Bulgaria, dove sono giunti centinaia di imprenditori, come anche in India e in Cina. Per la Bulgaria, comunque, siamo il primo partner commerciale e l'area tra i paesi dell'est e i Balcani è l'unica al mondo, dove l'Italia investe, in primo luogo per la vicinanza, che permette anche alle imprese più piccole di investire senza dover andare in Cina, e poi per i costi bassi (questi ci sono anche in Cina, ma è un paese un po' più difficile da raggiungere).
Questa, dunque, è un'area strategica innanzitutto perché rappresenta un mercato che si sviluppa; inoltre, è interessante dal punto di vista produttivo, considerata la sua vicinanza all'Europa e alla Russia.
Passo direttamente alla questione della delocalizzazione, che è legata alla prima domanda e alle considerazioni svolte dall'onorevole Murineddu. Capisco che, dal punto di vista politico, il problema sia di difficile soluzione. È certamente più facile la posizione degli economisti rispetto a quelle di chi fa politica, che deve confrontarsi anche con i malumori che la delocalizzazione comporta, soprattutto per l'impatto nel breve periodo.
Questo problema ci porterebbe molto lontano, ma voglio solo ricordare che spesso si usa impropriamente il termine «delocalizzare», perché in alcuni casi, bisognerebbe pensare che produrre all'estero vuol dire anche localizzare. È evidente, infatti, che se ci sono nuovi mercati e se il mondo diventa più grande è necessario avere più unità produttive.
L'analisi non può essere generalizzata, ma normalmente gli studi svolti mostrano che le imprese che hanno «delocalizzato», alla fine si sono rafforzate. Qui non si tratta di affrontare il problema in termini assoluti, ma di valutare che cosa sarebbe successo a quelle imprese qualora non avessero delocalizzato. Il problema, dunque, è più complesso. Spesso la delocalizzazione è necessaria all'impresa per sopravvivere.


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Sempre per rispondere all'onorevole Murineddu, le imprese delocalizzano non perché siamo poco competitivi - in parte, forse, anche per questo -, ma perché ormai delocalizzano tutti, anche i paesi più competitivi. Il problema è che la scarsa competitività del nostro territorio implica, intanto, pochi investimenti nel nostro paese e forse abbiamo difficoltà a ritarare la nostra produzione su prodotti più sofisticati, su una maggiore innovazione, e via dicendo. Credo che combattere il fenomeno di produrre all'estero sarebbe controproducente; semmai, esso andrebbe disciplinato.
Tornando alla questione delle strategie di promozione, devo essermi espresso malissimo quando ho parlato di duecento soggetti che fanno promozione. Volevo semplicemente dire che abbiamo contato circa duecento soggetti, nei quali includiamo regioni, province, camere di commercio, che fanno promozione non sistematicamente.
In Italia - come avviene in tutti gli altri paesi - abbiamo la SACE, la SIMES e l'ICE ma abbiamo e avevamo alcune peculiarità. La prima era che il Ministero degli esteri si disinteressava di questioni commerciali, mentre in questi anni credo che abbiamo fatto grossi passi avanti. È stato anche approvato un disegno di legge che, come ho avuto modo di dire in altre circostanze, non mi è piaciuto affatto; non tutte le riforme si fanno per legge e questa legge, a mio avviso, peggiorava la situazione. È innegabile, comunque, che alcuni passi avanti siano stati compiuti, in primo luogo perché finalmente oggi gli ambasciatori si occupano di queste questioni. C'è un problema di lungo periodo, che è quello di formare gli ambasciatori in maniera più orientata alla cultura economica; spesso, infatti, essi svolgono un lavoro per il quale non sono stati adeguatamente preparati.
Una seconda peculiarità tutta italiana è l'eccessiva proliferazione di organi di rappresentanza. La frammentazione produttiva implica anche eccessiva frammentazione di rappresentanza. Credo che siamo l'unico paese al mondo dove c'è una Confindustria suddivisa su base regionale e provinciale, dove le camere di commercio sono suddivise anch'esse su base regionale e provinciale e si fanno concorrenza tra loro. Devo dire, tra l'altro, che Confindustria e camere di commercio hanno il problema che il centro non controlla la periferia e le province non rispondono alle regioni. Potrei raccontare decine di episodi in proposito. Recentemente in Germania si è svolta una fiera di prodotti alimentari: erano presenti la regione Sicilia, venuta con l'ICE, e la provincia di Ragusa che, in polemica con la regione, aveva uno stand fuori dall'area della fiera; come se non bastasse, il comune di Vittoria, in polemica con la provincia di Ragusa, aveva uno stand in altro luogo ancora. Potrei raccontare tante storie del genere.
Su questo argomento, tuttavia, sono abbastanza ottimista. Penso che abbiamo visto il lato peggiore del federalismo, dove tutti si sono buttati a capofitto scimmiottando quello che facevano gli istituti nazionali, non capendo che, in realtà, proprio in virtù di questa frammentazione, è importante il ruolo delle istituzioni locali, per coordinare e per porsi in maniera complementare, non sostitutiva. Finalmente adesso molti cominciano a capirlo, quindi, da questo punto di vista, recentemente raccogliamo dei segnali positivi.
Sulla formazione, come forse pochi sanno, l'ICE è l'istituto pubblico - a parte il MIUR, ovviamente - che fa più formazione in Italia e all'estero. Stiamo realizzando, nel settore dell'agroalimentare, un'attività di formazione e di informazione. Penso ai molti chef stranieri che portiamo in Italia, alla scuola di cucina di Colorno, dove siamo coinvolti, e via dicendo. Sui ristoranti italiani all'estero, che sono decine di migliaia, stiamo portando avanti, insieme ad altre istituzioni, un faticosissimo lavoro di selezione e di valutazione della qualità della cucina e dei prodotti. Abbiamo svolto delle campagne informative anche in Asia, ad esempio presso la Shangri-Là, la più grossa catena alberghiera. Svolgiamo, insomma, una serie di attività finalizzate ad una migliore conoscenza dei prodotti italiani.
L'onorevole Vicini parlava di eventi. Un aspetto importante dell'attività dell'ICE è


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che gli eventi vengono organizzati insieme alle imprese e, soprattutto, con le associazioni di categoria, che cofinanziano. Gli imprenditori tendenzialmente sono tirchi: magari comprano la Ferrari, ma se devono dare un euro per queste attività ci pensano due volte. È evidente che noi non facciamo nulla se le imprese non cofinanziano.
Con «Cibus Med», un'altra delle nostre iniziative, la settimana scorsa abbiamo organizzato, a Bari, la prima convention mondiale degli importatori di prodotti alimentari italiani. Abbiamo convocato queste persone (erano un centinaio) per discutere dei problemi che incontrano nel collocare i prodotti italiani sui vari mercati. Ebbene, mettendo insieme i consorzi del prosciutto, del parmigiano, della pasta e del vino, abbiamo fatto grandi campagne informative nel mondo asiatico: quella di Tokyo, ad esempio, su base triennale, finanziata quasi interamente con fondi privati, ha avuto un grande successo. Tra l'altro, su ottomila partecipanti, abbiamo vinto il premio per la migliore campagna pubblicitaria in Giappone.
Ultimo argomento è quello della contraffazione. Il problema più complesso è che, in alcuni casi, il termine contraffazione non è quello corretto. Se, ad esempio, un emigrato italiano produce pasta in Brasile e la chiama con il suo cognome, non possiamo tecnicamente dire che si tratta di contraffazione. Certamente non farà un grande servizio all'Italia, perché la pasta non sarà di grande qualità. Nel Parlamento brasiliano c'è addirittura una lobby molto forte di deputati di origine italiana che svolgono attività, appunto, di lobby contro i prodotti italiani. In parte, questo è anche inevitabile, in quanto si tratta di produttori locali che fanno il loro interesse.
Devo dire che non c'è bisogno di andare in questi paesi per trovare numerosi esempi di pirateria agroalimentare. Su internet potete acquistare il «parmesan», il provolone, il pecorino romano, l'asiago, tutti prodotti nel Wisconsin, o la robiola prodotta in Canada. Su questo si potrebbe dire tanto, ma mi fermo qui.

ARTURO SEMERARI, Presidente dell'ISMEA. Il patrimonio dati dell'ISMEA si basa su un'esperienza pluriennale, tra l'altro, con la certificazione di qualità del processo di raccolta dei dati (si parla di rilevazione dei prezzi, dei costi, dei consumi presso le famiglie, dei modelli econometrici, tra cui il modello MEG). Questi dati non solo si diffondono attraverso il circuito del SISTAN - ISMEA fa parte del Sistema statistico nazionale - quindi, una volta validati, entrano nelle statistiche ISTAT, ma danno origine anche a pubblicazioni, a forniture alle università, a tutte le regioni, alla Camera e al Senato: inoltre, essi sono fruibili attraverso il sito internet di ISMEA (www.ismea.it), al cui interno diversi link contengono i dati. C'è, quindi, un buon livello non solo di raccolta dei dati, ma anche di fruizione degli stessi.
Per quanto riguarda il quesito posto dall'onorevole Rava, il lavoro di analisi svolto da parte di ISMEA - un lavoro storico che si somma alle capacità tecniche della vecchia Cassa - è finalizzato non solo all'elaborazione ed alla pubblicazione dei dati, come ho appena detto, ma anche a supportare tutta la gamma di servizi che oggi ISMEA fornisce direttamente o tramite atti convenzionali con le regioni. Chiaramente attraverso gli atti convenzionali con le regioni si possono approfondire - e lo facciamo - con dettagli alcune materie specifiche, come gli agrumi per la Sicilia, gli ovicaprini per la Sardegna; altri temi di particolare interesse per altre regioni vengono regolati, appunto, attraverso questi atti di convenzione.
Riguardo alla produzione no food, che può rappresentare senza dubbio una prospettiva importante, soprattutto per la parte dei seminativi (questi vengono tolti dalle produzioni di commodities che, come si diceva, soffrono un po' di più per il cambiamento in corso), l'ISMEA ha avviato un'analisi e tra un po' di tempo si potrà vedere cosa ne scaturisce.
Per quanto riguarda i settori forti, ossia i settori - vino e ortofrutta - che tuttora mantengono un vantaggio comparato dell'Italia nei confronti degli altri paesi europei ed extraeuropei, non ho detto che la crisi che essi stanno attraversando sia congiunturale. Non sappiamo ancora se questa crisi rischi di diventare strutturale, ma sicuramente


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ci sono segnali di perdita di competitività, a cui bisogna rispondere in termini di politica nazionale, ed è quello che si sta facendo. Ad esempio, sempre limitandomi al ruolo di ISMEA, ritengo che le competenze e l'avvio dei servizi nel settore assicurativo e del credito possano concorrere a dare una mano a quegli imprenditori che, proprio in questi settori, sono da tempo e sempre più soggetti alla concorrenza europea e internazionale.
Questo tema si collega anche al fenomeno della delocalizzazione industriale ed agricola, questione sollevata dal senatore Murineddu. La delocalizzazione industriale è all'analisi del terzo rapporto che ISMEA sta predisponendo insieme a Federalimentare, quindi, anche su questo, avremo delle risposte. Inoltre, si affronterà anche il problema della delocalizzazione agricola. Più che di delocalizzazione, come diceva in precedenza il professor Quintieri, si deve parlare di localizzazione. Non è detto, infatti, che ci sia un abbandono di capacità produttive in Italia per portarle in paesi più competitivi a livello di prezzi, ma si tratta di investire in altri paesi.
La delocalizzazione, quindi, non deve essere considerata solo in termini negativi. Essa potrebbe costituire, come è avvenuto in altri settori economici, una circostanza in parte positiva, mentre è pericolosa la delocalizzazione selvaggia, ossia il rincorrere una collocazione delle produzioni laddove i costi sono molto bassi e si possono spuntare prezzi inferiori sui mercati.
Per quanto riguarda le considerazioni espresse dal senatore Vicini in ordine alle politiche di sostegno agli imprenditori, ribadisco che abbiamo attuato interventi sul lato assicurativo e del credito che possono sostenere effettivamente i redditi degli imprenditori, riducendo i rischi imprenditoriali e migliorando le condizioni di accesso al credito e, dunque, le possibilità di investimento.
Sulla parte del credito e su quella finanziaria non abbiamo ancora elementi concreti, che invece abbiamo nel settore assicurativo, con la gestione del fondo di riassicurazione, dove sicuramente l'impatto di una formula nuova di intervento pubblico sul mercato libero, che rimane libero e regolato dai suoi meccanismi, ha portato in brevissimo tempo ad un'inversione di tendenza del mercato. Infatti, si è passati da un mercato asfittico, che andava a chiudersi sempre più, con una riduzione dei volumi assicurati e un incremento delle tariffe, quindi dei premi pagati dagli agricoltori, ad un mercato in crescita (grazie a queste nuove formule assicurative) e ad una riduzione delle tariffe pagate dagli agricoltori. Sul credito, la riattivazione dei fondi interbancari di garanzia e le nuove formule di intervento a capitale di rischio sono sicuramente strumenti che possono concorrere per sostenere la capacità degli imprenditori italiani.
Concordo con il senatore Agoni sul fatto che possiamo sicuramente competere per quanto riguarda le caratteristiche sanitarie dei nostri prodotti. È vero, abbiamo meno armi per competere sui prezzi, ma è evidente che lo stesso prodotto, realizzato in condizioni sanitarie completamente diverse, non può stare sullo stesso mercato. Questo è un elemento importante ed è, indubbiamente, un vantaggio competitivo che bisogna sempre più far pesare sui mercati; mi riferisco alla sicurezza del consumatore nell'acquistare prodotti che nascono dal rispetto di una serie di regole che, in altri paesi, anche all'interno dell'Unione europea a 25, non sempre - per non dire quasi mai - vengono applicate.

SIMONE VIERI, Presidente dell'INEA. Per quanto riguarda la domanda del senatore Basile, relativa alle difficoltà amministrative, devo ribadire che nel mio intervento mi riferivo proprio alle difficoltà amministrative che i nuovi paesi entrati nell'Unione europea, e ancor più quelli che dovranno entrarci in futuro, incontreranno per adeguarsi ad una realtà che, ancora oggi, è molto amministrata. La PAC, nonostante tutto, è una realtà molto amministrata. L'impostazione delle istituzioni comunitarie, ancora oggi, è orientata al controllo dei fenomeni economici attraverso l'adozione di misure amministrative. Questa è una realtà di cui bisogna tener conto, ed io avevo fatto riferimento alle quote latte unicamente per richiamare, tra le altre, la realtà maggiormente amministrata.


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Questo aspetto, tuttavia, deve farci riflettere rispetto alle difficoltà che i paesi nuovi entrati e quelli che entreranno nell'Unione europea incontreranno sotto questo profilo. È evidente che non osservare certi obblighi di tipo amministrativo può costituire, come diceva il senatore Agoni, motivo di concorrenza sleale. Non è un caso che la proposta della Commissione, avanzata una ventina di giorni fa, per il piano finanziario 2007-2013, preveda numerose misure specifiche proprio per favorire l'adeguamento amministrativo, come misura di politica socio-strutturale, ossia integrativa a quella di base. Non a caso, si prevede che ci siano misure specifiche per i nuovi paesi entrati, per l'assistenza tecnica per la redazione dei programmi di sviluppo rurale. A noi fa quasi ridere, perché questo è un problema che risolviamo all'interno delle nostre amministrazioni, ma in quel caso si prevede addirittura un aiuto per scrivere i programmi. Siamo quasi al paleolitico dell'amministrazione.
Addirittura, è previsto un sostegno alle aziende che si impegnano a produrre un programma di adeguamento al complesso delle norme comunitarie, il cosiddetto «acquis» che dovrebbe essere raggiunto. Si prevedono misure specifiche per consentire alle imprese di avviare un processo di adeguamento alle norme, guarda caso, in materia di ambiente, di sanità, di benessere degli animali, vale a dire tutti quegli elementi sensibili a cui faceva riferimento il senatore Agoni, che da noi sono obblighi che dobbiamo rispettare e che comportano costi di produzione, mentre in paesi che si trovano ad operare sul nostro stesso mercato sono obblighi futuri. È innegabile che questi paesi, prima di arrivare a rispettare questi obblighi, non avendo il relativo costo, hanno un vantaggio competitivo.
Riguardo al tema della delocalizzazione, il senatore Murineddu ci chiedeva una risposta che lo tranquillizzasse. Spero di non inquietarla ulteriormente, senatore, ma forse sarà questo l'effetto delle mie parole, considerato quello che penso sull'argomento. Si è detto, giustamente, che dovremmo parlare di localizzazione, non di delocalizzazione. Alla fine, però, potremmo dire che la delocalizzazione è l'effetto della localizzazione. Bisogna capire, dunque, che cosa è oggi la localizzazione.
Viviamo un processo storico molto particolare, che è espressione del nostro tempo e con il quale dobbiamo confrontarci: la cosiddetta globalizzazione. Come ci si localizza, seguendo le logiche della globalizzazione? Le imprese che possono farlo - questo è un problema che non riguarda tutte le imprese, ma solamente quelle che hanno la capacità di muoversi in un certo contesto - vanno a localizzarsi in funzione delle logiche abbastanza semplici dell'approvvigionamento dei beni o dei fattori produttivi. Esse seguono la logica del miglior rapporto qualità/prezzo, sulla base delle loro strategie di crescita e delle loro finalità di profitto.
Il problema, sicuramente, riguarda l'industria alimentare, ma anche l'agricoltore, che difficilmente può essere un soggetto attivo in questo contesto, mentre rischia di essere un soggetto passivo. La localizzazione, o delocalizzazione, purtroppo produce effetti che ricadono particolarmente proprio sull'agricoltura, intesa non solo come settore produttivo, ma anche come complesso dei rapporti che la legano al territorio, altrimenti non parleremmo neanche di localizzazione.
Allora, la localizzazione diventa un aspetto estremamente pericoloso e difficile, che richiede grande coraggio, soprattutto da parte di voi politici. Nel momento in cui si delocalizza un processo produttivo non abbiamo solo un danno economico, né si verifica un vantaggio economico per qualcun altro. Prendiamo, ad esempio, il settore dell'agricoltura, con la complessità dei rapporti che presenta, che sono espressione di fatti che, spesso e volentieri, sono legati a tradizioni secolari, a situazioni socio-economiche estremamente complesse: in questo caso, andiamo a toccare non solo un aspetto economico, ma andiamo addirittura a mettere in discussione anche un sistema di diritti, e su questo dobbiamo riflettere.
Nel momento in cui cessa una determinata produzione, perché questa si sposta


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da un'altra parte o è messa in crisi da un'importazione da un altro paese, cosa avviene? Se, ad esempio, produciamo un formaggio di un determinato tipo, in un certo ambiente, e questa produzione è espressione di un processo secolare di tradizioni, richiede l'impiego di manodopera qualificata, la quale è protetta da norme specifiche, in questo caso non siamo di fronte alla realizzazione di un prodotto, ma ad un sistema di diritti. Quell'agricoltura, infatti, è inserita nell'ambiente, dunque entra in gioco il diritto alla salvaguardia dell'ambiente, il diritto al paesaggio, il diritto alla sicurezza alimentare. Pertanto, se delocalizziamo, provochiamo un danno non solo economico, ma anche sociale e, se vogliamo, anche sul piano dei diritti.
Allora, localizzazione e delocalizzazione si verificano perché è in atto un processo economico, storico, rispetto al quale non possiamo fare niente. Non possiamo certo opporci alla globalizzazione, non avrebbe senso. Tuttavia, ritengo che sia compito della politica fare delle scelte. Comunque, è evidente che in questo contesto, ossia quello determinato dalla globalizzazione, emergono delle realtà e che da ciascuna di queste realtà emergono degli interessi che spesso sono in conflitto tra loro.
Questa è una fase storica particolare, perché si va ad applicare la nuova PAC, si definisce il nuovo programma finanziario per gli interventi socio-strutturali, stiamo reimpostando tante politiche, anche a livello nazionale. Pertanto, ritengo che sia giunto il momento di scegliere quali interessi tutelare e quali obiettivi perseguire. È inutile parlare di sviluppo rurale, di qualità dei prodotti, quando poi si adottano politiche che portano risorse a settori che, invece, sono espressione di realtà in conflitto con quella che si dice di voler tutelare.
Il problema principale è compiere scelte chiare, non certo per opporsi alla globalizzazione, ma per trovare una nostra dimensione in questo contesto. Peraltro, questa è l'unica via che abbiamo per uscire indenni da questa fase. Se non troviamo una nostra dimensione, finiremo per essere spazzati via da un processo che, comunque sia, è inarrestabile, perché è frutto dei nostri tempi.
Se questa ottica è giusta, bisogna anche ripensare il discorso dell'innovazione e della ricerca. Non è sufficiente, se subiamo una delocalizzazione, conservare le proprietà intellettuali. Non dobbiamo accontentarci di questo, è troppo poco; così rischiamo di adottare la stessa politica portata avanti dalle multinazionali, che detengono la proprietà intellettuale ma vanno a destrutturare le realtà produttive sui territori.
Dobbiamo operare delle scelte chiare rispetto agli obiettivi che vogliamo perseguire. Penso che l'obbligo della chiarezza, in un momento così delicato, dobbiamo averlo, in modo da scegliere quello che vogliamo fare sulla base delle caratteristiche socio-economiche dei nostri territori, tenendo bene a mente che le vie sono soltanto due: o si patisce il fenomeno o si cerca di viverlo.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per averci dato un messaggio estremamente pragmatico, concreto ed estremamente esaustivo.
Dichiaro conclusa l'audizione

La seduta termina alle 16,30.