XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 1301




        Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge ripropone, seppure con alcune lievi modifiche, il testo già presentato dal Gruppo comunista nella XIII legislatura (atto Camera n. 6788 del 18 febbraio 2000).
        La proposta di istituire una tassa sulle transazioni internazionali in valuta di natura speculativa ha origini lontane. Risale al 1972 ed è stata, come noto, formulata dal professore James Tobin, premio Nobel nel 1981.
        La proposta era principalmente intesa a garantire una sostanziale stabilità dei cambi, scoraggiando gli attacchi speculativi di natura valutaria, accusati di provocare brusche fluttuazioni ai corsi delle valute e gravi danni per le economie.
        In quel periodo, l'economia mondiale stava abbandonando il regime di cambi fissi dettato dagli accordi di Bretton Woods per adottare un sistema di cambi flessibili, con l'obiettivo esplicito di favorire una più ampia liberalizzazione dei movimenti di capitale. Il rischio, dunque, che dalla liberalizzazione potessero derivare effetti negativi e destabilizzanti per l'economia, portò alla proposta di "gettare sabbia" negli ingranaggi della speculazione.
        James Tobin riprese la proposta nel 1978: essa diede luogo ad un dibattito in tutto il mondo, che ebbe momenti di particolare intensità e momenti di pausa.
        Intanto, il fenomeno aveva assunto ormai dimensioni talmente considerevoli - ed in continua ascesa - da non essere più ignorato.
        Secondo stime della Banca dei regolamenti internazionali, il volume giornaliero delle transazioni in valuta estera - che nel 1977 era pari a 18,3 miliardi di dollari - è passato a 820 miliardi di dollari nel 1992, a 1.230 miliardi di dollari nel 1995 e a circa 1.500 miliardi di dollari nel 2000.
        Si pensi che nel 1998, su duecentoquaranta giorni lavorativi, i movimenti di capitale ammontavano a circa 360 mila miliardi di dollari, mentre il commercio internazionale dei beni e servizi è stato stimato intorno ai 6 mila miliardi di dollari: un rapporto di 1 a 60 rispetto al rapporto di 1 a 3,5 del 1977.
        Nacque dunque, tra gli economisti e tra i politici, il convincimento che vi fosse uno stretto legame di causalità tra il selvaggio processo di liberalizzazione dei mercati (iniziato e mai interrotto dai primi anni settanta) e l'andamento tutt'altro che brillante delle economie capitalistiche, se si esclude l'economia statunitense. Quest'ultima, però, è stata sostenuta nell'ultimo decennio da un enorme boom del mercato borsistico (che negli Stati Uniti capitalizza una cifra di gran lunga superiore rispetto al prodotto interno lordo), dovuto soprattutto ad un forte processo di redistribuzione degli utili di borsa, grazie alla legislazione dei fondi pensione, dei fondi integrativi dei salari e dei fondi di investimento, che sono stati obbligati per legge a redistribuire dal 1995 al 2000 una cifra equivalente all'incirca a 30 milioni di miliardi di lire.
        D'altro lato, la crisi dell'ottobre 1987, le svalutazioni delle monete europee negli anni 1992-1993, il fallimento della Baring Bank di Londra, il tracollo del fondo speculativo Long Term Capital Management di New York, e, ancora, la crisi messicana, quella delle borse asiatiche, quella russa, quella brasiliana, quella turca e quella argentina hanno messo in evidenza i limiti e le contraddizioni di uno sviluppo fondato sulla assoluta libertà della finanza internazionale. La presenza di mercati sempre più integrati ha ampliato maggiormente il rischio di "propagazione" delle crisi finanziarie anche alle economie apparentemente più solide. Il volume delle transazioni ha raggiunto livelli così elevati da erodere la capacità di intervento e di contrasto delle Banche centrali e delle maggiori istituzioni finanziarie internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale), in occasione del manifestarsi di tali episodi.
        Queste crisi hanno poi portato alla ribalta i costi sociali connessi a tali movimenti speculativi. E' stato stimato che all'indomani delle crisi asiatiche, il reddito pro-capite, nei Paesi interessati dal fenomeno, è stato pressoché dimezzato.
        All'arricchimento di pochi ha corrisposto la destabilizzazione di intere economie e l'impoverimento di tanti.

Le reazioni nel mondo.

        A decorrere dagli anni novanta - a fronte dell'intensificarsi dei movimenti speculativi - sono riprese in tutti i principali Paesi proposte di varia natura aventi tutte l'obiettivo di colpire la finanza speculativa, da sempre avversaria di un corretto sviluppo economico fondato sul lavoro e sullo stato sociale.
        Nel 1992 e nel 1993, durante le crisi monetarie europee, e alla fine del 1994 con il crollo del peso messicano, la "tassa Tobin" riemerse; nel 1994, al vertice di Copenaghen, il presidente Francois Mitterand ne rilanciò l'idea; la stessa fu nuovamente evocata ad Halifax nel 1995, dietro le quinte della riunione dei sette Paesi maggiormente industrializzati (G7). Ogni volta, tuttavia, il progetto veniva rapidamente interrato, e la tassa sembrava condannata a vedersi sistematicamente qualificata come "idealista" e "irrealista".
        Nell'ottobre 1995, un gruppo di esperti ne intraprese uno studio organico, alla luce dello stato delle conoscenze in materia di movimenti di capitali e delle esperienze di alcuni Paesi nel campo del controllo dei flussi finanziari. Alcuni dei migliori specialisti dell'economia e della finanza internazionale - tra i quali i professori Peter Kenen, della università di Princeton, Jeffrey Frankel e Barry Eichengreen, dell'università di Berkeley - ne analizzarono l'impatto sulle politiche monetarie, con particolare riguardo alla sua capacità di stabilizzare i flussi finanziari, di consentire una maggiore autonomia ai singoli Paesi in materia di politica economica e di creare degli introiti considerevoli. Una raccolta di articoli fu pubblicata nel luglio 1996 dalla Oxford University Press. Malgrado qualche riserva formulata da alcuni studiosi, la maggior parte degli esperti concluse che valeva la pena che la tassa fosse seriamente considerata.
        Essa ha ricevuto, in seguito, il supporto di personalità assai diverse come Jacques Delors (presidente della Commissione europea dal 1985 al 1994), Boutros-Gali (Segretario generale dell'ONU dal 1992 al 1996) e Barber Conable (presidente della Banca mondiale dal 1986 al 1991).
        Più recentemente, il professor Paul Bernd Spahn, dell'università di Francoforte, si è occupato a fondo del problema, suggerendo una soluzione interessante.
        Il nucleo iniziale della proposta, quale strumento di regolazione dei tassi di cambio, fu arricchito da proposte concrete.
        Si valuta che la tassa - qualora venisse diffusamente applicata - potrebbe procurare un gettito rilevante che secondo alcune stime (si veda D. Felix, Open Economy Minsky-Keynes and Global Financial Crises, 1999) potrebbe aggirarsi tra i 180 e i 220 miliardi di dollari ogni anno. Al contempo l'ONU e la Banca mondiale hanno valutato in circa 225 mila miliardi di dollari la somma necessaria ad eliminare le forme peggiori di povertà e a garantire una protezione ambientale.
        Un'altra proposta circa l'impiego del gettito dell'imposta è stata avanzata, in sede europea, per finanziare interventi contro la disoccupazione (European Economists for an Alternative Economic Policy, Full Employment, Solidarity and Sustainability in Europe. Memorandum, 1998).
        Soprattutto nei Paesi europei, si è presa consapevolezza che l'adozione di tale tassa potrebbe essere utile per ristabilire la sovranità nazionale sulle politiche fiscali che, in un'era di liberalizzazione e di concorrenza fiscale, si è fortemente indebolita. Innanzitutto la liberalizzazione opera prevalentemente come fattore di blocco di politiche di bilancio espansive. Inoltre, la concorrenza fiscale in atto tra i diversi Paesi, anche all'interno della Unione europea, fa sì che la tassazione sui capitali tenda ad essere estremamente bassa. La Tobin tax potrebbe al contrario costituire una misura regolatrice della liberalizzazione dei mercati e della loro globalizzazione, invertendo così quel perverso meccanismo concorrenziale che favorisce il capitale speculativo a scapito del capitale produttivo e del lavoro.
        I Ministri delle finanze di Francia, Germania e Giappone, nel corso degli ultimi anni, hanno discusso di proposte intese a ridurre l'instabilità.
        Oskar Lafontaine, allora Ministro delle finanze tedesco, aveva insistito: "Non siamo a favore di tassi di cambio fissi, ma di tassi valutari stabili. Esiste una presa di coscienza, sempre maggiore, del fatto che i movimenti di capitali non devono servire la speculazione, bensì l'economia reale e gli investimenti. Non vogliamo che il capitale sia impiegato per creare bolle speculative" (16-17 gennaio 1999).
        Nel marzo 1999, il Parlamento canadese ha approvato una mozione per l'introduzione di una tassa sugli scambi valutari.
        Il 21 gennaio 2000, il Parlamento europeo ha affrontato decisamente il problema. Una mozione francese - che invitava la Commissione europea a presentare un "rapporto" - è stata appoggiata da 223 voti, ma è stata respinta da 229 voti contrari, mentre 36 deputati europei si sono astenuti.
        E' significativo che al voto contrario abbiano partecipato una parte dei laburisti inglesi, mentre socialisti, socialdemocratici e comunisti di tutti gli altri Paesi hanno votato a favore.
        E' ancora più significativo che ai laburisti inglesi contrari si siano aggiunti i leghisti italiani e i trotzchisti francesi.
        Si è trattato di una sconfitta che, anche per l'esiguo margine numerico (solo 6 voti di differenza), ha dimostrato la validità dell'idea di un intervento impositivo sulla speculazione internazionale.

Le reazioni in Italia.

        Le varie crisi che hanno colpito il sistema finanziario mondiale hanno provocato da tempo allarme in molti autorevoli studiosi ed operatori finanziari del nostro Paese.
        Essi da anni si pongono il problema della necessità di introdurre correttivi di carattere amministrativo sui movimenti speculativi di capitale, anche per cercare di rendere meno probabili quelle "bolle" che hanno compromesso la vita economica dei Paesi più deboli. Alcuni anni fa, uno dei centri di ricerca più seri del Paese, quello che si onora del nome di Luigi Einaudi, suggerì l'istituzione di un'uniforme tassa di bollo sulle transazioni che scoraggiasse eccessivi movimenti a breve termine e qualche norma generale su alcuni pericolosissimi destabilizzanti prodotti finanziari (i cosiddetti "derivati").
        Dario Segre, direttore generale della Westdeutsche Landesbank, ha spesso testualmente dichiarato: "Bisogna introdurre forme di controllo dei movimenti di capitali".
        Il presidente della Banca popolare di Novara, professor Siro Lombardini, in una conferenza all'università Bocconi, parlò di "misure fiscali con forme di controllo delle attività finanziarie".
        Alfredo Recanatesi, uno dei più autorevoli commentatori economici, ha scritto su La Stampa che: "L'attività sul mercato valutario deve essere regolata e chi non rispetta le regole deve restare fuori. Si vanta la libertà e l'autonomia dei mercati che giudicano l'operato dei Governi, senza dire che un conto sono i mercati formati da Paesi come la Germania, il Regno Unito, gli USA o la Francia, altro conto sono i mercati sui quali il bello e il cattivo tempo lo fanno le isole Cayman, o qualche "paradiso caraibico", o un tizio a Singapore che dal suo terminale può far saltare una delle più rinomate banche inglesi. Se il G7 vuole erigersi a direttorio del mondo è di queste cose che deve occuparsi; in caso contrario le sue risoluzioni sui cambi, sullo sviluppo, sulla occupazione rimarranno solo chiacchiere".
        Mario Deaglio, nel Quarto rapporto sulla economia globale in Italia, scrive: "La richiesta di limitazioni ai movimenti a breve di capitali, considerati come fonte principale di instabilità mondiale e privi di vera funzione economica, si è estesa nel 1998. Tale limitazione viene normalmente indicata come "Tobin tax", dal nome del premio Nobel che per primo la propose una ventina d'anni fa, e consiste in una tassazione a livello globale, di moderata entità, di tutte le transazioni finanziarie, che scoraggerebbe soprattutto quelle a breve termine. Si tratterebbe, insomma, di "gettare qualche manciata di sabbia negli ingranaggi", troppo lubrificati, dei movimenti internazionali di capitale. La "Tobin tax" ha implicazioni enormi, perché prevede, di fatto, una uniformità mondiale di trattamento fiscale e, una attenzione al mondo dei debitori, ispirandosi al diritto fallimentare degli Stati Uniti, notoriamente poco tenero con i creditori".
        Sergio Vaccà, direttore di Economia e politica industriale e docente al Politecnico di Milano, scrive testualmente: "Lo sviluppo di un'attività di regolazione dei movimenti internazionali di capitali si prospetta ormai come una necessità dopo le gravi e drammatiche conseguenze della crisi finanziaria asiatica (e non solo), che ha colpito la generalità dei Paesi del sud-est asiatico con la decisiva eccezione della Cina; ma al tempo stesso la crisi ha stimolato il superamento di atteggiamenti ideologici orientati ad una fiducia illimitata nel fondamentalismo del mercato, del laissez faire, della libera circolazione internazionale dei capitali.
        Si può ancora osservare che una politica di regolazione e controllo del movimento internazionale di capitali sollecita non solo lo sviluppo di istituzioni ad hoc (incominciando da ruoli più rigorosi delle singole banche centrali nazionali o di quelle di tipo regionale, come la Banca centrale europea), ma anche un vigile ed efficace intervento degli organi del potere "politico"".
        Luciano Gallino, uno dei maggiori sociologi italiani, nel suo ormai famoso libro "Se tre milioni vi sembran pochi", denuncia la "irresponsabilità organizzata dei flussi internazionali di capitale che rappresenta un freno per l'occupazione e la crescita e configura rischi di incidenti gravi per l'uno e per l'altra in molti Paesi".
        Roberto Panizza, professore ordinario di economia internazionale presso l'università di Torino, nella sua prefazione all'importante saggio di Alex Michalos "Un'imposta giusta", scrive: "La liberalizzazione dei mercati non ha portato ad una maggiore efficienza degli stessi. Tali mercati, nonostante l'ampliarsi delle dimensioni conseguite, sono sempre più condizionati dalle strategie degli operatori più potenti che distorcono le condizioni di competitività degli stessi".
        Anche autorevoli esponenti della vita politica italiana hanno preso coscienza della gravità del problema e hanno suggerito formule vicine a quelle della "Tobin tax".
        Tra i primi Giorgio Ruffolo, che, nell'agosto del 1997, così testualmente scriveva: "Non ci si può rassegnare al giudizio dei tribunali senza legge, come li chiamano, in un recente libro sulla mondializzazione, Martin e Schumann. Il mondo misterioso e minaccioso della finanza globale può essere ricondotto entro gli argini di una politica responsabile in tre modi. Primo: ricostruendo un accordo internazionale che metta fine al caos monetario innescato nel 1971-1973 con l'abbandono dei cambi fissi e con il tuffo nella fluttuazione dei cambi, dalla quale deriva in larghissima misura l'attuale sregolatezza. Secondo: ricorrendo, sulla scala internazionale più ampia possibile, ad una imposta sui trasferimenti di capitale del tipo di quella suggerita da James Tobin nel 1978 e da lui stesso riproposta nel 1995: un 1 per cento apparentemente modesto che tuttavia spazzerebbe via tutte le transazioni "marginali", quelle che muovono miliardi di dollari sulla base di differenziali di guadagno sottodecimali, e ridurrebbe drasticamente i flussi puramente speculativi, senza intaccare quelli diretti ad alimentare investimenti reali".
        Bruno Trentin, intervenuto sull'argomento, ha dichiarato: "Occorre una tassa antispeculazione che colpisca movimenti di capitale a breve".
        All'inizio del 1998, l'allora Presidente del Consiglio dei ministri, onorevole Massimo D'Alema, in un articolo sulla rivista Aspenia, così scriveva: "Ormai noi dobbiamo pensare a una sinistra capace di promuovere un movimento su scala mondiale per imporre, ad esempio, una tassa sulla mobilità mondiale dei capitali, la cosiddetta "Tobin tax", che prende il nome dall'economista democratico americano, e che regola la mobilità e costituisce su questa fase un fondo mondiale a favore dei Paesi più poveri".
        L'ex Presidente del Consiglio dei ministri ha successivamente ripreso l'argomento in una conferenza stampa all'università di Atene.
        Lo stesso ex Ministro delle finanze, onorevole Vincenzo Visco, tradizionalmente contrario a qualsiasi imposizione di questo genere, ha riconosciuto l'utilità di un controllo democratico a fronte della "insufficienza crescente dei tradizionali poteri nazionali e internazionali rispetto allo strapotere dei mercati". Egli peraltro ha confermato il suo pensiero sulla necessità di una convergenza e un accordo internazionale.
        La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica sono stati investiti del problema nell'ottobre e nel novembre del 1999, nel febbraio del 2000 e nel giugno del 2001.
        Il momento è maturo dunque per passare alla fase di attuazione.
        Siamo consapevoli delle difficoltà di natura squisitamente tecnica che tale provvedimento presenta. Sappiamo, in particolare, che un numero crescente di intermediazioni finanziarie, da e per l'estero, viene e sempre più sarà attuato attraverso INTERNET e che ciò comporterà un'ulteriore difficoltà all'applicazione di un'imposizione di bollo.
        Tuttavia, tali difficoltà di natura tecnica non devono fermare la volontà politica.
Esame dell'articolato.

        La proposta di legge si basa sull'idea di tassare le operazioni da e per l'estero di natura speculativa. E' bene riaffermare che non si intende colpire indiscriminatamente tutte le transazioni finanziarie, ma solamente quelle che non hanno come contropartita il trasferimento di beni o la prestazione di servizi, oppure le rimesse da e verso l'estero a parenti e familiari.
        Quindi il primo oggetto della delega che il Parlamento deve conferire al Governo è la definizione di operazione speculativa.
        La durata dell'operazione e lo strumento finanziario utilizzato possono già essere indicatori certi della natura speculativa dell'operazione.
        Infatti la maggior parte delle operazioni speculative vengono effettuate in tempi brevissimi, destinate a concludersi in poche ore. Inoltre, l'acquisto di alcuni strumenti finanziari (quali le operazioni di swap) avviene al solo fine di lucrare sulla differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita. Naturalmente, in alcuni casi tali elementi non sono sufficienti, ed è per questo che nella delega si è fatto riferimento alla finalità ed alla natura dell'operazione stessa, dando rilievo alla componente soggettiva della transazione.
        L'operazione speculativa può essere effettuata per il tramite di due o più transazioni e queste devono rappresentare la base imponibile del tributo. Per questo motivo, ricopre una fondamentale importanza la definizione delle caratteristiche tecniche che danno luogo all'applicazione della tassa in oggetto.
        Riteniamo che la base imponibile debba essere la più ampia possibile, includendo i più disparati strumenti finanziari, compresi i derivati. Non è rilevante, in tale senso, il mercato presso cui i titoli, i valori, le valute vengono scambiati. Sia il mercato primario che quello secondario costituiscono il contesto in cui gli speculatori operano. Soggetto passivo è lo speculatore, ovvero chiunque effettui operazioni speculative sul territorio della Repubblica, indipendentemente dal fatto che disponga la transazione a favore di un altro soggetto non residente ovvero sia il destinatario di una transazione dall'estero.
        L'aliquota proposta è molto bassa, pari allo 0,05 per cento, al fine di evitare possibili critiche sui potenziali rischi di fughe di capitali verso l'estero. Si può prevedere un'aliquota più elevata per le operazioni effettuate da o verso Paesi a fiscalità privilegiata (i cosiddetti "paradisi fiscali").
        Per la stessa ragione, l'imposta è congegnata in modo da non compromettere l'anonimato dei trasferimenti. Si tratta infatti di un'imposta di bollo (figurativa) applicata, dall'intermediario, alla transazione e non all'operatore che dispone la transazione.
        Tale provvedimento rientra nel novero delle misure di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale e va ricondotta nel più ampio quadro di misure che sono state proposte e adottate nel corso della XIII legislatura.
        Si ricorda, per memoria, che è stata presentata, nel luglio del 1999, la prima proposta di legge per l'introduzione nell'ordinamento italiano di una normativa speciale finalizzata al contrasto dell'elusione fiscale internazionale (correntemente denominata "normativa CFC"), che è già stata recepita nella legge 21 novembre 2000, n. 342.
        La riscossione del tributo avverrebbe in capo agli stessi intermediari. Gli scambi e le transazioni finanziarie sono, ope legis, accentrati, presso le banche, le società di intermediazione immobiliare, le società di investimento a capitale variabile, le società di gestione del risparmio e presso i soggetti abilitati a porre in essere transazioni finanziarie. Data l'obbligatorietà ad effettuare le operazioni presso gli intermediari, è dunque ragionevole attribuire loro lo status di sostituti d'imposta, che peraltro già oggi svolgono per la riscossione della imposta sul capital gain.
        Il gettito derivante dall'imposta sarà destinato ad interventi in favore dei Paesi meno sviluppati, in particolare: al sostegno delle politiche per la sicurezza alimentare; per la lotta all'AIDS; per combattere la fame nel mondo e per la cancellazione del debito dei Paesi poveri.




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