XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 206




        Onorevoli Colleghi! - Se il novecento ha visto l'affermazione della forza femminile, il nuovo secolo, in Italia, visti anche i recenti risultati delle elezioni politiche del 13 maggio, sembra riportare la rappresentanza femminile nel nostro Paese a tempi remoti.
        Scorrendo i nuovi "piccoli numeri" di donne elette, ne rinveniamo 64 alla Camera dei deputati (43 con il sistema uninominale e 21 con il recupero proporzionale) e 24 al Senato della Repubblica: 88 donne su 945 parlamentari per una percentuale del 9,2 per cento.
        Basti pensare che nella X legislatura (1987), la percentuale totale delle elette si attestava al 10 per cento e nella XII (1994) al 13 per cento e che per avere un numero così basso di donne elette al Senato della Repubblica bisogna tornare indietro di quindici anni. E questa rappresentanza nella seconda Camera ci porta nelle classifiche europee al di sotto della Repubblica Ceca e della Polonia (11 per cento), per non parlare della Svizzera (19,6 per cento) o del Belgio (28,2 per cento).
        Queste cifre vanno in controtendenza rispetto all'Europa. Paesi tradizionalmente attenti alla rappresentanza femminile sono riusciti ad aumentare la "pattuglia rosa" nelle istituzioni. La Spagna ha difatti portato la percentuale delle donne elette al 21,6 per cento, il Portogallo al 17 per cento.
        Paradigmatico poi l'esempio della Francia. Grazie all'iniziativa del Ministro Jospin, e dopo un lungo e faticoso dibattito parlamentare, si è raggiunto un provvedimento modificativo dell'articolo 3 della Costituzione francese, con cui si dispone che "la legge favorisce l'eguale accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive", nonché dell'articolo 4, che impegna direttamente il partito politico ad adottare misure promozionali volte al riequilibrio della rappresentanza dei due sessi. Alla modifica costituzionale hanno fatto rapidamente seguito due leggi ordinarie, una delle quali ha statuito la formazione di due delegazioni parlamentari presso le Assemblee sui diritti delle donne e sull'attuazione della parità tra i sessi; l'altra ha introdotto l'obbligo di una pari presenza di candidature di uomini e donne per le elezioni amministrative, che avvengono per voto di lista. Ed i risultati non si sono fatti attendere dal momento che le elette, nell'ultima tornata amministrativa d'oltralpe sono al 48 per cento contro il 21 per cento delle precedenti elezioni.
        Scorrendo gli altri numeri della rappresentanza femminile nel nostro Paese, si evince invece come in Italia siamo sempre più lontani da una parità reale e sempre più vicini ad una democrazia incompiuta.
        Nelle consultazioni del giugno 2000, la presenza femminile italiana sugli scranni del Parlamento europeo è passata da 12 a 10 seggi, ovvero dal 13,8 per cento all'11,5 per cento, con una diminuzione del 2,3 per cento. Come dato comparativo basti pensare che la presenza femminile nel Parlamento europeo è aumentata dal 27 al 30 per cento, e che Francia, Germania, Austria, Spagna ed Olanda hanno superato un terzo di presenza femminile).
        Le donne sindaco rappresentano il 6,4 per cento del totale, così come le donne presidenti di provincia il 5,8 per cento ed una sola donna, Maria Rita Lorenzetti, riveste il ruolo di governatore di regione.
        Le donne consigliere di regione dopo le ultime consultazioni sono passate dal 13 per cento al 9 per cento, così come nella pubblica amministrazione le donne presenti nei ruoli dirigenziali oscillano tra il 5,4 ed il 7,8 per cento.
        Queste cifre sono il segno evidente di un profondo deficit di democrazia, di una cittadinanza incompiuta. Se a queste cifre va poi ad aggiungersi il dato sull'astensionismo elettorale, laddove quello femminile mantiene livelli più alti di quello maschile (30,6 per cento contro 27,6 per cento), il quadro è completo e l'immagine che se ne desume è quella di un rapporto controverso tra donne e politica. Si tratta di un percorso complesso, costantemente segnato da luci ed ombre, laddove nessuna conquista rappresenta una assoluta garanzia per il futuro.
        Ma le donne rappresentano una risorsa fondamentale per la democrazia e per il processo di modernizzazione del Paese. E lo hanno dimostrato, con i fatti, nel corso della legislatura che si è appena conclusa. Vale la pena di ricordare, infatti, che sono state proprio le donne elette in Parlamento, o rappresentanti nel Governo, a proporre e a far approvare la maggior parte delle normative in campo sociale, superando a volte i limiti degli stessi schieramenti politici. La legge n. 269 del 1998 sullo sfruttamento sessuale dei minori, la legge n. 285 del 1997 sulla promozione dei diritti dell'infanzia, la legge 53 del 2000 sui congedi parentali, l'articolo 18 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, la legge n. 154 del 2001 contro la violenza nelle relazioni familiari, che ha previsto l'allontanamento del coniuge violento, non avrebbero avuto luce se le donne non ne avessero sostenuto con forza, la necessaria approvazione. Le donne hanno dimostrato di essere testimoni vigili ed attente dell'applicazione delle norme e dell'affermazione dei diritti dei soggetti più deboli.
        Quindi, nonostante sia evidente che la democrazia ha bisogno delle donne, è altrettanto evidente che esiste una forbice tra il Paese reale e la sua rappresentanza politica.
        E' un dato di fatto poi, che le donne, che sono dotate di minori risorse economiche ed organizzative, si trovano svantaggiate quando aumenta la competizione. Lo sono all'interno del loro partito per essere candidate (in genere si preferisce chi ha maggiore potere nella politica e nella società), e sono poi svantaggiate all'esterno, nella ricerca dei voti di preferenza o nello scontro con il candidato dell'altro blocco.
        La trasformazione che più ha nuociuto alle donne è quella in senso eccessivamente leaderistico del sistema politico. In partiti sempre più verticistici, il potere reale si è andato accentrando in una piccola élite riunita attorno al capo, fatta di persone fidate che condividono lo stesso impianto culturale e lo stesso senso del potere (quasi per forza di cose sono uomini come lui). Nel nostro Paese la parola "leader" si coniuga assolutamente al maschile.
        Tutti questi elementi, soggettivi ed oggettivi, concorrono a determinare l'arretramento della presenza femminile nelle istituzioni rappresentative nel nostro Paese, e tutto questo avviene in controtendenza, si è già detto, con i Paesi europei.
        In molti Stati infatti lo squilibrio di rappresentanza è stato sanato grazie all'utilizzo di correttivi. Nei Paesi di tradizione socialdemocratica o laburista, ad esempio, si sono date regole che fissano quote di rappresentanza femminile negli organi direttivi e nelle liste elettorali. Nei Pesi Bassi è il Governo stesso a finanziare le candidature femminili; in Belgio è in vigore una legge che prevede una percentuale minima di candidati dello stesso sesso per ogni lista. In questi giorni il Parlamento belga sta inoltre costituzionalizzando il principio dell'equilibrio della rappresentanza. In Finlandia sono state definite quote nelle assemblee locali e nelle nomine governative.
        In Italia è dalla situazione descritta che bisogna ripartire. Le leggi elettorali del 1993, che prevedevano per consigli comunali e provinciali una rappresentanza non superiore ai due terzi per ciascun sesso e per le elezioni alla Camera dei deputati l'alternanza paritetica uomo-donna nella quota proporzionale, sono state abrogate dalla sentenza della Corte costituzionale n. 422 del 1995, nonostante i risultati positivi riscontrati (nelle amministrative le donne avevano raddoppiato la loro presenza, passando dal 6 per cento al 13 per cento).
        Con la sentenza della Corte le quote sono state quindi frettolosamente abbandonate, senza che nel Paese si sviluppasse un dibattito o i legislatori individuassero altri correttivi per incentivare la presenza femminile nei luoghi decisionali, non rispettando altresì la ratio della citata sentenza n. 422, che richiedeva un impegno culturale e legislativo per garantire il riequilibrio della rappresentanza.
        E' in questo scenario che si inserisce la presente proposta di legge costituzionale. Una reale democrazia paritaria costituisce una posta in gioco di grande rilievo: la sua realizzazione, infatti, riveste non solo sul piano fattuale, ma anche simbolicamente, un valore di rottura di un ordine, nel quale l'autorità, intesa come potere di adottare decisioni vincolanti per la collettività, continua ad essere di pertinenza maschile e consente di incrinare quella divisione tra sfera "pubblica" e sfera "privata" sulla base della quale il sistema tradizionale ha legittimato l'esclusione di un genere ed ha sancito il monopolio del potere da parte di gerarchie esclusivamente maschili.
        Per questo il superamento di tale asimmetria non può essere ritenuto una questione solo "femminile", che riguardi cioè i diritti delle donne, ma un problema che concerne tutti coloro che hanno a cuore la reale democraticità dei nostri sistemi politici. E' necessario che alle donne sia data la possibilità di essere presenti nei "tavoli" delle decisioni per allargare il potere politico e migliorare la cittadinanza sociale.
        Nello specifico ambito politico, è necessario avere garantite una serie di misure: dal controllo della riduzione delle spese elettorali, a garanzie di pari opportunità di accesso ai media, a modalità di selezione delle candidature che siano insieme più trasparenti e che coinvolgano i cittadini.
        Ma è necessario fondare costituzionalmente il principio dell'equilibrio della rappresentanza, ed andare anche oltre. Ed è per questo che la presente proposta di legge costituzionale, recependo il testo di modifica dell'articolo 51 già approvato nella scorsa legislatura dalla Camera dei deputati, introduce un comma che prevede che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
        Non vi è alcuna volontà di frenare un iter già compiuto o riaprire il dibattito su un testo consolidato; la ratio che anima la proposta di legge costituzionale è quella di rendere possibile ad entrambi i sessi l'accesso alla competizione elettorale in condizioni di pari opportunità, senza limitare o violare il diritto universale all'elettorato passivo.
        In una democrazia che voglia definirsi tale è importante non solo chi viene scelto, ma anche come, con quali regole e procedure, e da chi viene compiuta la scelta.
        L'abolizione delle quote nel nostro Paese ha determinato la rimozione del problema "donne-politica". L'auspicio è che il discutere la loro reintroduzione, nella stessa Carta costituzionale, stimoli il dibattito, obblighi non solo i partiti, ma la stessa società civile, a confrontarsi con quella asimmetria di rappresentanza che rischia di incrinare le fondamenta stessa della democrazia rappresentativa.
        La partecipazione delle donne è una condizione fondamentale per il consolidamento della democrazia e della coesione sociale nell'Europa del XXI secolo. E le donne possono e devono apportare un contributo importante per la promozione di uno sviluppo che sia durevole su tutto il continente. Occorre dare voce e cittadinanza alle donne garantendo al 52 per cento dell'elettorato pari dignità di rappresentanza mediante l'introduzione nel nostro sistema costituzionale di un "diritto diseguale" che potrà anche essere considerato temporaneo in attesa che l'evoluzione della società renda effettiva la parità anche nella rappresentanza politica. Sta a noi in Parlamento trovare le soluzioni e gli strumenti più idonei per traghettare questa democrazia, da democrazia "virtuale" a "democrazia reale". A tale fine è stata redatta la presente proposta di legge costituzionale, della quale si auspica la rapida approvazione.




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