XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 61
Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge
costituzionale verte sulla modifica dell'articolo 51 della
Costituzione, che afferma il diritto di tutti i cittadini,
dell'uno e dell'altro sesso, ad accedere in condizioni di
eguaglianza agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Si
tratta quindi di un articolo assai importante, che specifica
nel campo dei diritti politici ed in particolare
dell'elettorato passivo (mentre all'elettorato attivo è
dedicato l'articolo 48), il principio di eguaglianza sancito
nell'articolo 3.
E' noto che i diritti politici furono attribuiti alle
donne italiane con un decreto luogotenenziale datato 1^
febbraio 1945, un anno dopo la Francia e tra gli ultimi Paesi
europei: più tardi vennero solo il Belgio (1948), la Grecia
(1952) e il Portogallo (1974), mentre nella maggioranza dei
Paesi europei le donne conquistarono il diritto di voto tra il
1906 (Finlandia) e il 1931 (Spagna).
L'acquisizione del diritto di voto, così tardiva, nasceva
dunque insieme alla nuova democrazia italiana, costituiva un
aspetto essenziale della liberazione e della promessa di una
nuova stagione, dopo i lunghi anni della dittatura. Ciò può
valere a spiegare la speciale attenzione che la nostra
Costituzione porta al tema dei diritti delle donne, segnando
spesso dei traguardi che appaiono più avanzati di quanto
fossero la cultura e il costume reali.
Pur se in tutte le Costituzioni moderne è presente
l'affermazione dell'eguaglianza di tutti i cittadini, e,
segnatamente, della loro eguaglianza politica, la formulazione
dell'articolo 51 spicca per la specificazione "dell'uno e
dell'altro sesso", abbastanza rara. Altri casi sono soltanto:
la Costituzione della Repubblica di Weimar, che, in modo meno
solenne e più incidentale della nostra, fa riferimento alla
parità fra i sessi attribuendo il voto alle donne (1919); e
quella francese del 1946, ripresa nel 1958.
La presenza di una specificazione così netta nella nostra
Costituzione è degna di nota. Essa testimonia la
consapevolezza, presente nei costituenti, di una inaccettabile
discriminazione della donna italiana nella legislazione
precedente. Basti ricordare che era vigente una legge del
1919, la legge n. 1176, che aveva ammesso le donne agli
impieghi pubblici, apparentemente a pari titolo degli uomini,
ma con l'esclusione di "quelli che implicano poteri pubblici
giurisdizionali o l'esercizio di diritti e di potestà
politiche o che attengono alla difesa militare dello Stato".
Successivamente la legge n. 1314 del 1939 aveva fissato una
quota massima del 10 per cento per le donne impiegate
nell'amministrazione pubblica.
Riguardo allo stesso articolo 51, è necessario ricordare
la lunga discussione che ebbe luogo nella Costituente su un
inciso, che introduceva un limite alla universalità del
diritto: "conformemente alle loro attitudini e facoltà". Era
un tentativo di predisporre un appiglio al legislatore
ordinario per escludere le donne - in base a loro presunte
attitudini o presunte carenze di attitudini - da alcune
carriere: tentativo esplicito, come risulta dagli Atti della
Costituente. Le donne costituenti, nonostante il loro esiguo
numero (21 in tutto, pari al 3,7 per cento dell'Assemblea, di
cui 9 Dc e 9 Pci, 2 socialiste, 1 dell'Uomo qualunque), furono
molto combattive ed efficaci, e trovarono l'appoggio di
leader importanti, i capi delle maggiori forze politiche
del Paese, che già avevano manifestato, in significativi
discorsi politici del 1945, quanto ritenessero importanti le
donne per l'instaurazione di una politica democratica.
Sull'articolo 51 la battaglia fu condotta in prima persona da
Maria Federici, Dc, che, appoggiata dalle colleghe, ottenne la
soppressione dell'inciso limitativo, consegnandoci così uno
degli articoli più innovativi e importanti della nostra Carta.
E tuttavia esso fu attuato solo con la legge n. 66 del 1963,
che dispone che "la donna può accedere a tutte le cariche,
professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura". E
proprio l'accesso alla magistratura, com'è a tutti noto, era
l'effettiva posta in gioco nell'inciso limitativo
dell'articolo 51. Ma allora perché, se la formulazione
dell'articolo 51, primo comma, è così significativa,
proponiamo di modificarla?
Anzitutto vale una considerazione di ordine storico. Molta
acqua è passata sotto i ponti dalla redazione della
Costituzione; quella che appariva, ed era, una frontiera
avanzata nel 1947 può essere oggi una frontiera da superare.
Certo si deve essere estremamente prudenti nel proporre
modifiche alla Carta fondamentale, che non può essere
sottoposta a continui adattamenti al momento storico.
Pienamente convinti di questa necessaria prudenza, riteniamo
tuttavia che la questione in oggetto sia sufficientemente
corposa, e sufficientemente consolidata nel tempo, in tutte le
democrazie rappresentative, da legittimare una proposta di
modifica. Dalla nascita della democrazia italiana la
partecipazione delle donne alla vita pubblica è
progressivamente cresciuta. Tuttavia la rappresentanza resta
di fatto un monopolio maschile. I dati sui Paesi dell'Unione
europea sono impressionanti: Grecia, Francia e Italia sono
agli ultimi posti, mentre i primi sono occupati dai Paesi
scandinavi e dalla Germania. Altrettanto impressionante a
nostro parere è che il Regno Unito, pur dopo l'exploit
dei laburisti alle ultime elezioni, che hanno fatto eleggere
più di cento donne, si collochi tuttavia ancora ad un modesto
18,2 per cento. Diciamo modesto, ma dobbiamo sottolineare che
la nostra percentuale alla Camera dei deputati supera di poco
il 9 per cento. Del resto il massimo raggiunto con la legge
del 1993, poi annullata dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 422 del 1995, è stato il 15 per cento.
C'è dunque con tutta evidenza un problema di fondo che
limita sostanzialmente la possibilità delle donne di accedere
alla funzione rappresentativa. La parità di diritto non è
bastata, nella gran parte dei Paesi europei, a realizzare
questa possibilità. Senza addentrarci qui nella complessa
analisi delle cause (che sono probabilmente, come la Corte ha
indicato nella sentenza citata, di ordine culturale e
sociale), siamo certi che condividiamo tutti la preoccupazione
per questo tratto così persistente della nostra vita politica.
Una esclusione di fatto di metà della popolazione dalla
rappresentanza politica non può non essere riguardata come uno
scacco della democrazia; come un fallimento di
quell'investimento sulle donne che, operato dai fondatori
della Repubblica, si riflette con chiarezza nella
Costituzione. Ed è comunque un grave limite nella fisiologia
del ricambio della classe politica. Compete al legislatore
cercare i possibili rimedi.
Tra l'altro, nel nostro caso va aggiunta la considerazione
che le donne sembrano muovere verso un'autoesclusione anche
dall'elettorato attivo: nel crescente astensionismo italiano
degli ultimi anni, le donne sono all'avanguardia. E' un fatto
preoccupante, che ribadisce la presenza di un "problema donne"
nel cuore della nostra democrazia. Non vogliamo dire che
l'aumento del numero di donne nella rappresentanza
incoraggerebbe di per sé il superamento dell'astensionismo
femminile; le cose sono più complicate; ma è certo che i due
fenomeni sono entrambi espressione di un malessere delle donne
rispetto alla politica e che la politica deve affrontarli
entrambi con la necessaria consapevolezza.
In anni recenti il problema dello squilibrio della
rappresentanza in relazione al sesso si è posto in molti Paesi
europei. Come si esprime il Parlamento europeo in una
risoluzione del 1988, "nelle democrazie liberali lo Stato e la
società hanno bisogno della collaborazione di tutti(e) i (le)
cittadini(e)"; ma "nonostante i progressi compiuti, in
particolare a partire dagli anni '70, le donne non sono
rappresentate in proporzione né al loro numero né alla loro
formazione ed esperienza professionale... ciò rappresenta una
discriminazione di fatto che si traduce in uno spreco di
notevoli energie e di esperienza di cui le nostre società in
rapida evoluzione hanno un grande bisogno". La risoluzione del
Parlamento europeo ha trovato seguito nelle iniziative di
alcuni partiti, segnatamente del Labour party e del
Partito socialista francese, che hanno profondamente rinnovato
la loro rappresentanza, portando alla Camera un alto numero di
donne. La buona volontà dei partiti tuttavia non appare di per
sé sufficiente a risolvere il problema in modo strutturale,
essendo, come tutte le volontà, precaria e mutevole, e,
soprattutto, non essendo condivisa da tutti.
In Francia si è posto per la prima volta il tema delle
quote riservate nelle leggi elettorali in una legge bocciata
dal Conseil Constitutionnel nel 1982; seguita dal Belgio
nel 1994, con una legge i cui esiti peraltro sono stati molto
scarsi, e già dall'Italia nel 1993, con le note leggi
elettorali poi bocciate dalla Corte costituzionale nel 1995.
In Germania nel 1994 è stata introdotta una disposizione
costituzionale che promuove la realizzazione effettiva
dell'uguaglianza dei diritti tra uomini e donne e
l'eliminazione delle disparità esistenti, dando così piena
copertura alla libera scelta di alcuni partiti di introdurre
quote per le donne nelle loro liste. Fuori dall'Europa è da
ricordare poi la Carta canadese dei diritti e delle libertà
(1982) che al paragrafo 2 dell'articolo 15 ha previsto una
copertura costituzionale delle azioni positive.
Non vogliamo entrare qui nel dibattito sulle quote, né
nella disamina della controversa sentenza n. 422 del 1995
della Corte costituzionale. Vogliamo anzi sottolineare che la
modifica all'articolo 51, che viene proposta, non deve essere
intesa come univocamente mirante all'introduzione delle quote
nelle leggi elettorali. La presente proposta di legge
costituzionale mira a dare copertura costituzionale
all'introduzione di azioni positive per incoraggiare l'accesso
delle donne alle funzioni pubbliche e alle cariche elettive.
Tra queste azioni positive possono esserci le quote, ma
sarebbe sbagliato identificare in queste l'unica fattispecie
possibile; così come sarebbe sbagliato, occorre sottolineare
questo punto, opporsi alla presente proposta perché si è
contrari alle quote. La questione delle quote resterebbe
aperta e potrebbe porsi solo dopo, in relazione agli strumenti
da scegliere per dare attuazione al dettato costituzionale
modificato. Molti pensano (non infondatamente) che le quote
presenterebbero comunque, anche in presenza di tale modifica,
dei problemi di costituzionalità, riferiti all'articolo 3 e
all'articolo 48 della Costituzione, almeno nei casi in cui -
in assenza del voto di preferenza - la candidabilità viene a
coincidere con l'eleggibilità. Ma rimandiamo questa
discussione ad altra sede.
Sappiamo però che c'è una forte domanda da parte delle
donne italiane, o almeno di quelle che seguono ancora le
dinamiche politiche (alle quali donne per le ragioni dette
sopra dovremmo prestare orecchio attento), perché il
legislatore intervenga in qualche modo a favorire l'accesso
delle donne alla rappresentanza politica.
Crediamo che sia ormai necessario dare una risposta
organica e coerente a questa domanda, che è fondata sulle
ragioni storiche che abbiamo cercato di illustrare, ed è
rafforzata dal suo contemporaneo insorgere in altri Paesi
europei. E la risposta più organica è appunto la modifica
costituzionale che rende possibili azioni positive, avendo
chiaro che le azioni positive possono essere di diverso tipo,
come si è affermato anche nel dibattito della Commissione
bicamerale per le riforme costituzionali.
Se facciamo riferimento alla sentenza n. 422 del 1995
della Corte costituzionale, risulta che la Corte respinge
norme che alterano la rappresentanza, e non le considera
conformi al rapporto tra primo e secondo comma dell'articolo 3
della Costituzione - cioè tra eguaglianza formale e
eguaglianza sostanziale - perché esse non si limiterebbero a
rimuovere gli ostacoli, ma garantirebbero direttamente il
risultato; allo stesso tempo tuttavia essa riconosce la
presenza di ostacoli all'accesso delle donne agli uffici
pubblici e alle cariche elettive, e invita i partiti
(principali titolari della funzione di selezione delle
candidature) a farsi carico di iniziative specifiche volte a
superare tali ostacoli. Spetta invece al legislatore - sempre
secondo la Corte - individuare interventi di altro tipo,
certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della
persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i
sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal
momento che molte misure, come si è detto, possono essere in
grado di agire sulle differenze di condizioni culturali,
economiche e sociali.
Anche il legislatore ordinario può dunque fare la sua
parte, senza ledere l'eguaglianza formale; per esempio
intervenendo sulla distribuzione del finanziamento pubblico ai
partiti, come è già avvenuto nella legge 3 giugno 1999, n.
157. Molte altre misure possono essere immaginate, come
l'istituzione di crediti agevolati per le candidate, o altre
forme di facilitazioni per la campagna elettorale.
La fantasia del legislatore avrà modo di manifestarsi.
Intanto la modifica costituzionale dà copertura a qualunque
tipo di azione positiva; e soprattutto, vogliamo
sottolinearlo, ha un grande valore simbolico, introducendo
nella Costituzione, oltre il puro e semplice diritto alla
parità, l'obiettivo di favorire il concreto esercizio di tale
diritto, finora rimasto sulla carta. E' chiaro che anche le
iniziative soggettive dei partiti, indicate giustamente dalla
Corte come la via maestra, ne sarebbero incoraggiate e
rafforzate. Infine, vogliamo sottolineare che la modifica
proposta riecheggia quella adottata dal Parlamento francese
nel luglio del 2000, al termine di un dibattito molto simile
al nostro e di una complessa navetta tra Assemblea nazionale e
Senato. Dopo la bocciatura del 1982, il Parlamento francese è
tornato in questi anni sulla questione, per iniziativa del
Primo ministro Jospin. Dopo un lungo e faticoso dibattito
parlamentare si è raggiunto un provvedimento modificativo
dell'articolo 3 della Costituzione francese, con cui si
dispone che "la legge favorisce l'eguale accesso delle donne e
degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive",
nonché dell'articolo 4, che impegna direttamente il partito
politico ad adottare misure promozionali volte al riequilibrio
della rappresentanza dei due sessi. Alla modifica
costituzionale hanno fatto rapidamente seguito due leggi
ordinarie, una delle quali ha statuito la formazione di due
delegazioni parlamentari presso le Assemblee sui diritti delle
donne e sull'attuazione della parità tra i sessi; l'altra ha
introdotto l'obbligo di una pari presenza di candidature di
uomini e donne per le elezioni amministrative, che avvengono
per voto di lista. Il dibattito che si è svolto in questa
vicenda parlamentare è stato esemplare per la sua profondità e
serietà e per la capacità che il Parlamento francese ha
mostrato di coinvolgere il mondo della cultura e
dell'informazione. Un dibattito che merita la nostra
attenzione, per la sua vicinanza e per il suo positivo
esito.
Le obiezioni sollevate in quel dibattito sono simili a
quelle che sono state o saranno sollevate nel nostro.
Anzitutto, quella che concerne la possibile incidenza di un
qualunque tipo di intervento di sostegno alle candidature
femminili sul concetto di rappresentanza politica.
Anche ispirandoci al dibattito francese, discuteremo ora
le questioni di legittimità che potrebbero essere sollevate
dalla presente proposta di modifica all'articolo 51 della
Costituzione.
Un primo importante profilo riguarda la possibile
incidenza delle azioni positive sul concetto di rappresentanza
politica, che sembra ancora dominare il campo nella sua
nozione tradizionale. Secondo il modello del costituzionalismo
originario il popolo è visto come soggetto idealmente
unitario, come soggetto cioè i cui interessi trascendono
quelli degli individui e dei gruppi che lo compongono, e
omogeneo, cioè costituito da individui tutti formalmente
uguali tra loro. Tale nozione della rappresentanza politica
sembra permanere nonostante la connotazione sempre più
marcatamente pluralistica delle democrazie contemporanee. Ma
ha ancora senso rifarsi a questa nozione classica della
rappresentanza politica? Quell'unitarietà e omogeneità
"ideale" del popolo non dovrebbe piuttosto cominciare ad
essere vista nella sua reale configurazione? Non si vuole qui
sostenere il ritorno ad una nozione "corporativa" della
rappresentanza, portatrice di categorie differenziate di
interessi, ma di una rappresentanza "effettiva", che tenga
conto delle differenze. Solo in tale caso, infatti, la
rappresentanza sarà in grado di essere unitaria e lo sarà in
maniera non corporativa.
"Il concetto classico della rappresentanza politica si è
dimostrato più che mai insufficiente ad assicurare una
presenza paritaria (o quasi) tra uomo e donna nei luoghi
istituzionali. Il concetto classico di rappresentanza politica
si fonda su una logica contrattualistica che assume gli
individui come perfettamente uguali ed asessuati, ovvero
entità astratte e formali, avulse dal contesto sociale in cui
vivono (...). Tutti possono accedere in condizioni di
uguaglianza alle cariche pubbliche, come afferma l'articolo 51
della Costituzione, ma in tal caso l'uguaglianza sta a
significare mera possibilità (...). In altre parole siamo di
fronte a dei diritti contrassegnati dalla sola uguaglianza
formale, diritti politici di cui si gode per il semplice fatto
di essere membri di una collettività" (Morris Montalti, La
rappresentanza del genere femminile. Riflessioni
comparative, in Diritto pubblico comparato ed europeo,
4/2000). E' stato questo "alibi universalista" che ha permesso
di sorvolare sul tema delle pari opportunità anche nel campo
dei diritti politici, rifiutando di estendere a questo campo
il riferimento al secondo comma dell'articolo 3 della
Costituzione.
E' pur vero che le donne non costituiscono un "gruppo"
alla stregua delle minoranze linguistiche e religiose, perché
portatrici di una specificità trasversale - e questa sì
veramente universale - rispetto a gruppi o categorie
componenti la società. Tuttavia le donne condividono una
condizione reale - "di fatto" - di esclusione. Quindi negare
che siano un gruppo non può condurre ad ignorare questa
condizione reale.
La concezione unitaria della rappresentanza politica,
intesa come rigorosa parità formale tra i titolari dei diritti
politici, è storicamente connaturata all'idea dello Stato di
diritto. Non vogliamo certo gettare via un importante
patrimonio ereditato fin dall'età liberale, ma più
opportunamente proponiamo di integrarlo, o meglio di
correggere quelle distorsioni che impediscono ad una
rappresentanza ideale di poter diventare anche effettiva. Non
si tratta di ridurre i rappresentanti a meri delegati, privi
di autonomia decisoria, ma di correggere una nozione di
rappresentanza astratta, trasformando quel popolo "idealmente
unitario" in "effettivamente rappresentato". Si vuole insomma
trasferire la fondamentale distinzione operata dall'articolo 3
della Costituzione tra l'uguaglianza formale di fronte alla
legge e l'uguaglianza sostanziale, intesa quale rimozione di
quegli "ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando
di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della personalità umana..." anche sul
terreno della rappresentanza politica. Non per ritornare ad
una visione pre-moderna della rappresentanza politica, ma per
garantire l'effettività dei diritti politici a tutti gli
individui. E' del resto riconosciuto che "la rappresentanza
politica è un concetto classico del costituzionalismo moderno
e contemporaneo, che soffre delle contraddizioni derivanti dal
sovrapporsi di varie ere delle istituzioni rappresentative.
Disposizioni fondate sulla struttura della società liberale
oligarchica oggi hanno assunto un significato profondamente
diverso nelle moderne società di massa fondate sui partiti. In
questa prospettiva lo stesso atto elettivo ha cambiato
completamente significato per divenire non soltanto
preposizione di individui a cariche potestative, ma scelta di
programmi partitici e di leaders" (Fulco Lanchester,
Rappresentanza, responsabilità e tecniche di espressione
del suffragio. Nuovi saggi sulle votazioni, Bulzoni, Roma,
1990, 1997). Ma allora anche la "contraddizione originaria"
della rappresentanza politica, quella che fa di "individui
differenti cittadini indifferenziati" (F. Lanchester, citato)
va integrata in modo nuovo.
E' vero infatti che "eguaglianza non significa in ogni
caso assoluta uniformità di trattamento, bensì, al contrario,
disciplina adeguata alle situazioni concretamente
differenziate"; con l'avvertenza che "non qualsiasi differenza
è costituzionalmente ammissibile, ma (...) solo quelle che
trovano un fondamento ragionevole" (Valerio Onida, Le
Costituzioni. I principi fondamentali della Costituzione
italiana, in G. Amato - A. Barbera, Manuale di diritto
pubblico, Bologna 1984).
A proposito di interventi differenziati, va citato il
fatto che la Corte costituzionale, mentre affermava la
concezione classica della rappresentanza a proposito della
differenza di sesso, un po' sorprendentemente accettava invece
una rappresentanza differenziale delle minoranze linguistiche
tutelata dalla legge, la così detta "proporzionale etnica",
regolamentata dalle norme dello Statuto del Trentino-Alto
Adige, in aperta contraddizione con l'articolo 51. A questo
proposito è stato osservato che "l'interprete si trova al
cospetto d'una catena normativa nella quale il primo comma
dell'articolo 3 della Costituzione funge da regola, il secondo
comma da eccezione, l'articolo 51 da eccezione all'eccezione
(che restaura la vigenza della regola), e in ultimo l'articolo
89 dello statuto del Trentino-Alto Adige da contro-eccezione"
(M. Ainis, Azioni positive e principio di uguaglianza,
in Giurisprudenza Costituzionale, 1992, 603).
Ora, che la differenza di genere sia un fondamento
"ragionevole" a trattamenti differenziati, anche più
ragionevole, per la sua universalità, di quella costituita da
una minoranza linguistica, ci sembra difficilmente
contestabile, anche se può ripugnare ad una concezione troppo
rigidamente formale, e quindi astratta, della rappresentanza
politica. Più significativa sembra la distinzione tra
condizioni di eguaglianza dei risultati e dei punti di
partenza, distinzione alla quale è affidata, almeno a parere
di chi scrive, l'accettabilità e la positività della presente
proposta di legge costituzionale. L'obiettivo che ci
proponiamo non è "garantire" in qualche forma alle donne una
quantità determinata di seggi nelle assemblee elettive (per il
quale valgono le obiezioni di Lanchester e di tanti altri
costituzionalisti). Ma invece quello di promuovere la parità
d'accesso, dunque di favorire la possibilità reale delle donne
di essere candidate e di condurre la loro campagna elettorale
in condizioni di parità. Da questo punto di vista, stupisce
che sia il Conseil Constitutionnel francese che la
nostra Corte costituzionale abbiano nelle loro pronunce posto
sullo stesso piano il diritto di essere eletti e quello di
essere candidati. Hanno cioè sorvolato sulla sostanziale
differenza esistente tra una garanzia di risultato (una
elezione predeterminata dalla legge) e la necessità di
garantire una effettiva uguaglianza nelle posizioni di
partenza (vedi Stefano Ceccanti, Francia ed Italia di
fronte alle differenze di sesso e di lingua: crisi comuni
delle certezze consolidate ed esiti diversi, in Diritto
pubblico comparato europeo, 1/2000). Riteniamo invece che
proprio la "candidabilità", ovvero la possibilità di accedere
alle candidature con le stesse opportunità, sia il presupposto
di fatto per l'esercizio (in concreto) del diritto di
elettorato passivo che si vorrebbe uguale per tutti.
Un altro profilo di presunta illegittimità è stato
sollevato nel dibattito francese (ma ce ne sono tracce anche
nella sentenza n. 422 del 1995) a proposito dell'unità del
popolo sovrano, che verrebbe posta in questione e frammentata
in categorie dall'introduzione di una considerazione del sesso
nella rappresentanza politica. Su questo punto merita di
essere ripresa l'argomentazione di Sylviane Agacinski, che
sostiene che dare traduzione politica alla compresenza
("mistione") di uomini e donne nella nazione non significa
introdurre una divisione in categorie, ma riconoscere la
duplicità originaria dell'essere umano: "Se essere donne
costituisce uno dei due modi essenziali di essere una creatura
umana (...), allora si deve ammettere che un popolo, quale che
sia, esiste anche secondo un duplice modo" (La politica dei
sessi, Milano 1998, p. 195).
In sostanza, le donne non possono essere considerate una
categoria di cittadini; piuttosto devono essere considerate
"una categoria dell'umano", come dice Blandine Kriegel,
secondo la quale la parità deriva direttamente dai diritti
umani, e dunque dalla "adeguazione della città politica alle
determinanti fondamentali della vita umana". In questo senso
la parità tra uomini e donne non rappresenta un'eccezione del
principio di eguaglianza, ma una sua più forte realizzazione
(La parité et le principe d'égalité, in Conseil d'Etat,
Rapport public 1996).
Nella stessa direzione va la costituzionalista Lorenza
Carlassare, quando afferma che "La società (l'umanità, anzi) è
composta di donne e di uomini: è in nome della stessa
democrazia, non dell'interesse delle donne, che va posta
l'esigenza che le istituzioni, come la società, siano composte
di donne e di uomini" (La rappresentanza femminile:
principi formali ed effettività, in Genere e
democrazia, a cura di F. Bimbi e A. Del Re, Torino
1997).
Vorremmo ora fare un breve cenno sull'indagine conoscitiva
svoltasi in Commissione Affari costituzionali della Camera dei
deputati nella XIII legislatura. Ci riferiamo alle audizioni
dei docenti di diritto pubblico e costituzionale, e a quelle
delle rappresentanti della Commissione nazionale per le pari
opportunità e delle rappresentanti di numerose associazioni
femminili, come Emily in Italia, Arcidonna, Soroptimist e
l'Associazione nazionale donne elettrici, per la prima volta
istituzionalmente invitate nella I Commissione.
L'indagine conoscitiva verteva sulle proposte di legge
d'iniziativa parlamentare concernenti la modifica degli
articoli 51 e 55 della Costituzione. In linea generale tutti i
partecipanti concordavano su un dato di partenza: la
constatazione di una minoritaria presenza delle donne nelle
istituzioni democratiche a tutti i livelli e la configurazione
di questo dato di fatto come un "problema culturale", di
antica data. A partire da questa condivisa considerazione, la
discussione si è articolata su una serie di problematiche
connesse. Un primo profilo riguardava la questione se fosse
opportuno o meno incidere sulla Costituzione. Partendo dalla
considerazione che le Carte costituzionali non sono
immodificabili, ma vanno anche gestite con la doverosa
cautela, ci si è interrogati se una eventuale modifica
all'articolo 51 potesse incidere sui princìpi supremi
contenuti all'interno della Costituzione. Si trattava di
capire meglio se fosse legittimo o meno un intervento del
legislatore costituzionale, anche alla luce della sentenza n.
422 del 1995. Si è ricordato che la giurisprudenza della
nostra Corte costituzionale, che ha elaborato il concetto dei
"superprincìpi", non consente quanto è ammesso in Francia
ovvero che il legislatore in sede di revisione costituzionale
possa correggere qualsiasi sentenza del Conseil
Constitutionnel.
Questa considerazione non necessariamente deve far
propendere per la immutabilità assoluta del nostro dettato
costituzionale, ma esige un'attenta verifica sull'esistenza o
meno di una violazione di princìpi supremi. Nel dibattito è
tendenzialmente emersa l'opinione che attraverso la proposta
di modifica all'articolo 51 si poneva non tanto un problema di
violazione del giudicato della Corte costituzionale, quanto
una controversia sulla interpretazione del principio di
rappresentanza politica, inteso in modo diverso dalla Corte
stessa e da altri operatori del diritto. La Corte suprema,
infatti, nella sentenza n. 422, si era concentrata
sull'impossibilità di operare differenziazioni fondate sul
sesso all'interno del settore rappresentativo-politico,
riconoscendo l'ammissibilità delle azioni positive, purché nei
limiti sanciti dall'articolo 3, secondo comma, della
Costituzione, ovvero "per rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale". Ciò renderebbe discutibile l'intervento
sulla rappresentanza politica.
D'altra parte emergeva l'esigenza di interpretare il
concetto di "rappresentanza politica" in un senso meno
rigorosamente formale, tenendo anche conto delle profonde
modificazioni storiche e culturali, intervenute dal 1948 ad
oggi. E' stato così sottolineato che la sentenza n. 422 fa sì
un richiamo ai princìpi regolatori della rappresentanza
politica configurandoli come princìpi supremi, ma esso, per
parte della dottrina, costituirebbe solo un obiter
dictum, ovvero un'affermazione incidentale che non ha
un'incidenza logica, diretta e razionale sul dispositivo, e
come tale non sarebbe suscettibile di creare giurisprudenza.
Sarebbe cioè un'opinione del relatore ad abundantiam,
che rafforza la motivazione, ma che non necessariamente la
tiene in piedi. Un secondo profilo riguardava invece il "dove"
dell'intervento costituzionale. Da un lato è stato considerato
inopportuno un intervento sull'articolo 55 della Costituzione,
solo per i diversi problemi giuridici che un tale intervento
solleverebbe, ma anche per una considerazione che è stata
valutata come decisiva. Un eventuale intervento sull'articolo
55 della Costituzione sarebbe stato limitato alla sola
rappresentanza politica nazionale, escludendo le regioni e gli
enti locali, con il rischio di esiti paradossali, specie dopo
l'introduzione del principio del riequilibrio della
rappresentanza nella legge costituzionale di modifica degli
statuti delle regioni a statuto speciale. Dall'altro lato si è
discusso sull'opportunità di intervenire direttamente sul
primo comma dell'articolo 51, che fa espresso riferimento
"agli uffici pubblici e alle cariche elettive", ovvero di
intervenire sul terzo comma dell'articolo 51 stesso che
utilizza l'espressione "funzioni pubbliche elettive", ovvero
di inserire la modifica in un autonomo comma. Pur riconoscendo
la differenza di problematiche connesse ad un intervento
riguardante "gli uffici pubblici" e/o "le cariche elettive" -
nel primo caso emerge infatti il profilo del merito del
candidato, questione non presente nel caso delle cariche
elettive - la questione è sostanzialmente stata lasciata
aperta.
Infine va registrata una sostanziale adesione di tutti i
docenti intervenuti ad una formulazione analoga a quella
successivamente approvata dalla Commissione: è stato infatti
più volte sottolineato il suo carattere generale ed elastico,
di norma "ombrello", e l'effetto pedagogico, che dovrebbe
essere proprio di tutte le norme costituzionali. Senza
precludere interventi di tipo legislativo più incisivo, tale
norma offre copertura costituzionale e insieme libertà al
legislatore ordinario di modulare il proprio intervento nel
favorire il riequilibrio della rappresentanza politica.
Altrettanto prezioso e interessante è stato il dibattito
suscitato dai contributi portati dalle rappresentanti di
diverse associazioni che hanno un rapporto fondamentale con le
donne nella società. Sono state infatti portatrici, oltre che
di rigorosi ragionamenti giuridici e di linee di pensiero,
anche dei percorsi storici e culturali che hanno
contraddistinto la loro storia personale e quella delle donne
in generale.
Diverse sono state le problematiche sollevate. Ricordando
il vivissimo problema della scarsa presenza delle donne nella
vita pubblica, della conseguente caduta democratica e dei
sempre più allarmanti dati relativi all'astensionismo
femminile, le diverse rappresentanti ascoltate hanno
innanzitutto concordato, al pari dei costituzionalisti, che
non solo la riforma dell'articolo 51 è utile, ma anche
necessaria. Forse non sufficiente a risolvere un problema che
è anche politico e sociale - e non certo solamente giuridico -
ma tale da porci se non altro al passo con la situazione degli
altri Paesi europei, e con le ultime tendenze che si sono
manifestate sia a livello comunitario che internazionale. Dopo
aver sottolineato la singolare sfasatura esistente tra una
società composta da più donne che uomini e una rappresentanza
"non rappresentativa" di questa stessa società, è stato
sottolineato come ciò costituisca in generale un male per la
nostra democrazia, essendo uno dei sintomi del profondo
distacco tra politica e società. Tale sintomo è sembrato
ancora più grave se confrontato con i dati riguardanti
l'elevata presenza femminile nelle cariche pubbliche per le
quali sono previste procedure trasparenti. Veniva cioè a
delinearsi una stretta relazione tra trasparenza e certezza
delle procedure, maggiore o minore apertura nell'accesso a
candidature o uffici, e concreta possibilità di maggiore
partecipazione delle donne. Queste considerazioni hanno
animato il dibattito sul difficile rapporto delle donne con la
politica e su come la loro partecipazione vada sì, sostenuta,
ma attraverso la valorizzazione dei talenti, delle competenze
e dei meriti; quindi, attraverso la trasparenza delle
procedure.
La modifica costituzionale è apparsa muoversi su queste
linee direttrici. In particolare è stato apprezzato il fatto
che riflette gli importanti mutamenti storici avvenuti nella
società dal 1945 ad oggi, e che essa non fornisce indicazioni
specifiche sulle singole azioni positive da intraprendere.
Sebbene questo secondo profilo abbia sollevato la
preoccupazione di una debolezza nell'attuazione sul piano
legislativo, ne è stata valutata l'importanza sotto un altro
profilo. L'assenza di indicazioni specifiche circa il merito
delle singole azioni positive tiene conto infatti della
contestualità in cui le singole azioni positive andranno ad
inserirsi, del momento storico specifico e della loro
intrinseca temporaneità. Infine, nel corso del dibattito, è
emerso come uno dei pregi della proposta fosse quello di
riuscire ad evitare due pericolosi rischi. Il primo è stato
definito il "rischio etnicistico", quello cioè che porta a
considerare le donne come esponenti di un "gruppo etnico", di
una categoria, di una minoranza. Seppur con posizioni
differenti, nel corso delle audizioni è stato ribadito il
rifiuto per una "rappresentanza da dividere in due", come se
le donne fossero portatrici degli interessi delle donne e gli
uomini di quelli degli uomini. La modifica all'articolo 51
nella formulazione che è poi stata licenziata dalla
Commissione nella XIII legislatura sembra tutelare il
carattere "universale" della rappresentanza. Il secondo
rischio prospettato era quello di descrivere la rappresentanza
come un diritto positivo, un diritto cioè a quella "certezza
del risultato" contro cui si esprimeva la sentenza n. 422 del
1995. La formulazione proposta è sembrata salvaguardare la
fondamentale differenza tra "candidabilità" ed "elezioni", e
tra pari opportunità di accesso alle candidature e garanzia di
risultato. La tendenza è sembrata essere quindi quella di
considerare tale proposta come fortemente innovativa, e quindi
necessaria, ma anche profondamente rispettosa dell'impianto e
della coerenza della nostra Costituzione.
Il testo licenziato il 24 luglio 2000 dalla I Commissione
in sede referente risulta da un dibattito che aveva alla sua
base diverse proposte.
Il principale punto in discussione sia in Commissione, sia
nel corso delle audizioni svolte, è stato quello riguardante
la nozione di rappresentanza, e la legittimità o meno di una
modifica costituzionale che potesse incidere su quello che da
molti è considerato un principio supremo della Carta
costituzionale.
Molte delle proposte di legge abbinate mostravano una
preferenza per l'espressione "equilibrio della
rappresentanza", che, pur sembrando più efficace al fine di
raggiungere una più adeguata presenza delle donne nell'accesso
alle cariche elettive, rischiava di generare confusione e
incertezza tra due distinti profili: quello delle pari
condizioni di accesso alle candidature, e quello di una
elezione garantita, quasi predeterminata dalla legge.
Il vivace e ricco dibattito di questi anni ci ha
consentito di approdare al testo adottato dalla Commissione
con la formulazione "La Repubblica promuove (...) la parità di
accesso tra donne e uomini".
Questa formulazione, oltre ad essere quella che meglio si
inserisce nel dettato costituzionale anche su un piano
linguistico - riprendendo il termine "parità" che è presente
in altri articoli (vedi articolo 37 della Costituzione) e che
peraltro, vale la pena notarlo, è termine ormai invalso nel
dibattito politico delle donne italiane e francesi - è anche
quella che meglio tutela le due esigenze emerse nel dibattito.
Da un lato, infatti, garantisce che una norma, sia pure
elastica e dalla funzione pedagogica, sia però fornita della
necessaria incisività per fronteggiare concretamente il
problema della minoritaria presenza femminile nella vita
pubblica. Dall'altro elimina il pericoloso rischio che la
nozione di rappresentanza, quale è a noi pervenuta fin dalla
nascita dello Stato di diritto, possa essere snaturata.
Ecco perché questa formulazione ci è sembrata quella che
più di ogni altra ha saputo raccogliere il frutto dell'intenso
dibattito, delle riflessioni e degli scambi di opinioni
avvenuti in questi anni nel Paese e nel Parlamento.