XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 61




        Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge costituzionale verte sulla modifica dell'articolo 51 della Costituzione, che afferma il diritto di tutti i cittadini, dell'uno e dell'altro sesso, ad accedere in condizioni di eguaglianza agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Si tratta quindi di un articolo assai importante, che specifica nel campo dei diritti politici ed in particolare dell'elettorato passivo (mentre all'elettorato attivo è dedicato l'articolo 48), il principio di eguaglianza sancito nell'articolo 3.
        E' noto che i diritti politici furono attribuiti alle donne italiane con un decreto luogotenenziale datato 1^ febbraio 1945, un anno dopo la Francia e tra gli ultimi Paesi europei: più tardi vennero solo il Belgio (1948), la Grecia (1952) e il Portogallo (1974), mentre nella maggioranza dei Paesi europei le donne conquistarono il diritto di voto tra il 1906 (Finlandia) e il 1931 (Spagna).
        L'acquisizione del diritto di voto, così tardiva, nasceva dunque insieme alla nuova democrazia italiana, costituiva un aspetto essenziale della liberazione e della promessa di una nuova stagione, dopo i lunghi anni della dittatura. Ciò può valere a spiegare la speciale attenzione che la nostra Costituzione porta al tema dei diritti delle donne, segnando spesso dei traguardi che appaiono più avanzati di quanto fossero la cultura e il costume reali.
        Pur se in tutte le Costituzioni moderne è presente l'affermazione dell'eguaglianza di tutti i cittadini, e, segnatamente, della loro eguaglianza politica, la formulazione dell'articolo 51 spicca per la specificazione "dell'uno e dell'altro sesso", abbastanza rara. Altri casi sono soltanto: la Costituzione della Repubblica di Weimar, che, in modo meno solenne e più incidentale della nostra, fa riferimento alla parità fra i sessi attribuendo il voto alle donne (1919); e quella francese del 1946, ripresa nel 1958.
        La presenza di una specificazione così netta nella nostra Costituzione è degna di nota. Essa testimonia la consapevolezza, presente nei costituenti, di una inaccettabile discriminazione della donna italiana nella legislazione precedente. Basti ricordare che era vigente una legge del 1919, la legge n. 1176, che aveva ammesso le donne agli impieghi pubblici, apparentemente a pari titolo degli uomini, ma con l'esclusione di "quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l'esercizio di diritti e di potestà politiche o che attengono alla difesa militare dello Stato". Successivamente la legge n. 1314 del 1939 aveva fissato una quota massima del 10 per cento per le donne impiegate nell'amministrazione pubblica.
        Riguardo allo stesso articolo 51, è necessario ricordare la lunga discussione che ebbe luogo nella Costituente su un inciso, che introduceva un limite alla universalità del diritto: "conformemente alle loro attitudini e facoltà". Era un tentativo di predisporre un appiglio al legislatore ordinario per escludere le donne - in base a loro presunte attitudini o presunte carenze di attitudini - da alcune carriere: tentativo esplicito, come risulta dagli Atti della Costituente. Le donne costituenti, nonostante il loro esiguo numero (21 in tutto, pari al 3,7 per cento dell'Assemblea, di cui 9 Dc e 9 Pci, 2 socialiste, 1 dell'Uomo qualunque), furono molto combattive ed efficaci, e trovarono l'appoggio di leader importanti, i capi delle maggiori forze politiche del Paese, che già avevano manifestato, in significativi discorsi politici del 1945, quanto ritenessero importanti le donne per l'instaurazione di una politica democratica. Sull'articolo 51 la battaglia fu condotta in prima persona da Maria Federici, Dc, che, appoggiata dalle colleghe, ottenne la soppressione dell'inciso limitativo, consegnandoci così uno degli articoli più innovativi e importanti della nostra Carta. E tuttavia esso fu attuato solo con la legge n. 66 del 1963, che dispone che "la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura". E proprio l'accesso alla magistratura, com'è a tutti noto, era l'effettiva posta in gioco nell'inciso limitativo dell'articolo 51. Ma allora perché, se la formulazione dell'articolo 51, primo comma, è così significativa, proponiamo di modificarla?
        Anzitutto vale una considerazione di ordine storico. Molta acqua è passata sotto i ponti dalla redazione della Costituzione; quella che appariva, ed era, una frontiera avanzata nel 1947 può essere oggi una frontiera da superare. Certo si deve essere estremamente prudenti nel proporre modifiche alla Carta fondamentale, che non può essere sottoposta a continui adattamenti al momento storico. Pienamente convinti di questa necessaria prudenza, riteniamo tuttavia che la questione in oggetto sia sufficientemente corposa, e sufficientemente consolidata nel tempo, in tutte le democrazie rappresentative, da legittimare una proposta di modifica. Dalla nascita della democrazia italiana la partecipazione delle donne alla vita pubblica è progressivamente cresciuta. Tuttavia la rappresentanza resta di fatto un monopolio maschile. I dati sui Paesi dell'Unione europea sono impressionanti: Grecia, Francia e Italia sono agli ultimi posti, mentre i primi sono occupati dai Paesi scandinavi e dalla Germania. Altrettanto impressionante a nostro parere è che il Regno Unito, pur dopo l'exploit dei laburisti alle ultime elezioni, che hanno fatto eleggere più di cento donne, si collochi tuttavia ancora ad un modesto 18,2 per cento. Diciamo modesto, ma dobbiamo sottolineare che la nostra percentuale alla Camera dei deputati supera di poco il 9 per cento. Del resto il massimo raggiunto con la legge del 1993, poi annullata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 422 del 1995, è stato il 15 per cento.
        C'è dunque con tutta evidenza un problema di fondo che limita sostanzialmente la possibilità delle donne di accedere alla funzione rappresentativa. La parità di diritto non è bastata, nella gran parte dei Paesi europei, a realizzare questa possibilità. Senza addentrarci qui nella complessa analisi delle cause (che sono probabilmente, come la Corte ha indicato nella sentenza citata, di ordine culturale e sociale), siamo certi che condividiamo tutti la preoccupazione per questo tratto così persistente della nostra vita politica. Una esclusione di fatto di metà della popolazione dalla rappresentanza politica non può non essere riguardata come uno scacco della democrazia; come un fallimento di quell'investimento sulle donne che, operato dai fondatori della Repubblica, si riflette con chiarezza nella Costituzione. Ed è comunque un grave limite nella fisiologia del ricambio della classe politica. Compete al legislatore cercare i possibili rimedi.
        Tra l'altro, nel nostro caso va aggiunta la considerazione che le donne sembrano muovere verso un'autoesclusione anche dall'elettorato attivo: nel crescente astensionismo italiano degli ultimi anni, le donne sono all'avanguardia. E' un fatto preoccupante, che ribadisce la presenza di un "problema donne" nel cuore della nostra democrazia. Non vogliamo dire che l'aumento del numero di donne nella rappresentanza incoraggerebbe di per sé il superamento dell'astensionismo femminile; le cose sono più complicate; ma è certo che i due fenomeni sono entrambi espressione di un malessere delle donne rispetto alla politica e che la politica deve affrontarli entrambi con la necessaria consapevolezza.
        In anni recenti il problema dello squilibrio della rappresentanza in relazione al sesso si è posto in molti Paesi europei. Come si esprime il Parlamento europeo in una risoluzione del 1988, "nelle democrazie liberali lo Stato e la società hanno bisogno della collaborazione di tutti(e) i (le) cittadini(e)"; ma "nonostante i progressi compiuti, in particolare a partire dagli anni '70, le donne non sono rappresentate in proporzione né al loro numero né alla loro formazione ed esperienza professionale... ciò rappresenta una discriminazione di fatto che si traduce in uno spreco di notevoli energie e di esperienza di cui le nostre società in rapida evoluzione hanno un grande bisogno". La risoluzione del Parlamento europeo ha trovato seguito nelle iniziative di alcuni partiti, segnatamente del Labour party e del Partito socialista francese, che hanno profondamente rinnovato la loro rappresentanza, portando alla Camera un alto numero di donne. La buona volontà dei partiti tuttavia non appare di per sé sufficiente a risolvere il problema in modo strutturale, essendo, come tutte le volontà, precaria e mutevole, e, soprattutto, non essendo condivisa da tutti.
        In Francia si è posto per la prima volta il tema delle quote riservate nelle leggi elettorali in una legge bocciata dal Conseil Constitutionnel nel 1982; seguita dal Belgio nel 1994, con una legge i cui esiti peraltro sono stati molto scarsi, e già dall'Italia nel 1993, con le note leggi elettorali poi bocciate dalla Corte costituzionale nel 1995. In Germania nel 1994 è stata introdotta una disposizione costituzionale che promuove la realizzazione effettiva dell'uguaglianza dei diritti tra uomini e donne e l'eliminazione delle disparità esistenti, dando così piena copertura alla libera scelta di alcuni partiti di introdurre quote per le donne nelle loro liste. Fuori dall'Europa è da ricordare poi la Carta canadese dei diritti e delle libertà (1982) che al paragrafo 2 dell'articolo 15 ha previsto una copertura costituzionale delle azioni positive.
        Non vogliamo entrare qui nel dibattito sulle quote, né nella disamina della controversa sentenza n. 422 del 1995 della Corte costituzionale. Vogliamo anzi sottolineare che la modifica all'articolo 51, che viene proposta, non deve essere intesa come univocamente mirante all'introduzione delle quote nelle leggi elettorali. La presente proposta di legge costituzionale mira a dare copertura costituzionale all'introduzione di azioni positive per incoraggiare l'accesso delle donne alle funzioni pubbliche e alle cariche elettive. Tra queste azioni positive possono esserci le quote, ma sarebbe sbagliato identificare in queste l'unica fattispecie possibile; così come sarebbe sbagliato, occorre sottolineare questo punto, opporsi alla presente proposta perché si è contrari alle quote. La questione delle quote resterebbe aperta e potrebbe porsi solo dopo, in relazione agli strumenti da scegliere per dare attuazione al dettato costituzionale modificato. Molti pensano (non infondatamente) che le quote presenterebbero comunque, anche in presenza di tale modifica, dei problemi di costituzionalità, riferiti all'articolo 3 e all'articolo 48 della Costituzione, almeno nei casi in cui - in assenza del voto di preferenza - la candidabilità viene a coincidere con l'eleggibilità. Ma rimandiamo questa discussione ad altra sede.
        Sappiamo però che c'è una forte domanda da parte delle donne italiane, o almeno di quelle che seguono ancora le dinamiche politiche (alle quali donne per le ragioni dette sopra dovremmo prestare orecchio attento), perché il legislatore intervenga in qualche modo a favorire l'accesso delle donne alla rappresentanza politica.
        Crediamo che sia ormai necessario dare una risposta organica e coerente a questa domanda, che è fondata sulle ragioni storiche che abbiamo cercato di illustrare, ed è rafforzata dal suo contemporaneo insorgere in altri Paesi europei. E la risposta più organica è appunto la modifica costituzionale che rende possibili azioni positive, avendo chiaro che le azioni positive possono essere di diverso tipo, come si è affermato anche nel dibattito della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali.
        Se facciamo riferimento alla sentenza n. 422 del 1995 della Corte costituzionale, risulta che la Corte respinge norme che alterano la rappresentanza, e non le considera conformi al rapporto tra primo e secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione - cioè tra eguaglianza formale e eguaglianza sostanziale - perché esse non si limiterebbero a rimuovere gli ostacoli, ma garantirebbero direttamente il risultato; allo stesso tempo tuttavia essa riconosce la presenza di ostacoli all'accesso delle donne agli uffici pubblici e alle cariche elettive, e invita i partiti (principali titolari della funzione di selezione delle candidature) a farsi carico di iniziative specifiche volte a superare tali ostacoli. Spetta invece al legislatore - sempre secondo la Corte - individuare interventi di altro tipo, certamente possibili sotto il profilo dello sviluppo della persona umana, per favorire l'effettivo riequilibrio fra i sessi nel conseguimento delle cariche pubbliche elettive, dal momento che molte misure, come si è detto, possono essere in grado di agire sulle differenze di condizioni culturali, economiche e sociali.
        Anche il legislatore ordinario può dunque fare la sua parte, senza ledere l'eguaglianza formale; per esempio intervenendo sulla distribuzione del finanziamento pubblico ai partiti, come è già avvenuto nella legge 3 giugno 1999, n. 157. Molte altre misure possono essere immaginate, come l'istituzione di crediti agevolati per le candidate, o altre forme di facilitazioni per la campagna elettorale.
        La fantasia del legislatore avrà modo di manifestarsi. Intanto la modifica costituzionale dà copertura a qualunque tipo di azione positiva; e soprattutto, vogliamo sottolinearlo, ha un grande valore simbolico, introducendo nella Costituzione, oltre il puro e semplice diritto alla parità, l'obiettivo di favorire il concreto esercizio di tale diritto, finora rimasto sulla carta. E' chiaro che anche le iniziative soggettive dei partiti, indicate giustamente dalla Corte come la via maestra, ne sarebbero incoraggiate e rafforzate. Infine, vogliamo sottolineare che la modifica proposta riecheggia quella adottata dal Parlamento francese nel luglio del 2000, al termine di un dibattito molto simile al nostro e di una complessa navetta tra Assemblea nazionale e Senato. Dopo la bocciatura del 1982, il Parlamento francese è tornato in questi anni sulla questione, per iniziativa del Primo ministro Jospin. Dopo un lungo e faticoso dibattito parlamentare si è raggiunto un provvedimento modificativo dell'articolo 3 della Costituzione francese, con cui si dispone che "la legge favorisce l'eguale accesso delle donne e degli uomini ai mandati elettorali e alle funzioni elettive", nonché dell'articolo 4, che impegna direttamente il partito politico ad adottare misure promozionali volte al riequilibrio della rappresentanza dei due sessi. Alla modifica costituzionale hanno fatto rapidamente seguito due leggi ordinarie, una delle quali ha statuito la formazione di due delegazioni parlamentari presso le Assemblee sui diritti delle donne e sull'attuazione della parità tra i sessi; l'altra ha introdotto l'obbligo di una pari presenza di candidature di uomini e donne per le elezioni amministrative, che avvengono per voto di lista. Il dibattito che si è svolto in questa vicenda parlamentare è stato esemplare per la sua profondità e serietà e per la capacità che il Parlamento francese ha mostrato di coinvolgere il mondo della cultura e dell'informazione. Un dibattito che merita la nostra attenzione, per la sua vicinanza e per il suo positivo esito.
        Le obiezioni sollevate in quel dibattito sono simili a quelle che sono state o saranno sollevate nel nostro. Anzitutto, quella che concerne la possibile incidenza di un qualunque tipo di intervento di sostegno alle candidature femminili sul concetto di rappresentanza politica.
        Anche ispirandoci al dibattito francese, discuteremo ora le questioni di legittimità che potrebbero essere sollevate dalla presente proposta di modifica all'articolo 51 della Costituzione.
        Un primo importante profilo riguarda la possibile incidenza delle azioni positive sul concetto di rappresentanza politica, che sembra ancora dominare il campo nella sua nozione tradizionale. Secondo il modello del costituzionalismo originario il popolo è visto come soggetto idealmente unitario, come soggetto cioè i cui interessi trascendono quelli degli individui e dei gruppi che lo compongono, e omogeneo, cioè costituito da individui tutti formalmente uguali tra loro. Tale nozione della rappresentanza politica sembra permanere nonostante la connotazione sempre più marcatamente pluralistica delle democrazie contemporanee. Ma ha ancora senso rifarsi a questa nozione classica della rappresentanza politica? Quell'unitarietà e omogeneità "ideale" del popolo non dovrebbe piuttosto cominciare ad essere vista nella sua reale configurazione? Non si vuole qui sostenere il ritorno ad una nozione "corporativa" della rappresentanza, portatrice di categorie differenziate di interessi, ma di una rappresentanza "effettiva", che tenga conto delle differenze. Solo in tale caso, infatti, la rappresentanza sarà in grado di essere unitaria e lo sarà in maniera non corporativa.
        "Il concetto classico della rappresentanza politica si è dimostrato più che mai insufficiente ad assicurare una presenza paritaria (o quasi) tra uomo e donna nei luoghi istituzionali. Il concetto classico di rappresentanza politica si fonda su una logica contrattualistica che assume gli individui come perfettamente uguali ed asessuati, ovvero entità astratte e formali, avulse dal contesto sociale in cui vivono (...). Tutti possono accedere in condizioni di uguaglianza alle cariche pubbliche, come afferma l'articolo 51 della Costituzione, ma in tal caso l'uguaglianza sta a significare mera possibilità (...). In altre parole siamo di fronte a dei diritti contrassegnati dalla sola uguaglianza formale, diritti politici di cui si gode per il semplice fatto di essere membri di una collettività" (Morris Montalti, La rappresentanza del genere femminile. Riflessioni comparative, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 4/2000). E' stato questo "alibi universalista" che ha permesso di sorvolare sul tema delle pari opportunità anche nel campo dei diritti politici, rifiutando di estendere a questo campo il riferimento al secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione.
        E' pur vero che le donne non costituiscono un "gruppo" alla stregua delle minoranze linguistiche e religiose, perché portatrici di una specificità trasversale - e questa sì veramente universale - rispetto a gruppi o categorie componenti la società. Tuttavia le donne condividono una condizione reale - "di fatto" - di esclusione. Quindi negare che siano un gruppo non può condurre ad ignorare questa condizione reale.
        La concezione unitaria della rappresentanza politica, intesa come rigorosa parità formale tra i titolari dei diritti politici, è storicamente connaturata all'idea dello Stato di diritto. Non vogliamo certo gettare via un importante patrimonio ereditato fin dall'età liberale, ma più opportunamente proponiamo di integrarlo, o meglio di correggere quelle distorsioni che impediscono ad una rappresentanza ideale di poter diventare anche effettiva. Non si tratta di ridurre i rappresentanti a meri delegati, privi di autonomia decisoria, ma di correggere una nozione di rappresentanza astratta, trasformando quel popolo "idealmente unitario" in "effettivamente rappresentato". Si vuole insomma trasferire la fondamentale distinzione operata dall'articolo 3 della Costituzione tra l'uguaglianza formale di fronte alla legge e l'uguaglianza sostanziale, intesa quale rimozione di quegli "ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalità umana..." anche sul terreno della rappresentanza politica. Non per ritornare ad una visione pre-moderna della rappresentanza politica, ma per garantire l'effettività dei diritti politici a tutti gli individui. E' del resto riconosciuto che "la rappresentanza politica è un concetto classico del costituzionalismo moderno e contemporaneo, che soffre delle contraddizioni derivanti dal sovrapporsi di varie ere delle istituzioni rappresentative. Disposizioni fondate sulla struttura della società liberale oligarchica oggi hanno assunto un significato profondamente diverso nelle moderne società di massa fondate sui partiti. In questa prospettiva lo stesso atto elettivo ha cambiato completamente significato per divenire non soltanto preposizione di individui a cariche potestative, ma scelta di programmi partitici e di leaders" (Fulco Lanchester, Rappresentanza, responsabilità e tecniche di espressione del suffragio. Nuovi saggi sulle votazioni, Bulzoni, Roma, 1990, 1997). Ma allora anche la "contraddizione originaria" della rappresentanza politica, quella che fa di "individui differenti cittadini indifferenziati" (F. Lanchester, citato) va integrata in modo nuovo.
        E' vero infatti che "eguaglianza non significa in ogni caso assoluta uniformità di trattamento, bensì, al contrario, disciplina adeguata alle situazioni concretamente differenziate"; con l'avvertenza che "non qualsiasi differenza è costituzionalmente ammissibile, ma (...) solo quelle che trovano un fondamento ragionevole" (Valerio Onida, Le Costituzioni. I principi fondamentali della Costituzione italiana, in G. Amato - A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Bologna 1984).
        A proposito di interventi differenziati, va citato il fatto che la Corte costituzionale, mentre affermava la concezione classica della rappresentanza a proposito della differenza di sesso, un po' sorprendentemente accettava invece una rappresentanza differenziale delle minoranze linguistiche tutelata dalla legge, la così detta "proporzionale etnica", regolamentata dalle norme dello Statuto del Trentino-Alto Adige, in aperta contraddizione con l'articolo 51. A questo proposito è stato osservato che "l'interprete si trova al cospetto d'una catena normativa nella quale il primo comma dell'articolo 3 della Costituzione funge da regola, il secondo comma da eccezione, l'articolo 51 da eccezione all'eccezione (che restaura la vigenza della regola), e in ultimo l'articolo 89 dello statuto del Trentino-Alto Adige da contro-eccezione" (M. Ainis, Azioni positive e principio di uguaglianza, in Giurisprudenza Costituzionale, 1992, 603).
        Ora, che la differenza di genere sia un fondamento "ragionevole" a trattamenti differenziati, anche più ragionevole, per la sua universalità, di quella costituita da una minoranza linguistica, ci sembra difficilmente contestabile, anche se può ripugnare ad una concezione troppo rigidamente formale, e quindi astratta, della rappresentanza politica. Più significativa sembra la distinzione tra condizioni di eguaglianza dei risultati e dei punti di partenza, distinzione alla quale è affidata, almeno a parere di chi scrive, l'accettabilità e la positività della presente proposta di legge costituzionale. L'obiettivo che ci proponiamo non è "garantire" in qualche forma alle donne una quantità determinata di seggi nelle assemblee elettive (per il quale valgono le obiezioni di Lanchester e di tanti altri costituzionalisti). Ma invece quello di promuovere la parità d'accesso, dunque di favorire la possibilità reale delle donne di essere candidate e di condurre la loro campagna elettorale in condizioni di parità. Da questo punto di vista, stupisce che sia il Conseil Constitutionnel francese che la nostra Corte costituzionale abbiano nelle loro pronunce posto sullo stesso piano il diritto di essere eletti e quello di essere candidati. Hanno cioè sorvolato sulla sostanziale differenza esistente tra una garanzia di risultato (una elezione predeterminata dalla legge) e la necessità di garantire una effettiva uguaglianza nelle posizioni di partenza (vedi Stefano Ceccanti, Francia ed Italia di fronte alle differenze di sesso e di lingua: crisi comuni delle certezze consolidate ed esiti diversi, in Diritto pubblico comparato europeo, 1/2000). Riteniamo invece che proprio la "candidabilità", ovvero la possibilità di accedere alle candidature con le stesse opportunità, sia il presupposto di fatto per l'esercizio (in concreto) del diritto di elettorato passivo che si vorrebbe uguale per tutti.
        Un altro profilo di presunta illegittimità è stato sollevato nel dibattito francese (ma ce ne sono tracce anche nella sentenza n. 422 del 1995) a proposito dell'unità del popolo sovrano, che verrebbe posta in questione e frammentata in categorie dall'introduzione di una considerazione del sesso nella rappresentanza politica. Su questo punto merita di essere ripresa l'argomentazione di Sylviane Agacinski, che sostiene che dare traduzione politica alla compresenza ("mistione") di uomini e donne nella nazione non significa introdurre una divisione in categorie, ma riconoscere la duplicità originaria dell'essere umano: "Se essere donne costituisce uno dei due modi essenziali di essere una creatura umana (...), allora si deve ammettere che un popolo, quale che sia, esiste anche secondo un duplice modo" (La politica dei sessi, Milano 1998, p. 195).
        In sostanza, le donne non possono essere considerate una categoria di cittadini; piuttosto devono essere considerate "una categoria dell'umano", come dice Blandine Kriegel, secondo la quale la parità deriva direttamente dai diritti umani, e dunque dalla "adeguazione della città politica alle determinanti fondamentali della vita umana". In questo senso la parità tra uomini e donne non rappresenta un'eccezione del principio di eguaglianza, ma una sua più forte realizzazione (La parité et le principe d'égalité, in Conseil d'Etat, Rapport public 1996).
        Nella stessa direzione va la costituzionalista Lorenza Carlassare, quando afferma che "La società (l'umanità, anzi) è composta di donne e di uomini: è in nome della stessa democrazia, non dell'interesse delle donne, che va posta l'esigenza che le istituzioni, come la società, siano composte di donne e di uomini" (La rappresentanza femminile: principi formali ed effettività, in Genere e democrazia, a cura di F. Bimbi e A. Del Re, Torino 1997).
        Vorremmo ora fare un breve cenno sull'indagine conoscitiva svoltasi in Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati nella XIII legislatura. Ci riferiamo alle audizioni dei docenti di diritto pubblico e costituzionale, e a quelle delle rappresentanti della Commissione nazionale per le pari opportunità e delle rappresentanti di numerose associazioni femminili, come Emily in Italia, Arcidonna, Soroptimist e l'Associazione nazionale donne elettrici, per la prima volta istituzionalmente invitate nella I Commissione.
        L'indagine conoscitiva verteva sulle proposte di legge d'iniziativa parlamentare concernenti la modifica degli articoli 51 e 55 della Costituzione. In linea generale tutti i partecipanti concordavano su un dato di partenza: la constatazione di una minoritaria presenza delle donne nelle istituzioni democratiche a tutti i livelli e la configurazione di questo dato di fatto come un "problema culturale", di antica data. A partire da questa condivisa considerazione, la discussione si è articolata su una serie di problematiche connesse. Un primo profilo riguardava la questione se fosse opportuno o meno incidere sulla Costituzione. Partendo dalla considerazione che le Carte costituzionali non sono immodificabili, ma vanno anche gestite con la doverosa cautela, ci si è interrogati se una eventuale modifica all'articolo 51 potesse incidere sui princìpi supremi contenuti all'interno della Costituzione. Si trattava di capire meglio se fosse legittimo o meno un intervento del legislatore costituzionale, anche alla luce della sentenza n. 422 del 1995. Si è ricordato che la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale, che ha elaborato il concetto dei "superprincìpi", non consente quanto è ammesso in Francia ovvero che il legislatore in sede di revisione costituzionale possa correggere qualsiasi sentenza del Conseil Constitutionnel.
        Questa considerazione non necessariamente deve far propendere per la immutabilità assoluta del nostro dettato costituzionale, ma esige un'attenta verifica sull'esistenza o meno di una violazione di princìpi supremi. Nel dibattito è tendenzialmente emersa l'opinione che attraverso la proposta di modifica all'articolo 51 si poneva non tanto un problema di violazione del giudicato della Corte costituzionale, quanto una controversia sulla interpretazione del principio di rappresentanza politica, inteso in modo diverso dalla Corte stessa e da altri operatori del diritto. La Corte suprema, infatti, nella sentenza n. 422, si era concentrata sull'impossibilità di operare differenziazioni fondate sul sesso all'interno del settore rappresentativo-politico, riconoscendo l'ammissibilità delle azioni positive, purché nei limiti sanciti dall'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, ovvero "per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale". Ciò renderebbe discutibile l'intervento sulla rappresentanza politica.
        D'altra parte emergeva l'esigenza di interpretare il concetto di "rappresentanza politica" in un senso meno rigorosamente formale, tenendo anche conto delle profonde modificazioni storiche e culturali, intervenute dal 1948 ad oggi. E' stato così sottolineato che la sentenza n. 422 fa sì un richiamo ai princìpi regolatori della rappresentanza politica configurandoli come princìpi supremi, ma esso, per parte della dottrina, costituirebbe solo un obiter dictum, ovvero un'affermazione incidentale che non ha un'incidenza logica, diretta e razionale sul dispositivo, e come tale non sarebbe suscettibile di creare giurisprudenza. Sarebbe cioè un'opinione del relatore ad abundantiam, che rafforza la motivazione, ma che non necessariamente la tiene in piedi. Un secondo profilo riguardava invece il "dove" dell'intervento costituzionale. Da un lato è stato considerato inopportuno un intervento sull'articolo 55 della Costituzione, solo per i diversi problemi giuridici che un tale intervento solleverebbe, ma anche per una considerazione che è stata valutata come decisiva. Un eventuale intervento sull'articolo 55 della Costituzione sarebbe stato limitato alla sola rappresentanza politica nazionale, escludendo le regioni e gli enti locali, con il rischio di esiti paradossali, specie dopo l'introduzione del principio del riequilibrio della rappresentanza nella legge costituzionale di modifica degli statuti delle regioni a statuto speciale. Dall'altro lato si è discusso sull'opportunità di intervenire direttamente sul primo comma dell'articolo 51, che fa espresso riferimento "agli uffici pubblici e alle cariche elettive", ovvero di intervenire sul terzo comma dell'articolo 51 stesso che utilizza l'espressione "funzioni pubbliche elettive", ovvero di inserire la modifica in un autonomo comma. Pur riconoscendo la differenza di problematiche connesse ad un intervento riguardante "gli uffici pubblici" e/o "le cariche elettive" - nel primo caso emerge infatti il profilo del merito del candidato, questione non presente nel caso delle cariche elettive - la questione è sostanzialmente stata lasciata aperta.
        Infine va registrata una sostanziale adesione di tutti i docenti intervenuti ad una formulazione analoga a quella successivamente approvata dalla Commissione: è stato infatti più volte sottolineato il suo carattere generale ed elastico, di norma "ombrello", e l'effetto pedagogico, che dovrebbe essere proprio di tutte le norme costituzionali. Senza precludere interventi di tipo legislativo più incisivo, tale norma offre copertura costituzionale e insieme libertà al legislatore ordinario di modulare il proprio intervento nel favorire il riequilibrio della rappresentanza politica.
        Altrettanto prezioso e interessante è stato il dibattito suscitato dai contributi portati dalle rappresentanti di diverse associazioni che hanno un rapporto fondamentale con le donne nella società. Sono state infatti portatrici, oltre che di rigorosi ragionamenti giuridici e di linee di pensiero, anche dei percorsi storici e culturali che hanno contraddistinto la loro storia personale e quella delle donne in generale.
        Diverse sono state le problematiche sollevate. Ricordando il vivissimo problema della scarsa presenza delle donne nella vita pubblica, della conseguente caduta democratica e dei sempre più allarmanti dati relativi all'astensionismo femminile, le diverse rappresentanti ascoltate hanno innanzitutto concordato, al pari dei costituzionalisti, che non solo la riforma dell'articolo 51 è utile, ma anche necessaria. Forse non sufficiente a risolvere un problema che è anche politico e sociale - e non certo solamente giuridico - ma tale da porci se non altro al passo con la situazione degli altri Paesi europei, e con le ultime tendenze che si sono manifestate sia a livello comunitario che internazionale. Dopo aver sottolineato la singolare sfasatura esistente tra una società composta da più donne che uomini e una rappresentanza "non rappresentativa" di questa stessa società, è stato sottolineato come ciò costituisca in generale un male per la nostra democrazia, essendo uno dei sintomi del profondo distacco tra politica e società. Tale sintomo è sembrato ancora più grave se confrontato con i dati riguardanti l'elevata presenza femminile nelle cariche pubbliche per le quali sono previste procedure trasparenti. Veniva cioè a delinearsi una stretta relazione tra trasparenza e certezza delle procedure, maggiore o minore apertura nell'accesso a candidature o uffici, e concreta possibilità di maggiore partecipazione delle donne. Queste considerazioni hanno animato il dibattito sul difficile rapporto delle donne con la politica e su come la loro partecipazione vada sì, sostenuta, ma attraverso la valorizzazione dei talenti, delle competenze e dei meriti; quindi, attraverso la trasparenza delle procedure.
        La modifica costituzionale è apparsa muoversi su queste linee direttrici. In particolare è stato apprezzato il fatto che riflette gli importanti mutamenti storici avvenuti nella società dal 1945 ad oggi, e che essa non fornisce indicazioni specifiche sulle singole azioni positive da intraprendere. Sebbene questo secondo profilo abbia sollevato la preoccupazione di una debolezza nell'attuazione sul piano legislativo, ne è stata valutata l'importanza sotto un altro profilo. L'assenza di indicazioni specifiche circa il merito delle singole azioni positive tiene conto infatti della contestualità in cui le singole azioni positive andranno ad inserirsi, del momento storico specifico e della loro intrinseca temporaneità. Infine, nel corso del dibattito, è emerso come uno dei pregi della proposta fosse quello di riuscire ad evitare due pericolosi rischi. Il primo è stato definito il "rischio etnicistico", quello cioè che porta a considerare le donne come esponenti di un "gruppo etnico", di una categoria, di una minoranza. Seppur con posizioni differenti, nel corso delle audizioni è stato ribadito il rifiuto per una "rappresentanza da dividere in due", come se le donne fossero portatrici degli interessi delle donne e gli uomini di quelli degli uomini. La modifica all'articolo 51 nella formulazione che è poi stata licenziata dalla Commissione nella XIII legislatura sembra tutelare il carattere "universale" della rappresentanza. Il secondo rischio prospettato era quello di descrivere la rappresentanza come un diritto positivo, un diritto cioè a quella "certezza del risultato" contro cui si esprimeva la sentenza n. 422 del 1995. La formulazione proposta è sembrata salvaguardare la fondamentale differenza tra "candidabilità" ed "elezioni", e tra pari opportunità di accesso alle candidature e garanzia di risultato. La tendenza è sembrata essere quindi quella di considerare tale proposta come fortemente innovativa, e quindi necessaria, ma anche profondamente rispettosa dell'impianto e della coerenza della nostra Costituzione.
        Il testo licenziato il 24 luglio 2000 dalla I Commissione in sede referente risulta da un dibattito che aveva alla sua base diverse proposte.
        Il principale punto in discussione sia in Commissione, sia nel corso delle audizioni svolte, è stato quello riguardante la nozione di rappresentanza, e la legittimità o meno di una modifica costituzionale che potesse incidere su quello che da molti è considerato un principio supremo della Carta costituzionale.
        Molte delle proposte di legge abbinate mostravano una preferenza per l'espressione "equilibrio della rappresentanza", che, pur sembrando più efficace al fine di raggiungere una più adeguata presenza delle donne nell'accesso alle cariche elettive, rischiava di generare confusione e incertezza tra due distinti profili: quello delle pari condizioni di accesso alle candidature, e quello di una elezione garantita, quasi predeterminata dalla legge.
        Il vivace e ricco dibattito di questi anni ci ha consentito di approdare al testo adottato dalla Commissione con la formulazione "La Repubblica promuove (...) la parità di accesso tra donne e uomini".
        Questa formulazione, oltre ad essere quella che meglio si inserisce nel dettato costituzionale anche su un piano linguistico - riprendendo il termine "parità" che è presente in altri articoli (vedi articolo 37 della Costituzione) e che peraltro, vale la pena notarlo, è termine ormai invalso nel dibattito politico delle donne italiane e francesi - è anche quella che meglio tutela le due esigenze emerse nel dibattito. Da un lato, infatti, garantisce che una norma, sia pure elastica e dalla funzione pedagogica, sia però fornita della necessaria incisività per fronteggiare concretamente il problema della minoritaria presenza femminile nella vita pubblica. Dall'altro elimina il pericoloso rischio che la nozione di rappresentanza, quale è a noi pervenuta fin dalla nascita dello Stato di diritto, possa essere snaturata.
        Ecco perché questa formulazione ci è sembrata quella che più di ogni altra ha saputo raccogliere il frutto dell'intenso dibattito, delle riflessioni e degli scambi di opinioni avvenuti in questi anni nel Paese e nel Parlamento.




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