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PDL 6182

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 6182



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

CARBONELLA, COLASIO

Istituzione del «Festival nazionale itinerante della pasta italiana»

Presentata il 15 novembre 2005


      

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Onorevoli Colleghi! - Già Cicerone e Orazio, cento anni prima di Cristo, erano ghiotti di làgana (termine che deriva dal greco «laganoz», da cui il latino «làganum», che designava una schiacciata di farina senza lievito, cotta in acqua e la forma plurale «làgana» indica delle strisce di pasta sottile, da cui derivano le nostre lasagne). Ma fu Apicio a lasciarci la prima vera documentazione sull'esistenza di un composto assai simile alla nostra pasta; nel suo «De re coquinaria libri» infatti egli descrive un timballo racchiuso entro làgana. Dal 200 dopo Cristo fino almeno all'anno mille non abbiamo più notizie documentate. Si pensa che la pasta, intesa non già come composto generico, ma proprio come maccheroni, sia originaria della Sicilia: nella località di Trabìa, presso Palermo, si fabbricava un particolare «cibo di farina in forma di fili», chiamato con il vocabolo arabo «itriyah». Ed ancora oggi a Palermo si conoscono i vermicelli di Tria. Che siano anche gli spaghetti un'invenzione araba? Il fatto che in arabo esistesse il termine per designare questo cibo «in forma di fili» ce lo lascia supporre, ma nessun documento ce lo conferma. Il termine maccheroni non ha un'etimologia precisa.
      Spesso usato inizialmente per designare paste variamente ripiene, sul modello dei nostri ravioli, troviamo poi il vocabolo macaronis impiegato per indicare piccoli gnocchetti di semola (1279, documento del notaio Ugolino Scarpa), del tipo dei «malloreddus» sardi. Il filologo Agnolo Morosini (circa 1400), ricercando sulle probabili origini della parola, ci riconduce a due possibili etimologie: al basso greco macaria, che indicava un impasto di orzo e di brodo, oppure al greco classico macar cioè felice, beato e quindi «cibo dei beati». Fino al settecento esiste comunque una gran confusione; i tipi diversi di pasta vengono etichettati normalmente come
 

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maccheroni finché i napoletani, divenuti «mangia maccheroni», si appropriano del termine e lo usano quasi esclusivamente per identificare paste lunghe trafilate: ormai i maccheroni rientrano nell'alimentazione pressoché quotidiana del popolo, intesi come cibo semplice, povero, ma soprattutto nutriente e veloce, quasi un fast-food ante litteram. Intorno agli inizi dell'ottocento le prime fotografie mostrano i maccheronari agli angoli delle strade intenti a cuocere in enormi pentoloni la vivanda e a servirla, appena cosparsa di formaggio grattugiato e insaporita di pepe, ai viandanti che mangiano davanti al banco senza altro ausilio che le mani. Da questo momento in poi i maccheroni intesi come pasta lunga, tonda e piena, cominceranno a essere chiamati spaghetti e a identificare non più soltanto i napoletani, ma tutto il popolo italiano.
      Correva l'anno 1279 quando il notaio Ugolino Scarpa, elencando ciò che il milite Ponzio Bastone lasciava in eredità, cita tra le altre cose «bariscella una piena de macaronis» (un certo pieno di maccheroni). Ancora prima, nel 1244, un medico bergamasco promette a un lanaiolo di Genova che l'avrebbe guarito da un'infermità alla bocca se egli non avesse mangiato né carne, né frutta, né cavoli, ne pasta: «(...) et non debes comedare aliquo frutamine neque de carne bovina nec de sicca neque de pasta lissa nec de caulis (...)» (Roberto S. Lopez «Su e giù per la storia di Genova»). Marco Polo torna a Venezia nel 1292. Il confronto di queste tre date chiarisce da solo ogni dubbio residuo: la pasta non fu invenzione cinese, gli italiani la conoscevano già prima che l'eroe de Il Milione tornasse dal suo avventuroso viaggio. Allora furono veramente gli italiani a inventare la pasta?
      Pare assai azzardato cercare di imputare a tutti i costi l'invenzione della pasta perché, a nostro avviso, di invenzione non si tratta, ma piuttosto del naturale sfruttamento di una materia prima assai diffusa. Il frumento era conosciuto circa diecimila anni fa e quando si scoprì che, frantumandone i chicchi, se ne poteva ricavare la farina, gli uomini incominciarono anche a produrre i primi impasti che, cotti su pietre roventi, davano sottili focacce, il famoso pane àzimo. Dalla cottura del composto farina-acqua sulle pietre, alla bollitura in acqua il passo è breve e naturale. Le più antiche testimonianze su formati di pasta cotti in acqua risalgono infatti a 3.000 anni avanti Cristo. Famosi i rilievi in stucco della Grotta Bella, tomba etrusca del IV secolo avanti Cristo, che riproducono l'interno di una casa: ai due pilastri centrali sono appesi, tra l'altro, la spianatoia, il matterello, la rotella dentata, eccetera.
      Nella sua formulazione più semplice dunque la pasta è cibo antichissimo, che ebbe origini del tutto indipendenti. Non ci sembra perciò giusto parlare di «invenzione» quando ci si riferisce a un alimento la cui produzione e il cui consumo sono naturali conseguenze dell'evoluzione della civiltà dei popoli. Ciò che comunque resta certo è che non fu Marco Polo a insegnarci a mangiare gli spaghetti! Ma non furono nemmeno i napoletani a dare origine alla pastasciutta. I maccheroni non sono nati a Napoli, ciò è storicamente accertato, ma in questa città hanno ricevuto senz'altro la loro massima esaltazione popolaresca: l'innata sapienza gastronomica del napoletano, fatta di entusiasmi, di intuiti e di sentori, ha subito accolto, arricchito e fatto proprio questo cibo. Tanto che, alla fine del seicento, esso diventerà la base dell'alimentazione quotidiana popolare e, trasformando il napoletano da mangiafoglia a mangiamaccheroni, come dice E. Sereni, originerà una simbiosi inscindibile.
      È inevitabile a questo punto che il pensiero vada, quasi immediatamente, alla poesia «maccheronica». Questo genere letterario, perché di ciò si tratta, già affermato tra il 1400 e il 1500 nell'ambiente goliardico padovano, ebbe il suo massimo esponente in Teofilo Folengo, nato a Mantova nel 1491 e conosciuto in arte con lo pseudonimo, che egli stesso usava, di Merlin Cocai. L'originalità delle sue opere sta nell'uso di un linguaggio, appunto maccheronico: un misto di parole latine e italiane con desinenze latine; definito maccheronico perché grossolano e
 

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piuttosto pasticciato, in contrapposizione al linguaggio accademico. D'ora in poi l'aggettivo maccheronico starà a indicare un'azione svolta in modo confusionario e facilone, poco ortodosso. La sua raccolta di «opere maccheronee» uscì postuma nel 1552. Dal settecento in poi il piatto di maccheroni ispira una quantità di autori che ne fanno menzione in sonetti, canzoni, poemi e cantilene.
      Giacomo Casanova compone a Chioggia un sonetto in onore dei maccheroni (1734) e ne fa una tale mangiata che viene subito incoronato Principe dei maccheroni. Intanto, o poco più tardi, a Napoli il popolo canta:

Chi mogliera vuol pigliare
E far buono il desinare,
Deve fare un calderon
Tutto pien di Maccheron.

      Ma l'opera principe sull'argomento è costituita da «Li Maccheroni di Napoli», poema giocoso di Antonio Viviani, pubblicato nel 1824. L'opera è rilevante ai nostri fini prima di tutto perché in essa appare per la prima volta la parola «spaghetto», poi perché sono illustrate, con linguaggio poetico, le varie fasi di lavorazione della pasta, dalla farina al maccherone, dando grosso modo un'idea della reale situazione napoletana dell'epoca.
      Gran divoratore di maccheroni, anche se nulla scrisse su di essi, fu Gioacchino Rossini. Tanto che si racconta, fra i numerosi aneddoti suscitati dalle sue passioni gastronomiche, che dopo il fiasco de «Il Barbiere di Siviglia» a Roma nel 1816, egli fu invitato dall'impresario Barbaia nel suo palazzo. Qui gli fu offerta la più completa ospitalità a patto che, entro sei mesi, il Maestro consegnasse una nuova opera, l'Otello. Per mesi il compositore mangiò e bevve in allegra compagnia senza minimamente pensare di mettersi all'opera finché l'impresario, stanco di non vedere alcun risultato, lo rinchiuse nella sua stanza, da dove non lo avrebbe fatto uscire che in cambio della nuova composizione. Dopo 24 ore Rossigni consegnava, dalla finestra, l'ouverture dell'opera!
      Egli si faceva arrivare i maccheroni solo da Napoli e in una lettera del 1859, lamentandosi con un amico per il mancato arrivo di questi, si firma «G. Rossini. Senza Maccheroni!!!».
      È famosa invece la diatriba sorta, sempre in merito ai maccheroni, tra Giacomo Leopardi e i napoletani. Il cupo poeta di Recanati, che probabilmente mai mangiò maccheroni in vita sua, dileggia l'amore che i napoletani hanno per tale cibo in poche righe de «I nuovi credenti», composizione del 1835:

«(...) tutta in mio danno
s'ama Napoli a gara alla difesa
de' maccheroni suoi; ch'ai maccheroni
anteposto il morir troppo le pesa.

E comprender non sa quando son buoni,
come per virtù lor non sian felici
borghi, terre, province e nazioni».

      Ma subito i napoletani con la «maccheronata» di Gennaro Quaranta rispondono per le rime:

«E tu fosti infelice e malaticcio
O sublime Cantor di Recanati,
che, bestemmiando la Natura e i Fati,
frugavi dentro te con raccapriccio.
Oh mai non rise quel tuo labbro arsiccio,
né gli occhi tuoi lucenti ed incavati,
perché... non adoravi i maltagliati,
le frittatine all'uovo ed il pasticcio!

Ma se tu avessi amato i Maccheroni
Più de' libri, che fanno l'umor negro,
non avresti patito aspri malanni...

E vivendo tra pingui bontemponi,
giunto saresti, rubicondo e allegro,
forse fino ai novanta od ai cent'anni».

      Nel 1860 i maccheroni, come emblema del popolo napoletano, sono protagonisti di un famoso aneddoto dovuto all'imperatrice Eugenia. Durante una festa cui partecipava l'ambasciatore piemontese a Parigi, Costantino Nigra, ella ebbe la trovata di fare rappresentare una gustosa scenetta dal suo ciambellano.
      Sommariamente truccato alla Cavour l'uomo siede a tavola. Gli vengono ammaniti

 

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piatti evidentemente allusivi alla situazione storica del momento: stracchino e gorgonzola (allusione all'annessione della Lombardia), parmigiano (ducato di Parma) e mortadella di Bologna (Emilia), dopo l'aleatico vengono servite arance siciliane e tutto il buon uomo divora di gusto finché gli servono, per ultimo, un bel piatto di maccheroni che egli invece (su istruzioni dell'imperatrice) rifiuta fermamente: «No, per oggi basta, conservatemi il resto per domani (...)». La cosa fu subito riferita da Nigra al vero Cavour che, percependo immediatamente l'allusione dell'imperatrice, disposta a cedere la Sicilia, ma non Napoli, rispose: «I maccheroni non sono ancora cotti, ma in quanto alle arance che stanno qui sulla mensa, siamo disposti a mangiarle». Poco dopo si era all'Unità d'Italia e Napoli stava per essere annessa al Regno, allora Cavour scriveva: «I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo».
      Con i primi del novecento la letteratura che ci riguarda assiste a un decadimento dei maccheroni, sia come argomento letterario, sia come termine, comunemente sostituito dai vocaboli come pastasciutta o spaghetti.
      È famosa l'avversione di Filippo Tommaso Marinetti per la pasta, dettata non tanto da antipatia personale, quanto da un atteggiamento politico di origine intellettuale suggerito, pare, dallo stesso Mussolini. Comunque, nel Manifesto della cucina futurista egli scrive: «crediamo anzitutto necessaria l'abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana».
      Ma dopo essere stato sorpreso in un ristorante a divorare spaghetti viene subito deriso:

«Marinetti dice "Basta,
messa al bando sia la pasta".
Poi si scopre Marinetti
Che divora gli spaghetti».

      A decorrere dal cinquecento la pasta valica i confini strettamente italiani per conquistare il mondo.
      La troviamo prima di tutto in Francia, grazie a Caterina de' Medici e al Platina che contribuirono a diffondere la cucina rinascimentale italiana.
      Non si sa invece esattamente come approdò in Inghilterra, ma si sa che era ivi conosciuta in quanto di maccheroni si parla in un dizionario tecnico dell'epoca e nel settecento erano già così diffusi che una commedia allora in voga nei maggiori teatri di Londra si intitolava «The Macaoni».
      All'incirca nello stesso periodo la pasta compare anche in America, teoricamente ad opera dello statista americano Jefferson il quale, durante un viaggio in Italia, imparò a conoscerla e ad apprezzarla e, volendo introdurla nel proprio Paese, si fece inviare tutti i macchinari. Più praticamente però la diffusione si ebbe grazie agli emigranti italiani che caricavano di maccheroni le stive delle navi destinate a portarli nel nuovo continente. In realtà l'affermazione fu assai rapida, se il protagonista di «Yankee Doodle», famosa ballata dei pionieri del settecento, gira per la città con un maccherone sul cappello!
      Oggi non si contano in America le Spaghetti-House, le preparazioni a base di spaghetti e le ricette per cucinarli, in cui peraltro si dichiara di seguire fedelmente l'autentico metodo di cottura all'italiana.
      In Italia la pasta secca è tradizionalmente, e ora anche per legge, confezionata con il prodotto della macinazione del grano duro (Triticum durum), appunto la semola. Mentre l'altra importante specie di frumento, cioè il grano tenero (Triticum vulgare) viene usato per la farina, quindi per la confezione casalinga della pasta all'uovo, del pane, eccetera. Morfologicamente i due tipi di grano non presentano differenze clamorose: il chicco di grano duro è leggermente più oblungo e di aspetto quasi traslucido, mentre il chicco di grano tenero è opaco e tondeggiante. Il primo cresce nei terreni assolati e rudi del sud Italia, quello tenero preferisce il clima più umido e tranquillo della pianura padana. Ecco quindi, per inciso, l'origine della differenza dei consumi tra pasta secca al sud e pasta all'uovo al nord.
      L'Italia conferma la sua leadership tra i Paesi produttori e consumatori di questo alimento che ha saputo superare ogni confine geografico e culturale. Dalle tavole

 

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degli etruschi a quelle del mondo intero. Un mercato globale? Logico, per un alimento straordinario, a sua volta più che mai «globale». A rendere vincente la pasta nel mondo è il suo «pass-partout» di caratteristiche uniche e inimitabili. E mai come in questi ultimi anni la capacità di superare confini culturali e geografici, innescando nuove tendenze di consumo, è stata propria della pasta e del suo background imprenditoriale. Non è un caso che l'incidenza della domanda estera sul prodotto italiano (il primo al mondo) abbia superato il 45 per cento e si avvii a doppiare il capo del 50 per cento. Ma oltre all'elenco di acquirenti di pasta italiana, a parlare chiaro dell'interesse mondiale crescente per la pasta è la composizione del pacchetto di Paesi produttori. L'elenco - accanto ai fortissimi USA (secondo produttore dopo l'Italia), ai Paesi europei più prossimi geograficamente e culturalmente, ai latino-americani a forte presenza italiana - vede in buona crescita Paesi come Perù, Egitto, Polonia e Turchia. In assoluto rilievo c'è poi il Giappone, dove i trend alimentari degli ultimissimi anni hanno portato lo stile alimentare italiano in primissimo piano, innestandolo sulla tradizionale abitudine al consumo di noodles, gli spaghettini da zuppa. Il consumo di pasta di qualità tocca così indici inediti, ovunque.
      Tornando per un attimo ai «clienti» di pasta italiana: la Germania ha strappato agli USA il primato di Paese importatore di pasta italiana con il 16,2 per cento contro il 14,99 per cento americano. La Francia si attesta al 12,9 per cento, la Gran Bretagna è all'11 per cento, il Giappone sale al 5,5 per cento mentre la Russia, complice anche la perdurante crisi economica, è scesa al 4,1 per cento. In Giappone, di cui si diceva prima, la pasta (il 70 per cento del mercato è targato Italia, segue la Cina) guida il treno del successo su cui viaggiano oggi i prodotti alimentari e i ristoranti italiani. A Tokyo 500 ristoranti di prestigio fanno cucina italiana, tra Osaka e Kyoto altri 400. In televisione maestri di cucina insegnano a preparare primi piatti (e non solo) all'italiana. Chef celebri come Muray, dell'Attore di Tokyo, o Daisuke Yamane del Ponte Vecchio di Kyoto, sono apostoli di pasta, ma anche di olio e di vino italiani. Negli USA (9 chili pasta a testa consumati ogni anno) è un successo travolgente, specie dopo lo «sfondamento» della dieta mediterranea e dei suoi princìpi. I grandi ristoranti italiani tengono banco, i piccoli hanno ottenuto ottimi risultati con il «take home», aprendo vere e proprie catene di negozi. È il caso di «Cucina! Presto!», ristorante con servizio da asporto nato nello Stato di Washington (dati dell'Unione industriali pastai italiani).
      Dato che l'Italia, come detto, è il Paese patria del consumo e della produzione di pasta, con la presente proposta di legge si istituisce il «Festival nazionale itinerante della pasta italiana», manifestazione annuale itinerante per valorizzare e diffondere la cultura, la tradizione, la produzione e la vendita della pasta italiana nel mondo.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Istituzione del «Festival nazionale
itinerante della pasta italiana»).

      1. È istituito il «Festival nazionale itinerante della pasta italiana», di seguito denominato «Festival», quale momento di valorizzazione, tutela e diffusione della cultura e della tradizione culinaria italiana, della pasta e dei suoi condimenti.
      2. Il Festival, oltre alla tutela e alla valorizzazione della tradizione culinaria italiana legata al consumo, alla produzione e alla commercializzazione della pasta italiana, ha lo scopo di istituire una vetrina mondiale utile alla promozione dei prodotti italiani e del made in Italy di settore.
      3. Il Festival si propone, inoltre, come mezzo per valorizzare e incentivare l'indotto rappresentato dalle scuole alberghiere regionali anche attraverso la realizzazione di riviste specializzate sulle manifestazioni organizzate.
      4. Il Festival si celebra ogni anno in località e in regioni diverse, di intesa tra i Ministeri interessati.

Art. 2.
(Istituzione del Comitato organizzativo
del Festival).

      1. Per la celebrazione nelle città italiane del Festival è istituito un Comitato organizzativo nazionale, di seguito denominato «Comitato», con il compito di coordinare tutte le iniziative da avviare e di disporre in ordine al loro finanziamento.
      2. Il Comitato è composto:

          a) dal Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca o da un suo rappresentante;

          b) dal Ministro per i beni e le attività culturali o da un suo rappresentante;

 

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          c) dal Ministro delle attività produttive o da un suo rappresentante;

          d) dal Ministro delle politiche agricole e forestali o da un suo rappresentante;

          e) da un rappresentante del settore agro-alimentare;

          f) da un rappresentante del settore artigianale;

          g) da un rappresentante del settore industriale;

          h) da un rappresentante del settore turistico;

          i) da un rappresentante delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.

      3. Per l'ottimale svolgimento delle funzioni di cui all'articolo 3, il presidente del Comitato, sentito il Comitato stesso, può istituire:

          a) una commissione scientifica, composta da non più di cinque membri;

          b) una commissione organizzativa, composta da non più cinque membri.

Art. 3.
(Funzioni del Comitato).

      1. Il Comitato svolge le seguenti funzioni:

          a) valutazione e approvazione delle iniziative proposte, individuando quelle per le quali si reputa opportuno chiedere l'alto patronato del Presidente della Repubblica;

          b) organizzazione della Fiera dei prodotti nazionali agro-alimentari, artigianali, industriali e turistici;

          c) valutazione e approvazione delle ulteriori iniziative, non rientranti nel programma, proposte dalle amministrazioni dello Stato nonché da altre amministrazioni, enti, istituti, fondazioni o altri organismi pubblici e privati;

 

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          d) comunicazione e informazione sulle iniziative celebrative, a livello nazionale e internazionale, anche mediante specifiche pubblicazioni, coinvolgendo il Ministero degli affari esteri tramite i suoi organi periferici, ambasciate, uffici italiani all'estero, Istituto nazionale per il commercio estero;

          e) individuazione, anche tramite un concorso nazionale di idee, di un apposito logo che caratterizzi, in maniera tipica ed esclusiva, le iniziative celebrative approvate dal Comitato;

          f) determinazione delle condizioni e delle modalità di utilizzo del logo di cui alla lettera e);

          g) realizzazione e aggiornamento di uno specifico sito INTERNET quale punto di riferimento per la documentazione relativa agli spettacoli, alla Fiera di cui alla lettera b) e al calendario del concorso indetto ai sensi della lettera e);

          h) formulazione di pareri sulla concessione dei patrocini, da parte delle amministrazioni dello Stato, alle varie iniziative celebrative;

          i) analisi dell'impatto economico, sociale e culturale delle varie iniziative.

Art. 4.
(Sede e norme di organizzazione

del Comitato).

      1. Il Comitato ha sede in Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Il Comitato dispone, altresì, di un ufficio di rappresentanza nelle città nelle quali sono organizzate le manifestazioni, presso la locale prefettura - ufficio territoriale del Governo o in sedi da essa indicate.
      2. Il Comitato si riunisce ogni volta che il suo presidente ne ravvisa la necessità.
      3. Il Comitato può essere, di volta in volta, integrato da un rappresentante di amministrazioni, enti, istituti od organismi proponenti, associazioni di categoria, studiosi ed esperti interessati.

 

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      4. Gli oneri relativi a ciascuna iniziativa celebrativa sono a carico del rispettivo proponente. A tale fine ogni progetto di iniziativa deve essere corredato, fra l'altro, da una scheda tecnica concernente la copertura finanziaria.
      5. L'attività svolta dal Comitato può essere finanziata anche mediante contributi, di fonte pubblica o privata, finalizzati alla promozione e al coordinamento delle iniziative celebrative.

Art. 5.
(Regolamento di attuazione).

      1. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, di concerto con il Ministro delle politiche agricole e forestali e con il Ministro delle attività produttive, è adottato il regolamento di attuazione della legge medesima, ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400.

Art. 6.
(Copertura finanziaria).

      1. All'onere derivante dall'attuazione della presente legge si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2006-2008, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2006, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al Ministero delle attività produttive.
      2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.


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