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CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 6178-A-bis
N. 6177-A-bis |
designato congiuntamente dai gruppi Democratici di sinistra-L'Ulivo, Margherita, DL-L'Ulivo, Rifondazione comunista e dalle componenti del gruppo misto Comunisti italiani, La rosa nel pugno, Popolari-Udeur, Verdi-L'Unione, ai sensi dell'articolo 79, comma 12, secondo periodo, del Regolamento
1. Un giudizio su cinque anni di politica economica.
La legge finanziaria che ci apprestiamo a discutere alla Camera dei Deputati è l'ultima della legislatura, ed assume quindi una particolare importanza perché ci consente di svolgere valutazioni complessive sulla politica economica del governo di centro destra. Il Presidente del Consiglio annuncia agli italiani, proprio in questi giorni, di aver mantenuto tutte le promesse contenute nel «contratto» del 2001. La manovra di fine anno è la migliore occasione per verificare se le affermazioni corrispondono alla realtà.
Se volessimo individuare un filo conduttore del dibattito che in questi anni si è svolto sulla situazione del paese e sulle sue prospettive lo potremmo trovare intorno alla questione del declino. Sono state coniate varie definizioni per descrivere una situazione di difficoltà riconosciuta da tutti: un «paese dalle pile scariche», vecchio e privo di entusiasmo per il futuro; un'economia in rapido scivolamento verso i gradini più bassi nelle classifiche della competitività internazionale. Potremmo proseguire. Al nostro dibattito spetta il compito di andare oltre le immagini per cogliere la sostanza dei problemi, che sono oggi riconducibili a due grandi emergenze su cui, con l'eccezione del Presidente del Consiglio, c'è una generale convergenza di giudizio. L'emergenza della finanza pubblica fuori controllo e l'emergenza dell'economia incapace di crescere. C'è sempre un po' di retorica nell'uso di parole così forti, e della retorica oggi non c'è veramente bisogno. Vorrei preliminarmente dimostrare che il concetto di emergenza corrisponde esattamente alla realtà italiana, e che gli errori degli ultimi anni sono stati determinanti per creare questa situazione.
Gli anni '90 sono stati caratterizzati da un grande sforzo di risanamento della finanza pubblica, che ha accomunato fasi politiche tra di loro molto diverse, a cominciare dalla manovra in più tempi realizzata nel 1992 dal governo Amato. Complessivamente la situazione al termine del decennio si presentava sotto buoni auspici: l'indebitamento nel 2000 si collocava poco al di sotto del 2 per cento del PIL; il debito calava regolarmente secondo gli impegni assunti in sede europea, ed era passato dal 124,3 per cento del 1995 al 111,3 per cento del 2000; il saldo primario si attestava stabilmente intorno al 5 per cento. Nonostante l'artificiale polemica sul «buco», ridimensionata dallo stesso Ragioniere Generale dello Stato, gli osservatori più autorevoli ritenevano che l'Italia fosse sostanzialmente uscita dal tunnel della crisi finanziaria.
Vediamo la situazione nel 2005, con le lenti di due soggetti insospettabili. Lo stesso Governo nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria riconosce che l'indebitamento viaggia verso il 5 per cento (per la precisione individua un tendenziale al 4,7 per cento), prevede che il debito riprenda a crescere (dal 106,6 per cento al 108,2 per cento) e ipotizza un avanzo primario allo 0,6 per cento. Quello dell'avanzo primario è un tema delicato: si tratta di una grandezza molto importante, perché segnala la capacità del bilancio di produrre risparmi che consentano la progressiva riduzione del debito. Non a caso l'Italia aveva assunto un impegno informale a mantenerlo al di sopra del 5 per cento, e nel 2000 il Centro Sinistra aveva lasciato in eredità alla nuova legislatura
a) una scelta determinata per far ripartire uno sviluppo di qualità. Vanno in questa direzione le proposte in materia di ricerca, di incentivi alle attività produttive ed all'occupazione, al turismo ed alle infrastrutture.
b) La consapevolezza che la ripresa dei processi di sviluppo richiederà una attenta verifica delle ricadute sociali delle trasformazioni del settore produttivo, e conseguentemente la proposta di una riforma degli ammortizzatori sociali, che a nostro avviso costituisce una assoluta priorità anche come strumento di politica del lavoro.
c) La riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, trasferendola sulla speculazione e sulle rendite. Come è noto una scelta di questo tipo costituisce contemporaneamente un beneficio per il lavoratore e per l'impresa, perché i vantaggi possono essere trasferiti in parte su minori costi per l'azienda e in parte su un incremento della busta paga dei dipendenti.
d) L'impostazione di un nuovo patto di stabilità, basato non più sui tetti di spesa ma sui saldi di bilancio, caratterizzato da meccanismi di concertazione e di partecipazione.
e) La definizione di una strategia di riforma dello stato sociale, che abbia al centro le categorie più deboli e sottragga le politiche familiari alla logica delle una tantum propagandistiche.
In sintesi, e per concludere questa prima analisi generale, affrontiamo quest'anno il dibattito sulla manovra economica con la sensazione di intercettare fette crescenti di opinione pubblica deluse dal fallimento della politica economica del Governo, e di Berlusconi in particolare. Il mito dell'imprenditore prestato alla politica, capace di portare una ventata di rinnovamento e di efficienza, sta rapidamente tramontando. Berlusconi ha vinto sulle questioni economiche, e probabilmente perderà sulle questioni economiche. Le scelte in questo campo si rivelano quindi ogni giorno di più le vere scelte che contano, soprattutto in questa fase difficile dell'Italia. Il dibattito di questi giorni ci potrà aiutare a capire meglio le differenze tra i progetti dei due poli e le linee orientative su cui si muove il Centro Sinistra.
2. L'economia italiana all'inizio del nuovo secolo.
2.1 La situazione congiunturale e le prospettive di breve termine.
«La valutazione della competitività del sistema Italia tocca nel 2005 il punto più basso nella storia recente di questa rilevazione, da entrambe le prospettive considerate: la valutazione storica sulla competitività effettiva dimostrata nel periodo 2001-2005 vede l'Italia precipitare al 31o posto nella classifica mondiale perdendo 8 posizioni».
Le parole citate sono quelle con cui si apre il Rapporto dell' Economist Intelligence Unit sulla competitività del «Sistema Italia». Esse sintetizzano un giudizio duro quanto netto nei confronti della performance complessiva dell'economia italiana: lo scivolamento dell'Italia al 31o posto nella classifica mondiale costituisce il peggior risultato tra tutti i 60 Paesi (europei e non) presi in considerazione dal rapporto!
Secondo il Bollettino economico della Banca d'Italia (n. 45, novembre 2005), «nella prima metà del 2005 l'espansione economica dell'area dell'euro è stata modesta: più sostenuta in Francia e in Spagna, moderata in Germania, negativa in Italia».
Un primo elemento di preoccupazione nasce dalla comparazione della realtà italiana con lo scenario globale: a fronte di una performance senza precedenti del PIL mondiale nel 2004, che ha segnato una crescita del 5,1 per cento, come risultato della ripresa americana, del risveglio giapponese e dell'esplosione dei paesi emergenti come Cina e India, l'Italia continua a mancare l'appuntamento della ripresa e soprattutto lascia che le sue carenze strutturali continuino ad erodere i livelli di competitività.
In particolare, se le prospettive a breve per l'area dell'euro vanno verso una ripresa contenuta, per l'Italia lo scenario è notevolmente meno ottimistico, nonostante i tenui segnali di ripresa manifestatisi negli ultimi tempi (crescita del fatturato e degli ordinativi dell'industria). A condizionare tale risultato è sia il versante esterno che quello interno.
Sul lato della domanda estera pesano la concorrenza delle economie emergenti e gli elevati costi materiali e immateriali (infrastrutturali, amministrativi, da deficit di innovazione tecnologica, ecc.) che gravano sulle produzioni nazionali.
Sul versante interno, invece, continuano a farsi sentire la debolezza della domanda - e in particolare la crisi dei consumi delle famiglie - su cui nessun effetto ha avuto la politica dei «tagli delle tasse».
Lo scadimento del livello di competitività è evidente e viaggia lungo due direttrici principali: la perdita di attrattività dell'Italia per gli investitori stranieri e la
L'economia internazionale.
Nel 2005 è proseguita la fase espansiva del ciclo dell'economia mondiale; secondo le valutazioni del Fondo monetario internazionale, quest'anno il prodotto dovrebbe aumentare del 4,3 per cento, un ritmo ancora elevato, seppure inferiore al 5,1 registrato nel 2004. Il permanere di condizioni finanziarie assai favorevoli ha contenuto le ripercussioni del rincaro dell'energia. Nel 2006 il commercio mondiale si dovrebbe espandere del 7,4 per cento.
Per l'economia mondiale i rischi di andamenti dell'attività produttiva meno favorevoli di quelli sopra indicati sono aumentati dalla fine dell'estate. Essi sono essenzialmente riconducibili agli ampi squilibri delle bilance dei pagamenti, al livello particolarmente contenuto dei premi per il rischio sui mercati finanziari, all'elevata variabilità del prezzo del petrolio osservata negli ultimi mesi.
Gli esigui margini di capacità produttiva inutilizzata nei paesi dell'OPEC accrescono la probabilità d'ulteriori rialzi, anche bruschi, delle quotazioni del petrolio in caso di limitazioni dell'offerta, di aumenti inattesi della domanda e di attività speculative. L'eventuale affievolirsi dei fattori che nel corso del 2005 hanno sostenuto la crescita dell'economia mondiale - tra cui il basso livello dei tassi di interesse a lungo termine - potrebbe fare emergere appieno gli effetti ritardati del rincaro dell'energia, con riflessi significativi sull'andamento dell'attività produttiva.
L'area dell'euro.
Dalla fine dell'estate, nei Paesi dell'area dell'euro, si sono manifestati segnali di un miglioramento del quadro congiunturale. Secondo le stime preliminari dell'Eurostat nel terzo trimestre il prodotto dell'area è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto al secondo, in linea con l'aumento della produzione industriale.
Gli indicatori qualitativi riferiti alle imprese segnalano un'accelerazione dell'attività produttiva nel quarto trimestre; in Germania l'indicatore del clima di fiducia e gli ordini hanno segnato in ottobre un ulteriore, netto rialzo.
Il rafforzamento del quadro congiunturale stenta, tuttavia, a essere percepito dalle famiglie dell'area.
Secondo le previsioni della Commissione europea, che scontano una lieve accelerazione nel secondo semestre, il prodotto dell'area aumenterebbe nel 2005 dell'1,3 per cento. Tale risultato è nettamente inferiore a quello indicato dalla stessa Commissione un anno fa (2,0 per cento), nonché a quello conseguito nel 2004 (2,1 per cento).
Proseguendo al ritmo di crescita della seconda metà di quest'anno, nel 2006 l'attività economica aumenterebbe in media dell'1,9 per cento, sospinta dal favorevole andamento del commercio mondiale
L'economia italiana: la situazione congiunturale e la prospettiva di breve termine.
Alla luce degli ultimi dati relativi al terzo trimestre dell'anno presentati recentemente dall'Istat - che mostrano un incremento del Pil dello 0,3 per cento, in decelerazione rispetto al +0,7 per cento del trimestre precedente - è verosimile supporre che nell'intero 2005 la crescita media del prodotto interno lordo registrerà solo un leggero incremento rispetto al 2004 e che tale incremento risulterà, tuttavia, del tutto inferiore alle aspettative che prevedevano una crescita in linea con quella dell'area della moneta unica.
Ciononostante le stime per il 2006 dei principali centri di analisi economica congiunturale (Cer, Ocse, Fmi, Commissione Europea, Isae, Prometeia, Confindustria) continuano a mostrare la presenza di segnali di ripresa la cui debolezza, però, appare ancora inadeguata ai fini del superamento dei fattori strutturali che differenziano la nostra economia da quella di altri paesi dell'area dell'euro e delle frizioni che incidono negativamente sulla produttività e riducono la capacità competitiva delle nostre imprese e dei nostri prodotti nei mercati internazionali.
Tasso di crescita del PIL |
CER (novembre 2005)
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| OCSE (novembre 2005)
| Commissione Europea (novembre 2005)
| Ref.Irs (ottobre 2005)
| ISAE (ottobre 2005)
| Prometeia (ottobre 2005)
| FMI (settembre 2005)
| Centro Studi Confindustria
(settembre 2005)
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L'uscita dell'economia italiana dalla condizione di bassa crescita in cui versa da anni richiede un'azione ad ampio raggio, diretta a concentrare risorse da destinare al rafforzamento della dotazione di infrastrutture, della formazione di capitale umano e della ricerca; a favorire l'ammodernamento del sistema produttivo; a innalzare il grado di concorrenza sui mercati interni dei prodotti e della proprietà delle imprese; ad aumentare l'efficienza della pubblica Amministrazione.
Nel medio termine occorre rimuovere i fattori di natura strutturale che ostacolano la diffusione delle innovazioni tecnologiche e organizzative nell'apparato produttivo e che si riflettono in una specializzazione ancora fortemente orientata alla manifattura tradizionale e in una relativa scarsità di aziende medie dinamiche e di grandi imprese attrezzate a reggere la concorrenza sui mercati globali.
Il sistema bancario e finanziario dovrebbe convogliare un sempre maggiore volume di risparmio verso investimenti innovativi in grado di generare una riqualificazione dell'offerta.
2.2 I «mali» dell'economia italiana: struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi.
C'è ormai consenso, tra gli economisti, che l'insoddisfacente crescita dell'Italia che si è registrata dagli inizi degli anni 90 ad oggi non sia un fenomeno transitorio, ma che sia il manifestarsi di un vero e proprio declino dell'economia. Una situazione di crisi che ha coinvolto l'Europa nel suo complesso ma che ha poi colpito l'Italia più degli altri paesi europei. I dati, a questo proposito sono particolarmente impietosi. Rispetto a quello europeo (Europa a 15) Il reddito pro capite dell'Italia (misurato in parità di potere d'acquisto) è passato dal 106 per cento del 1995 al 98 per cento del 2004, riportandosi al valore che aveva alla metà degli anni settanta. Rispetto a quello americano, il reddito pro capite italiano passato dall'80 per cento circa al 61 per cento. Il tasso di crescita della produttività del lavoro è costantemente diminuito per registrare, negli ultimi anni, variazioni addirittura negative. Allo stesso tempo, la nostra presenza nei mercati internazionali si è ridotta in modo significativo. Mentre nel 1995 le esportazioni italiane rappresentavano circa il 4,5 per cento delle esportazioni mondiali, nel 2003 sono arrivata al 3 per cento. La gravità della situazione è accentuata dal fatto che il decennio passato è stato un decennio caratterizzato da una bassa conflittualità sindacale, da tassi d'interesse reali piuttosto bassi e dall'assenza di shock negativi dal lato dell'offerta (se si escludono gli aumenti piuttosto recenti del prezzo del petrolio).
L'Italia, in verità ha dovuto subire un forte risanamento fiscale dopo le «follie» degli anni ottanta, e importanti aggiustamenti macroeconomici derivanti dall'introduzione dell'euro, ma questi fattori non sembrano sufficienti a spiegare una performance così negativa per l'economia italiana, rispetto a quella degli altri grandi paesi industrializzati. È molto più convincente, invece, una spiegazione di tipo strutturale e cioè sulla crisi del modello di specializzazione dell'economia italiana.
Le radici di questo fenomeno vengono da lontano e si fondano sul particolare sentiero di crescita seguito dall'Italia nel dopoguerra, basato essenzialmente su due poli: l'industria di base, come la cantieristica, la metallurgia, la meccanica, la gomma, la chimica che era l'erede di un disegno di politica industriale, nato in età giolittiana, e l'industria leggera (oreficeria, tessile, mobili, calzature, elettrodomestici) che nasce in modo più spontaneo, sul ricco substrato artigianale e commerciale che ha sempre caratterizzato l'economia italiana.
Verso la fine degli anni sessanta, il primo polo, che era costituito soprattutto dalla grande industria pubblica e privata entra in una forte crisi. La classe politica italiana, la classe imprenditoriale e le parti sociali non riescono a rispondere in modo efficace a questa crisi, e l'Italia esce dai grandi settori industriali quali la chimica, l'elettronica di consumo, l'informatica, l'aeronautica e altre importanti industrie come quella dell'auto entrano in crisi. La grande industria continua, nel corso degli anni, a ridurre il suo peso. Anche le grandi privatizzazioni degli anni 90 non producono l'effetto sperato. I grandi gruppi privati italiani usano l'acquisto delle imprese pubbliche come Telecom, autostrade ecc per posizionarsi su mercati protetti, ricchi di rendite monopolistiche, invece di investire in settori aperti alla concorrenza, dove si tratta soprattutto di investire in ricerca e innovazione.
Da quel momento in poi, le prospettive di crescita e di penetrazione dell'Italia nei mercati internazionali è stata affidata quasi esclusivamente all'industria leggera, che, nel frattempo, si è organizzata in distretti industriali. I distretti industriali sono stati, e ancora continuano ad essere, la vera forza del made in Italy. Basta pensare che essi impiegano circa il 45 per cento dell'occupazione complessiva del settore manifatturiero italiano e che circa il 40 per cento delle imprese italiane opera all'interno di forme di «condensazione» e di «rete» riconducibili ai distretti industriali. Il 46 per cento dell'export di prodotti manufatti proviene dai distretti. Alcuni di questi distretti, come le ceramiche
2.3 I «mali» dell'economia italiana: il «lavoro che gira a vuoto».
Il declassamento del mercato del lavoro italiano deve dunque leggersi anche e soprattutto come un giudizio sulla qualità e l'efficacia delle politiche di riforma tentate in questa legislatura che, anche laddove realizzate, non hanno sortito alcun effetto apprezzabile sull'economia reale.
In particolare, a due anni dall'entrata in vigore della riforma, che avrebbe dovuto far sparire l'anomalia dei «co.co.co», riconducendo tali contratti alla sfera della subordinazione o del vero e proprio lavoro
A. con riferimento agli anni 2001-2002, gli effetti «residui» del bonus automatico sui nuovi assunti (articolo 8 della legge n. 388/2000), particolarmente significativi nel Mezzogiorno, dove l'incentivo era maggiorato del 50 per cento rispetto al resto del Paese (1,2 milioni di lire per ogni nuovo assunto). Tali effetti devono ritenersi ormai pressoché esauriti, in conseguenza degli interventi successivi di «congelamento» e svuotamento delle risorse per il finanziamento dell'incentivo (decreto legge n. 194/2002 e leggi Finanziarie successive);
B. con riferimento agli anni 2003-2004, gli effetti della regolarizzazione di circa 750mila lavoratori immigrati realizzata attraverso il decreto legge n. 195/2002, con una procedura di sanatoria, e dunque di corrispondente «immissione» dei nuovi lavoratori nella forza lavoro nazionale, che - avviata nel novembre 2002 - si è di fatto protratta per oltre un anno.
Ma soprattutto, con riferimento all'intero periodo 2001-2005, i dati ISTAT dimostrano come il calo del tasso di disoccupazione non sia conseguenza solo dell'aumento degli occupati, ma anche e soprattutto della riduzione delle persone in cerca di occupazione.
Si tratta in prevalenza di donne che vivono al Sud - secondo l'ISTAT - che avrebbero rinunciato a cercare lavoro, soprattutto per la difficoltà di sostenere economicamente il costo dei servizi all'infanzia. Lo dimostrerebbe l'incremento delle «non forze di lavoro», che ha riguardato soprattutto la componente femminile del Mezzogiorno (+ 100mila unità nel 2005), nell'ambito di una generale crescita della popolazione inattiva in età compresa tra i 15 e i 64 anni pari a 131mila unità.
Gli squilibri si confermano anche sul piano territoriale.
2.4 I «mali» dell'economia italiana: aumenta il disagio sociale.
Un più generale indicatore del disagio sociale del Paese è costituito dall' indice di povertà, come rilevato nell'ambito del Rapporto ISTAT su «La povertà relativa in Italia nel 2004». Secondo il Rapporto ISTAT, la povertà aumenta nel Mezzogiorno ed è in crescita tra le famiglie numerose e tra quelle con minori e anziani del Centro e del Sud. In particolare, nel Sud una famiglia su quattro è ormai povera. A livello nazionale, la povertà colpisce 2 milioni 674mila famiglie, pari all'11,7 per cento del totale, per un complesso di 7 milioni 588mila persone, che costituiscono il 13,2 per cento della popolazione.
Ma è l'allargamento del divario territoriale ad allarmare.
Nel Mezzogiorno la percentuale di famiglie povere è passata dal 21,6 per cento del 2003 al 25 per cento del 2004, mentre le famiglie indigenti composte da 5 o più persone segnano un passaggio dal 21,2 per cento al 23,9 per cento. La percentuale delle famiglie povere passa dal 4,7 per cento del Nord, al 7,3 per cento del Centro, fino a raggiungere nel Sud il 25 per cento. Le percentuali più elevate nel Sud si registrano in Sicilia (29,9 per cento) e in Basilicata (28,5 per cento).
Per altro verso, la povertà colpisce di più le famiglie numerose, che superano i 5 componenti. In media quasi un quarto delle famiglie risulta povero, ma nel Sud la quota sale a oltre un terzo di quelle residenti. In genere è povero il 22,7 per cento delle coppie con tre o più figli e il 18,5 per cento delle famiglie con membri aggregati. Nel Mezzogiorno se i figli minori sono tre o più l'incidenza raggiunge il 41 per cento!
Infine, la percentuale di famiglie povere è forte tra quelle con familiari esclusi dal mercato del lavoro: il 28,9 per cento tra le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione, il 37,4 per cento tra quelle con due o più componenti in cerca di lavoro. La condizione si aggrava se è scarsa la capacità di reddito degli altri componenti: tra le famiglie con almeno una persona in cerca di occupazione, l'incidenza è del 15,7 per cento quando la persona di riferimento è un autonomo, al 18,8 per cento se si tratta di un dipendente, mentre sale al 25 per cento nel caso in cui la persona di riferimento è in pensione.
Notevoli le difficoltà anche per gli anziani.
L'incidenza della povertà è del 15 per cento tra le famiglie con presenza di un componente con più di 64 anni, una percentuale che sale al 17,3 per cento quando in famiglia c'è più di un anziano. Qui il Nord, a fronte di un'incidenza media della povertà del 4,7 per cento, registra il 7,2 per cento delle coppie anziane povere e il 6,8 per cento degli anziani soli poveri. Anche in questo contesto, è la condizione delle donne a distinguersi negativamente.
Sono donne l'83,8 per cento degli anziani poveri e soli e, ancora, sono donne l'83,2 per cento dei genitori single poveri.
2.5. I «mali» dell'economia italiana: il peso dell'economia sommersa.
Lo scorso settembre l'Istat ha diffuso le stime, aggiornate al 2003, del Pil e dell'occupazione attribuibile alla parte di economia non osservata costituita dal sommerso economico.
Nel 2003 il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico è compreso tra un minimo del 14,8 per cento del Pil (pari a circa 193 miliardi di euro) ed un massimo del 16,7 per cento (pari a 217 miliardi di euro) (Tabella 1). Nel 1992, la percentuale minima era pari al 12,9 per cento e la massima al 15,8 per cento (rispettivamente corrispondenti a circa 101 miliardi e a 124 miliardi di euro); nel 2001, la percentuale minima era pari al 14,2 per cento e la massima al 17,5 per cento (rispettivamente corrispondenti a circa 173 miliardi e a 213 miliardi di euro).
Il maggiore o minore accostamento nel tempo delle due misure del sommerso (ipotesi minima e ipotesi massima) può essere spiegato anche dai comportamenti delle imprese che, in alcuni periodi, soprattutto in presenza di molteplici tipologie di condono, tendono ad usare forme di evasione diversificate.
I dati evidenziano anche che negli anni successivi alle regolarizzazioni degli immigrati si riduce la parte di valore aggiunto sommerso attribuibile al lavoro non regolare, mentre crescono altre forme di evasione come, ad esempio, i fuori busta e/o l'utilizzo improprio di forme di lavoro a carattere atipico (che spesso celano forme di elusione delle norme contrattuali e previdenziali).
I settori maggiormente coinvolti dall'irregolarità del lavoro sono quelli dell'agricoltura e delle costruzioni, dove il carattere frammentario e stagionale dell'attività produttiva ha consentito l'impiego di lavoratori stranieri non residenti e non regolarizzati; questi ultimi, ormai da diversi anni, sostituiscono la manodopera locale che tende progressivamente a fuoriuscire dai suddetti settori.
Nel 2003, il tasso di irregolarità nel settore agricolo è stato pari al 32,9 per cento contro il 25,5 per cento del 1992.
L'industria in senso stretto non utilizza in modo consistente personale irregolare. Nel 2003 il tasso di irregolarità nel settore è pari al 5,4 per cento, assai prossimo al valore del 1992 (5,7 per cento). Nel settore delle costruzioni l'incidenza percentuale delle unità di lavoro non regolari sul totale delle unità di lavoro si colloca invece su valori più elevati (12,5 per cento), sebbene in tendenziale riduzione rispetto sia al 1992 (14,2 per cento) sia al 1997 (16,2 per cento).
Nel settore dei servizi il fenomeno è molto diffuso: nel 2003 il 14,5 per cento delle unità del settore risultano non regolari. Il fenomeno è più rilevante nel comparto del commercio, degli alberghi, dei pubblici esercizi e dei trasporti, dove il 15,2 per cento delle unità di lavoro risultano non registrate (15,6 per cento nel 1992). Nel comparto dei trasporti su strada, in particolare, il tasso di irregolarità è piuttosto elevato (33,9 per cento) e superiore anche ai valori del settore agricolo. In altri comparti produttivi la quota delle unità di lavoro non regolari è più modesta e stabile nel tempo, ma pur sempre elevata, come nel caso dell'intermediazione finanziaria e dei servizi alle imprese (14,1 per cento nel 2003).
A livello territoriale il tasso di irregolarità è stato pari al 22,8 per cento nel Mezzogiorno mentre in tutte le altre circoscrizioni ha raggiunto livelli inferiori alla media nazionale (13,4 per cento): nel 2003 il tasso di irregolarità è stato pari al 12,3 per cento nel Centro, al 9,3 per cento nel Nord-Est e all'8,3 per cento nel Nord-Ovest. La Calabria è la regione che presenta il più alto tasso di irregolarità (31 per cento), la Lombardia quella con il tasso più basso (7,3 per cento). Nel complesso dell'economia, sono le regioni dell'Italia meridionale a registrare i tassi di irregolarità più elevati.
I differenziali tra i tassi di irregolarità dipendono sia dalla diversa specializzazione produttiva di ciascuna area geografica, sia da una maggiore o minore pro
3. Le Finanziarie del centrodestra.
Nel giugno del 2001, quando si è formato il Governo Berlusconi, avete tentato di dimostrare che vi avevamo consegnato un'Italia in condizioni drammatiche sotto il profilo del deficit annuo in rapporto al PIL, sotto il profilo della finanza pubblica (il ministro Tremonti è andato in tutte le televisioni denunciando il famoso buco), sotto il profilo del grado di liberalizzazione dei suoi mercati. Ma non era così, la vostra iniziativa era infondata, perché non sostenuta da valutazioni tecnicamente attendibili. Piuttosto che affrontare la realtà si è preferito occultarla, iniziando a dissipare una buona eredità.
Il parametro più elementare è quello che riguarda la crescita: nel primo semestre del 2001 l'Italia, che cresce del 2,3 per cento, recupera tutto il gap di crescita rispetto all'area dell'euro, con una sola voce negativa, quella del volume degli investimenti. Perché? Lo spiega il Governatore della Banca d'Italia nella sua audizione sulla vostra prima Finanziaria: eravamo in un trend di esplosione degli investimenti prima che si cominciasse a discutere della «Tremonti-bis». Ed ecco che gli operatori medi sospendono le decisioni di investimento, in attesa della certezza matematica di poter operare nel nuovo contesto normativo. Risultato. Effetto di depressione degli investimenti, spostamento del vantaggio competitivo a favore del Nord e contro il Sud.
Dopo l'11 settembre 2001, tutti sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso e anche per l'Italia nulla sarebbe stato come prima. Il Governo non ha dimostrato di esserne consapevole e nel corso degli anni ha ripetutamente che tutto andava bene. Insomma, la vostra prima Finanziaria è stata di tono minore. Una legge Finanziaria sostanzialmente ininfluente, di ordinaria amministrazione in un contesto di assolta straordinarietà, imperniata sui temi come le pensioni (per aumentare quelle minime a 516 euro andando in giro dicendo che sette milioni di persone avrebbero avuto l'aumento e poi far scoprire a cinque-sei di quei setti milioni di persone che non era vero niente) o come l'IRPEF (piccoli aumenti di detrazioni).
Avete fatto il minimo indispensabile sancendo, di fatto, l'inizio delle recessione!
Con la successiva Finanziaria si inizia ad assistere alle forzature regolamentari: dilatazione dei contenuti normativi, i dati vengono forniti solo parzialmente e non permettono la ricostruzione degli effetti della manovra sul fabbisogno, forzature procedurali nella presentazione di emendamenti (non più in Commissione bilancio ma direttamente in Aula). La non presentazione del quadro tendenziale da parte del Governo ha costituito una grave carenza e ha posto un'altra questione di metodo che la ritroviamo anche quest'anno: si compromette la trasparenza delle linee strategiche di politica economica
4. La manovra 2006: un'analisi generale.
4.1. Procedure caotiche e mancanza di trasparenza.
Come negli ultimi anni, anche questa sessione di bilancio è proceduta in modo disordinato con un susseguirsi di promesse, annunci, emendamenti, più o meno maxi, voti di fiducia, forzature procedurali, scarsa attenzione e considerazione delle proposte emendative dell'opposizione che hanno confermato, per l'ennesima volta, un modo di procedere caotico e non trasparente.
4.2. Le coperture a rischio.
(Le entrate da vendite di immobili).
Vorrei ricordare che Il Consiglio europeo straordinario di Lisbona, tenutosi nei giorni 23 e 24 marzo 2000, nacque dalla volontà di imprimere un nuovo slancio alle politiche comunitarie, in un momento in cui la congiuntura economica era la più promettente da una generazione per gli Stati membri dell'Unione europea.
Occorreva, pertanto, adottare provvedimenti a lungo termine in questa prospettiva. Quella che a tutti è nota come «agenda di Lisbona». A cinque anni dal varo delle strategia di Lisbona, trascorso invano più di un quinquennio, nella legge Finanziaria si stabilisce che le erogazioni dall'istituendo Fondo innovazione (Agenda di Lisbona appunto) «sono operate esclusivamente sul presupposto dei maggiori proventi rispetto alle previsioni di bilancio per l'anno 2006», derivanti da operazioni di dismissione di immobili nel limite massimo di 3 miliardi per il 2006.
Sembra che ciò significhi una cosa molto semplice. Il Fondo innovazione, uno dei principali interventi per essere più competitivi, potrà essere finanziato solo se (e nella misura in cui) si realizzeranno gli incassi da immobili. Se questi ultimi non dovessero arrivare (e non è da escludere, se si ricorda che il bilancio per il 2005 prevedeva da questa fonte 8 miliardi, dei quali finora sembra sia arrivato poco o nulla), occorrerà o no reperire in altro modo questo ammontare oppure ci si dovrà rassegnare a retrocedere nelle classifiche sulla competitività e l'innovazione?
Visto che avete fatto diventare le entrate da dismissioni di immobili una componente fondamentale degli equilibri di finanza pubblica, non sarebbe il caso di fornire al pubblico e al Parlamento qualche informazione sul grado di realizzazione della previsione fatta per il 2005 (8 miliardi), e sui programmi di vendite che si intende mettere in cantiere nel 2006?
Peraltro, l'insuccesso di Scip2 (per la quale in aprile si è dovuto ristrutturare il debito, visto l'andamento negativo delle vendite) fa sì che una nuova operazione di cartolarizzazione sarebbe difficile da collocare sui mercati se non riconoscendo un elevato premio di rischio agli investitori.
(La regolazione dei flussi di Tesoreria).
Un'altra parte importante della copertura è garantita dalla «regolazione dei flussi di Tesoreria». Questi limiti di cassa si tradurrebbero in una minore spesa, nel 2006, per l'Anas, per il Fondo innovazione tecnologica e per le contabilità speciali di Tesoreria.
Naturalmente, la minor spesa nel 2006 sarebbe compensata da una maggiore spesa negli anni successivi: secondo la Relazione tecnica 400 milioni nel 2007, 500 milioni nel 2008 (e, si deve presumere, la parte restante negli anni successivi).
In passato si è spesso fatto ricorso a misure di questo tipo come extrema ratio per comporre manovre di metà anno, talvolta questi limiti hanno funzionato solo parzialmente e sono stati superati da deroghe. Insomma qualche dubbio sulla loro efficacia lo abbiamo.
Ma il punto più importante è un altro. Nella presentazione della manovra è stata molto sottolineata la distinzione tra misure strutturali e misure una tantum. Le entrate una tantum, si è detto, sarebbero solo quelle da dismissioni. L'imposizione di limiti di cassa non è forse la più classica delle una tantum?
(Le minori spese).
Con il taglio ai consumi intermedi (gli acquisti di beni e servizi) per 1,5 miliardi - una riduzione superiore al 10 per cento della spesa per questa voce - siamo alla riproposizione di una politica di bilancio
(Il decreto legge sulle misure fiscali e tributarie).
Sulla genesi di questo decreto, che sembra connotarsi più come uno «scollegato» alla Finanziaria, abbiamo assistito a delle forzature procedurali con la presentazione di maxi emendamenti che hanno impedito ai colleghi del Senato un esame serio delle clausole di copertura.
Su un punto c'è certezza: gli interventi per il 2005 recati dal decreto legge - che corrispondono in larghissima parte a quelli previsti dal decreto legge n. 211/05 - sono la riprova che i conti del 2005 non erano in regola. Non solo, ma gli interventi previsti dal decreto concorrono al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica anche per il 2006, derivanti in larga misura da provvedimenti di carattere fiscale, affiancati da una serie di interveti di «collegio» che hanno il sapore di una mancia elettorale.
Tra i tanti interventi di questo tipo, se ne cita solo uno da portare ad esempio: si autorizza un contributo quindicennale di un milione di euro in favore dell'ANAS «per la realizzazione di lavori di raccordo stradale». Non è una svista, non si parla al plurale, di raccordi stradali, vale proprio il singolare. Con questa norma, infatti, non si precisa se i lavori per i quali si dispone il finanziamento sono riferiti ad uno specifico tratto stradale oppure ad una genericità di interventi. Evidentemente di raccordo stradale se ne farà uno, aprendo il concorso per sapere chi è il potente di turno che, dietro questa forma anonima, ha ottenuto per il proprio collegio il finanziamento, al di fuori di ogni programmazione, di un raccordo stradale. Al di là del folclore negativo che si accompagna a questa infarcitura de decreto di norme localistiche, entrando nel merito del decreto legge, sono da sottolineare alcuni aspetti.
(Lotta all'evasione e riforma della riscossione).
Una quota di copertura della manovra deriva per 625 milioni di euro (946 nel 2007 e 1.278 nel 2008) da strumenti di contrasto all'evasione e dalla riforma del sistema di riscossione, che prevede il passaggio della titolarità di tale attività dai concessionari privati a una società per azioni, la Riscossione spa, di proprietà pubblica.
Secondo le stime della relazione tecnica, la ripubblicizzazione della riscossione dovrebbe avere (ipso facto?) l'effetto di permettere l'estensione a tutto il territorio nazionale delle performance che il regime attuale raggiunge solo nelle zone di eccellenza, garantendo, a regime (e cioè dal 2008), un incremento di gettito pari a 780 milioni. Seicento milioni di finanziamento della manovra finanziaria per il 2006 dipendono, quindi, in larga parte, dalla credibilità dell'ipotesi di un aumento di produttività nell'accertamento fiscale e nella riscossione. È un'ipotesi fondata o ha piuttosto il sapore di una scommessa?
(Le maggiori entrate).
Maggiori entrate proverrebbero da misure tampone: dalla svalutazione dei crediti delle banche, dalla rivalutazione dei beni di impresa, da giochi e scommesse.
Sulla partecipazione degli enti locali all'accertamento delle imposte erariali e sulle misure di contrasto dell'evasione (nel complesso a quest'ultima voce si possono attribuire circa 650 milioni) vale quanto scritto prima: misure indefinite e dagli effetti a dir poco incerti.
Non ha certamente migliorato il quadro il dibattito in Commissione Bilancio che ha determinato nuove fonti di entrate, tra cui la cosiddetta Porno Tax, su cui esistono ancora forti perplessità in relazione alla sua portata. Lo stesso presidente della Commissione ha dichiarato nel corso del dibattito la presenza all'interno dello stesso Ministero dell'Economia di due diverse e opposte valutazioni riguardo al gettito di questa nuova tassa.
Certo, ci aspettavamo di trovarci di fronte ad un provvedimento dalle caratteristiche di omogeneità di materia, un intervento da affiancare alla manovra come collegato, mentre nel decreto si spazia su argomenti che nulla hanno a che fare con il titolo del decreto, senza far riferimento poi alle caratteristiche di improrogabilità ed urgenza.
Molte materia hanno una sola urgenza, quella della maggioranza di perdere consensi nel Paese e quindi della necessità di infarcire il decreto di norme di carattere clientelare, microsettoriale.
Ma davvero pensate così facendo di aumentare il vostro tasso di consenso nel Paese? Forse sottovalutate che i cittadini italiani hanno una maggiore serietà di quella che i loro rappresentanti pensano che essi abbiano.
4.3. Le nuove spese.
A fronte di un quadro di copertura finanziaria incerto, si decidono nuove spese. Tra queste, c'è la novità degli «oneri inderogabili» (una new entry per la legge Finanziaria) per 4,5 miliardi, che includono misure che vanno dalla proroga di agevolazioni fiscali ai forestali della Calabria, dagli autotrasportatori alla vice-dirigenza. C'è da chiedersi però a cosa si riferisca l'inderogabilità di tali oneri.
La parte restante (6,5 miliardi) è la «parte straordinaria» che riguarda il piano dello sviluppo e per l'equità, con misure che vanno dalla riduzione del costo del lavoro (cuneo contributivo), ai sussidi per la natalità, ai distretti industriali.
La retorica della «Finanziaria per lo sviluppo» rischia di costare molto cara in termini di equilibrio dei conti, peraltro con effetti molto dubbi sulla crescita economica che non si sostiene aumentando l'incertezza sul futuro. Maggiori vantaggi per l'economia verrebbero se si decidesse seriamente di ridurre il disavanzo e si riuscisse a farlo.
Forse l'unica misura positiva, almeno nel senso della direzione proposta, è la riduzione del costo del lavoro. Sono anni che il centrosinistra ha segnalato questo intervento come indispensabile. A distanza di anni, dopo vani tentativi di ridurre l'imposta IRAP, è un bene vedere che è stata adottata la scelta di ridurre di un punto il cuneo contributivo. Sull'intensità della riduzione abbiamo forti perplessità, perché la riduzione sarebbe stata più efficace se fosse stata di almeno 3 punti (1,5 per le imprese e 1,5 per il lavoro). E non si dica che non ci sono risorse. Le risorse ci sono se si ammette che la riforma fiscale sull'IRE, non avendo inciso né sui consumi, né sugli investimenti, è stato un errore al qual porre rimedio. Poiché la riduzione di un punto della pressione fiscale sul lavoro costa circa 2 miliardi di euro, ridurla di 3 punti costerebbe 6 miliardi di euro. Ed è proprio la cifra che con cui è stato coperto il secondo modulo di riforma fiscale IRE.
La legislatura, quindi, si chiude con una legge finanziaria in cui sono assenti le parole IRE e IRAP. È l'ammissione dell'esigenza di una svolta tardiva rispetto al tema dominante della politica economica dei quattro anni precedenti, il famoso «meno tasse per tutti».
5. La manovra del 2006: le principali criticità.
5.1. Il Mezzogiorno.
Dopo 4 anni il tema «Mezzogiorno» è ritornato strumentalmente tra le priorità dell'azione di governo. Nei primi anni, infatti, l'Esecutivo si è impegnato quasi esclusivamente in un affannoso reperimento di risorse che ha mostrato tutta la propria debolezza, in assenza di un disegno strategico di riferimento per lo sviluppo del Sud.
Nel passaggio dal Governo Berlusconi 1 al Governo Berlusconi 2, per marcare un'inversione di tendenza, è stato riproposto il Ministero per lo Sviluppo e la coesione, una sorta di dicastero per il Mezzogiorno, al quale sono state trasferite le competenze della politica meridionalistica dal Ministero dell'Economia, peraltro senza portafoglio. Si rischia così di ritornare alla programmazione senza risorse, con un ritorno al passato di cui non si avverte il bisogno.
Il Ministro Tremonti - nel suo intervento di presentazione della legge Finanziaria al Senato - ha inserito un'altra «s» tra le tre priorità della manovra di bilancio 2006: sanità, sicurezza, Sud. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, si può e si deve dire subito: dopo il fumo (la Banca del Sud), viene un arrosto assai indigesto (i tagli ai due fondi dedicati e a quelli per il cofinanziamento delle politiche comunitarie di sviluppo).
Sulla Banca del Sud, è presto detto: lo Stato ci metterebbe 5 milioni di euro. Gli altri, dovrebbero metterceli i privati. E Tremonti li individua negli ex azionisti delle banche meridionali. Dopo il bagno di sangue che hanno subito, è realistico immaginare che se ne staranno lontani. Ma, più in generale, è di questo che ha davvero bisogno il Sud, anche per risolvere il problema - che indubbiamente ha - di un costo del denaro più elevato rispetto al Centro-nord? Evidentemente no.
Il Sud ha, semmai, più bisogno del centro-nord di un sistema creditizio e finanziario aperto e competitivo. Non di un nuovo carrozzone pubblico.
Veniamo però alla sostanza: quanto stanzia, la finanziaria, per il Sud? Il film è quello delle finanziarie scorse: per il primo dei tre anni, un taglio draconiano; per l'ultimo anno (fa «fine» e non impegna) un aumento spettacolare. L'anno scorso, per il 2006 (secondo anno di riferimento)
(milioni di euro)
Interventi aree sottoutilizzate
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Settore 4 tabella F
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Cofinanziamento nazionale
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Totale
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Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati
Se si considerano anche gli stanziamenti relativi al cofinanziamento nazionale dei Fondi strutturali, risultano per il primo anno di riferimento, i seguenti importi:
disegno di legge finanziaria per il 2006: risorse complessive pari a 10.329 milioni di euro;
legge finanziaria per il 2005: risorse complessive pari a 10.817 milioni di euro.
Nella tavola seguente sono riassuntivamente poste a raffronto le risorse complessive per le aree sottoutilizzate stanziate dalla legge finanziaria 2005 e dal disegno di legge finanziaria per il 2006, per il primo anno del triennio di riferimento.
(milioni di euro)
Interventi aree sottoutilizzate
| Cofinanziamento nazionale
| Totale
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Se il confronto viene effettuato relativamente alle risorse per gli interventi nelle aree sottoutilizzate stanziate nel triennio di riferimento, risulta che:
il disegno di legge finanziaria per il 2006 prevede, per gli interventi nelle aree sottoutilizzate, risorse complessive pari a 21.339 milioni di euro (24.143 milioni se si considera anche il cofinanziamento nazionale);
la legge finanziaria per il 2005 prevedeva, per gli interventi nelle aree sottoutilizzate, risorse complessive pari a 24.017 milioni di euro (36.642 milioni se si considera anche il cofinanziamento nazionale).
(milioni di euro)
Risorse 2005-2007 Risorse 2006-2008 Interventi per le aree sottoutilizzate
| Cofinanziamento nazionale
| Totale
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5.2. I tagli agli enti locali.
Negli anni novanta i comuni italiani sono stati fondamentali per la tenuta del nostro paese, basta pensare a come gli Enti Locali hanno dato risposte in periodo in cui in seguito a tangentopoli la politica nazionale aveva lasciato un vuoto, basta pensare allo sforzo compiuto anche dai Comuni nella seconda metà degli anni novanta per contribuire al raggiungimento dei parametri richiesti dal trattato di Mastricht per poter centrare l'obiettivo dell'euro.
Negli ultimi quattro anni, invece, il governo ha trattato gli Enti Locali come fossero un peso e anziché una risorsa, invece di sfruttare le potenzialità che potevano offrire sono stati attuati una serie di provvedimenti che hanno complicato e reso difficile l'attività degli Enti incidendo direttamente sulla loro autonomia. Da una parte si annuncia la «devolution» dall'altra vengono mortificate le autonomie locali.
In questi quattro anni vi è stato un taglio dei trasferimenti pari a circa un miliardo di euro (nel 2001 sono stati trasferiti agli Enti Locali 15,469 miliardi di euro, per il 2006 sono stati stanziati 14,246 miliardi di euro), questo ha comportato nel corso di questi anni un aumento dei costi, dei servizi soprattutto per le famiglie, per gli anziani e per le fasce più deboli, in questi anni gli Enti Locali hanno dovuto recuperare gli effetti dell'inflazione e le minori entrate aumentando le entrate proprie. Negli anni del risanamento economico attuato dal governo di centrosinistra erano state applicate alcune norme che con l'obbiettivo di ridurre la spesa pubblica andavano ad incidere anche sugli Enti Locali.
Pur prevedendo queste norme, tranne rari casi che riguardavano gli Enti meno virtuosi, non si è mai andati a incidere in maniera pesante su quella che era l'autonomia dei Comuni e delle Province. Anche in quegli anni i Comuni e Province erano obbligati al rispetto del «patto di stabilità», ma il meccanismo teneva conto che gli Enti Locali avevano entrate proprie e quindi i parametri si basavano sui saldi fra entrate e spese.
In questi ultimi 4 anni il metodo di calcolo del patto di stabilità è stato variato ogni anno, facendo innanzitutto l'errore di
Nella tabella che segue (fonte Servizio Studi della Camera) si evidenzia l'andamento storico dei trasferimenti erariali agli Enti Locali, a partire dal 2001 (ultima finanziaria dell'ulivo) fino al 2006.
Trasferimenti erariali (fondi di parte corrente più fondi di conto capitale).
(milioni di euro)
Da una prima stima elaborata dall'ANCI, relativa agli effetti prodotti dal taglio della spesa corrente, si evince un ridimensionamento forte dei servizi erogati, soprattutto in quei settori fondamentali per le comunità locali (servizi trasporti alunni, contributi per il diritto allo studio, trasporto pubblico locale, illuminazione pubblica, manutenzione stradale, biblioteche, musei, eventi culturali, ecc.).
Inoltre c'è l'azzeramento del Fondo per la montagna che riguarda 356 comunità
5.3. La ricerca.
L'Istat ha presentato nello scorso ottobre i principali risultati sulla Ricerca e Sviluppo in Italia. I dati ci dicono che nel periodo 2003-2005 nel settore Ricerca e Sviluppo intra-muros, la spesa delle imprese, delle amministrazioni pubbliche (incluse le università) e delle istituzioni private non profit, mostra una battuta di arresto dopo tre anni consecutivi di crescita; su base annua l'aumento è soltanto dell'1,2 per cento in termini monetari (-1,7 per cento in termini reali).
Il contributo delle imprese alla R&S italiana scende, infatti, dal 50,1 per cento del 2000 al 47,3 per cento nel 2003. Si tratta di un'anomalia nel contesto dei principali paesi Ue, dove la quota della spesa sostenuta dal settore privato supera frequentemente il 60 per cento con punte, nei paesi nordici, di oltre il 70 per cento. La tenuta del sistema nazionale della R&S è, quindi, garantita dalle amministrazioni pubbliche e, soprattutto, dalle università, nonostante i ripetuti tagli decisi dalle Finanziarie degli anni scorsi.
Anche in questo settore, purtroppo, si registrano forti divari territoriali: nel solo 2003 si modifica la distribuzione territoriale della spesa per R&S delle imprese, sempre concentrata (per l'89,9 per cento) nell'Italia settentrionale e centrale (di cui il 30,9 per cento in Lombardia, il 19,3 per cento in Piemonte e l'11,7 per cento in Emilia-Romagna), mentre la quota del Mezzogiorno è pari soltanto al 10,1 per cento del totale nazionale.
Il rallentamento osservato nel 2003 in tutto il settore pubblico solleva un serio interrogativo in merito ai vari Commissariamenti degli enti di ricerca, ed in particolare alle perduranti difficoltà del più grande ente di ricerca pubblico in Italia, il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il CNR, dopo 15 mesi di commissariamento, attraversa oggi una crisi profonda come non era mai accaduto prima nella sua storia: i dati del trasferimento statale espressi in valori correnti e costanti 2001 (usando il deflattore del PIL), sono, infatti, impressionanti: una riduzione del budget di circa il 18 per cento negli ultimi quattro anni è una misura che non solo produce guasti gestionali, ma cambia profondamente la natura dell'Ente, ridotto ormai ad ente strumentale e di servizio.
Ma il pericolo più grande per il futuro della ricerca in Italia è costituito dalle porte sbarrate ai giovani ricercatori. Veniamo, infatti, da quasi quattro anni di blocco delle assunzioni che rischia di prosciugare interi filoni: l'età media dei ricercatori è arrivata a 50 anni. Siamo già oggi in una carenza tendenziale di ricercatori.
5.4. Le infrastrutture ed i trasporti
Il drastico ridimensionamento delle risorse trasferite ai diversi comparti del trasporto si aggiunge all'ormai consolidata carenza di qualsiasi politica di settore, all'assenza di programmazione, ai tagli operati con le precedenti manovre finanziarie, ai tanti e spesso sovrapposti interventi legislativi che in questa legislatura hanno generato incertezze e rallentamenti dei processi avviati dai Governi dell'Ulivo.
I tagli apportati da questa finanziaria risultano tuttavia accentuati dal taglio dei trasferimenti alle Regioni e agli Enti locali che avranno le loro inevitabili ricadute nel settore specialmente per quanto attiene al Trasporto pubblico locale e alla mobilità urbana.
Nel contesto più generale dell'andamento dell'economia italiana, il trattamento riservato agli investimenti nelle pubbliche infrastrutture va ulteriormente a danneggiare la crisi complessiva del Paese. Gli investimenti utilizzati come volano economico anticiclico non ci sono. Così come sono stati fortemente ridimensionati i finanziamenti alle Ferrovie dello Stato e all'ANAS ossia ai soggetti che maggiormente attivano investimenti nel sistema.
Fra le modifiche più rilevanti sul piano finanziario, introdotte nel corso dell'esame al Senato, si segnala infatti proprio la riduzione dei trasferimenti in conto capitale alle Ferrovie dello Stato per un importo di 1.200 milioni di euro per ciascuno 2006, 2007 e 2008, e all'ANAS, per un importo di 300 milioni di euro nel 2006 adottati nell'ambito degli interventi correttivi per rimodulare gli strumenti di acquisizione di una quota delle entrate rispetto a quelli previsti in sede di predisposizione del DPEF.
Secondo il FMI, le drastiche riduzioni nei trasferimenti alle Ferrovie dello Stato e all'ANAS sono difficilmente sostenibili senza credibili ristrutturazioni aziendali, che a loro volta sono rese difficili dalla mancanza di puntuali informazioni sulla situazione finanziaria delle dette società.
Le riduzioni apportate ai trasferimenti in conto capitale sono, inoltre, aggravate dal forte taglio ai trasferimenti correnti che per le Ferrovie dello Stato raggiungono la cifra di 555 milioni di euro e per l'ANAS 118 milioni di euro.
Per quanto attiene l'ANAS gli effetti complessivi dei tagli genereranno gravi ripercussioni non solo sulle nuove opere ma anche sui lavori stradali già appaltati e in corso di realizzazione e sulla manutenzione straordinaria.
Quello che si prospetta, in un quadro più generale in cui è messa a rischio anche l'unità della gestione della rete stradale di interesse nazionale (DL 203/205), è l'accrescimento spropositato dei debiti che la Società dovrà contrarre per rispondere
a) non presenta interventi finanziari in grado di invertire le tendenze in atto sul piano della mobilità urbana e contribuire al risanamento ed allo sviluppo del trasporto pubblico locale, al miglioramento e potenziamento del trasporto rapido di massa, alla crescita di forme di trasporto alternative a quelle automobilistiche, al sostegno dell'innovazione tecnologica nei sistemi di regolazione del traffico, alla riduzione dell'uso del mezzo privato (anche con l'applicazione del car sharing e del car pooling), alla razionalizzazione del trasporto merci i ambito urbano.
b) non fornisce adeguati contributi ai privati cittadini per l'acquisto di veicoli a basso impatto ambientale;
c) non interviene, nonostante le promesse, per superare l'insufficienza delle risorse stanziate per far fronte alle esigenze di tutela ambientale con il Decreto Legge del 21 febbraio 2005, n. 16 (cosiddetto decreto anti-Smog);
d) non prevede appositi contributi per stimolare la domanda di trasporto pubblico e favorire il riequilibrio modale in ambito urbano, ad esempio, incentivando l'acquisto di abbonamenti annuali e mensili ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale, interregionale e ferroviario,
e) taglia le risorse destinate all'acquisto di autobus dalla legge 194/98 per il triennio 2006-2008 di circa 120 milioni di euro sancendo, in questo modo, la rinuncia all'acquisto di 800 nuovi autobus, che erano già previsti nei piani regionali per il rinnovo del parco mezzi.
Anche la sicurezza stradale viene completamente dimenticata in questa sessione di bilancio, in particolare si segnala che la manovra finanziaria per il 2006:
a) non garantisce le adeguate risorse per il finanziamento del Piano del Piano Nazionale della Sicurezza Stradale (PNSS);
b) non interviene in modo risolutivo sulla procedure di semplificazione del trasferimento dei fondi relativi al PNSS alle Regioni determinando in tal modo il permanere della situazione di blocco dei finanziamenti del Piano e la conseguente compromissione di molti progetti, senza modificare la paradossale situazione odierna per cui si è a conoscenza di quali sono i cosiddetti «punti neri» della rete stradale, ma non si dispone delle risorse per intervenire e porvi rimedio;
c) non prevede, contrariamente agli impegni presi con il Parlamento, risorse per finanziare specifiche campagne per la sicurezza stradale anche con l'uso di mezzi di comunicazione di massa, che coinvolga anche le scuole ed i giovani studenti, soprattutto in relazione all'uso dei ciclomotori e alla guida sicura in città;
d) determina una ulteriore contrazione delle risorse a favore dei soggetti preposti ai controlli sulla rete stradale nazionale e locale compromettendo in questo modo la sessa credibilità delle norme contenute nel codice della strada;
Non vengono date le opportune risposte al settore marittimo e portuale. In particolare si segnala che nonostante gli impegni presi in Parlamento (accoglimento dell'ordine del giorno n. 9/05827/003) non viene superato il blocco degli investimenti delle Autorità portuali che sta impedendo la realizzazione di importanti progetti con il solo risultato di aiutare i porti già infrastrutturati del nord Europa, ed i porti della Spagna e della Francia a vincere la sfida per intercettare i grossi flussi di traffico che arrivano dalla Cina e dall'Asia.
In sintesi, relativamente al settore marittimo e portuale, la manovra finanziaria per il 2006:
a) non adotta le opportune iniziative volte a garantire l'utilizzo di risorse adeguate alle Autorità portuali, anche al fine di dare una risposta alle esigenze di chiarezza nonché per il rilancio del sistema portuale italiano;
b) non compensa la forte riduzione alle spese per investimenti fissi (- 302.698.950 -) in opere marittime e portuali apportata dal decreto 203/2005;
c) non prevede il rifinanziamento, per il prossimo triennio, delle misure riguardanti il sostegno e lo sviluppo del cabotaggio e del progetto delle Autostrade del Mare nonostante quest'ultimo, e più in generale il settore dell'economia marittimo-portuale, rappresenta un fattore decisivo per il riequilibrio in senso sostenibile del sistema di trasporto delle merci;
d) per il terzo anno consecutivo non prevede il finanziamento delle spese della ricerca nel settore;
e) riduce le risorse per gli interventi a sostegno delle imprese italiane del settore navalmeccanico e amatoriale particolarmente esposte ad una concorrenza, talvolta sleale, nei mercati internazionali;
f) non vengono potenziati i servizi di trasporto marittimo con le isole minori.
g) vengono tagliate le risorse per il Gruppo Tirrenia mettendo in seria discussione il processo di ristrutturazione ormai giunta in uno stadio avanzato che consentirà, in una politica di rilancio della Flotta Pubblica, di porsi sul mercato di cabotaggio nel ruolo che gli compete.
I tagli apportati incidono negativamente anche sull'aviazione civile. Vengono previsti ulteriori decrementi delle risorse finanziarie destinate all' Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo senza rimuovere gli ostacoli di carattere economico e normativo che stanno incidendo sulla organizzazione e sull'operatività dell'Agenzia stessa e, conseguentemente, sulla sicurezza aerea del Paese. Se si considerano gli effetti delle norme contenute nel decreto legge n. 203 del 30 settembre 2005 si comprende chiaramente quanto tutto il settore viene fortemente penalizzato: dalle gestioni aeroportuali, agli enti di vigilanza (ENAC) e controllo (ENAV) che, anche quest'anno, subiscono forti riduzioni nei trasferimenti e vedono messa in discussione la loro stessa autonomia finanziaria.
Alla luce di quanto esposto la legge finanziaria 2006 conferma la mancanza di strategia e di qualsiasi azione programmatica sul sistema dei trasporti nazionali che, nonostante i continui slogan propagandistici sull'infrastrutturazione del Paese, finisce fatalmente e paradossalmente per compromettere importanti progetti di sviluppo e di riequilibrio modale oltre che mettere in discussione la stessa competitività nazionale.
5.5. Le politiche ambientali.
Come è consuetudine di questo Governo anche nella sua quinta finanziaria la spesa ambientale continua a subire un forte ridimensionamento. Il taglio, operato quasi esclusivamente per la parte di conto capitale, sfiora complessivamente il venti per cento di un bilancio già ridotto all'osso. Forti riduzioni subiscono tutti i centri di responsabilità a cominciare dal fondo unico istituito dalla legge finanziaria del 2002, che contiene il grosso degli investimenti e fa capo al gabinetto del Ministro, così come la protezione della natura, la ricerca ambientale, la difesa del suolo. Questo per quanto attiene al bilancio.
Quanto alle norme contenute nella finanziaria il discorso non cambia: si prorogano gli incentivi sulla manutenzione e salvaguardia dei boschi, si dispone un finanziamento di 100 milioni di euro per la realizzazione delle misure di attuazione del protocollo di Kyoto, si torna sulla disciplina riguardante i siti di interesse nazionale da bonificare, con l'intento di rendere meno oneroso per la parte pubblica l'intervento di bonifica, si elevano le sanzioni pecuniarie per il danno ambientale, sempre allo scopo, lodevole, di aumentare le risorse del Ministero, si interviene sulle procedure di monitoraggio della spesa ambientale, nel senso di rinnovare la collaborazione già avviata con l'Associazione dei comuni italiani.
Tutto qui: con la mano destra si toglie quasi tutto e con la sinistra si getta una manciata di spiccioli.
Ben diverso dovrebbe essere a nostro avviso il peso della spesa ambientale in un paese moderno. Basti pensare alle significative ricadute sul piano economico e occupazionale, oltre ai benefici per la salute e l'ambiente, che potrebbero avere dei seri investimenti in ricerca e sviluppo nei settori del risparmio e dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, o l'avvio di quella che è stata definita la più importante infrastruttura del Paese, vale a dire la realizzazione di un programma nazionale di interventi per la riduzione del dissesto e quindi del rischio idrogeologico, o, ancora, la svolta, promessa ogni anno e mai realizzata, relativa al risanamento atmosferico nelle grandi aree urbane. Ma le misure di lungo respiro, gli interventi strutturali, non si addicono a questo Governo.
La spesa ambientale dal 2001 a oggi è calata costantemente, ma più del dato quantitativo preoccupa l'assenza di qualità della spesa stessa (in questo quinquennio si è speso troppo per il funzionamento di commissioni ministeriali) e l'incapacità del Ministero di impedire la più colossale sanatoria dei reati contro il territorio mai realizzata nel Paese, che, a fronte di un risultato economico inferiore alle aspettative, ha contribuito a consolidare l'idea che la tutela del territorio, inserita nel nome del Ministero (ironia della sorte!) proprio con il Governo attualmente in
5.6. I tagli alla cultura.
Prosegue la politica del contenimento della spesa nel settore dell'istruzione, dell'università e della cultura. Il Piano finanziario della legge n. 53 del 2003 prevedeva, infatti, 8.320 milioni di euro per il periodo 2004-2008 ma che: dei primi 4 miliardi di euro - che sarebbero dovuti provenire dalle tre precedenti leggi finanziarie - è difficile oggi trovare traccia in quanto tali economie di spesa o sono state impiegate nella copertura del contratto della scuola o sono andate in economia a compensare il disavanzo; degli altri 4 miliardi di euro dei piano da investire nel periodo 2004-2008 è stata messa a bilancio: con la finanziaria per il 2004 la cifra irrisoria di 90 milioni (il 2,2 per cento dell'intera somma da stanziare nel quinquennio) per tecnologie multimediali, lotta alla dispersione, istruzione tecnica superiore ed educazione degli adulti. Si ricorda, infine, che l'articolo 3, comma 92, della legge finanziaria 2003 (legge n. 350 del 2002) aveva autorizzato tale spesa da destinare all'attuazione del citato piano programmatico di interventi finanziari; tali risorse erano destinate allo sviluppo delle tecnologie multimediali; interventi contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione; sviluppo dell'istruzione e della formazione tecnica superiore e per l'educazione degli adulti; istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione; il comma 8 dell'articolo 16 del disegno di legge n. 5310 prevedeva un finanziamento di 110 milioni di euro da destinare all'attuazione del piano programmatico di interventi finanziari previsto dall'articolo 1, comma 3, legge n. 53 del 2003.
Nella finanziaria per il 2006 non vi è traccia di alcun finanziamento e non si sa che fine abbia fatto la postazione della Tabella F della legge finanziaria 2005 (legge n. 311 del 2004) che a decorrere da 2006 prevedeva lo stanziamento annuo di 31 milioni di euro per il finanziamento dei mutui di edilizia scolastica previsti dalle legge n 23 del 1996 e n. 362 del 1998; non è stato ancora emanato il decreto ministeriale per la ripartizione dei mutui relativi all'annualità 2005 (quello per il 2004 risale al 30 ottobre 2003).
Per quanto invece riguardano gli stanziamenti destinati ai diversi settori della cultura, negli ultimi cinque anni si è registrata una costante e gravissima flessione. Il Fondo unico dello spettacolo (FUS) ha subito tagli ingenti che, rispetto al 2001, ne hanno determinato una riduzione complessiva del 50 per cento. Nonostante in Senato, siano stati reintegrati 85 milioni di euro per il 2006, rimane grave la situazione in cui versa lo spettacolo italiano. È un atto totalmente insufficiente, volto esclusivamente ad un recupero di facciata che non risolve minimamente i problemi in cui versa il mondo della cultura italiana.
La perdita di finanziamenti pubblici che subiscono i settori e le istituzioni dello spettacolo e la cinematografia italiani è, in termini di potere reale d'acquisto, molto più grave di quanto appena esposto; lo stanziamento di 385 milioni di euro per il 2006 e di 300 milioni per il 2007-2008 previsto dalla Tabella C decreta la chiusura, di fatto, delle attività dello spettacolo italiano. Infatti oltre 200 milioni di euro sono assorbiti dal fabbisogno delle fondazioni lirico-sinfoniche che, è il caso di ricordarlo, occupano oltre 5.000 persone su tutto il territorio nazionale, oltre a costituire in tutto il mondo una tra le più importanti testimonianze della nostra tradizione e produzione culturale e artistica.
Detratta questa quota resterebbero 100 milioni di euro per finanziare tutti gli altri settori dello spettacolo: cinema, teatro di prosa, danza, musica e attività circensi. Va ricordato, poi, che lo spettacolo in Italia, nel suo complesso, conta all'incirca
5.7. La politica estera.
È oramai scontato che il trattamento riservato alla politica estera italiana dalla manovra Finanziaria consiste nel taglio delle risorse correnti, in un'assoluta indisponibilità a investimenti per migliorare la funzionalità della Farnesina e delle nostre rappresentanze diplomatiche all'estero e di una decurtazione dei contributi alla cooperazione. Il tutto è calato in un quadro caratterizzato da una totale assenza di scelte forti e di priorità strategiche, sostenute da congrui impegni finanziari, che consentano di riqualificare e rilanciare il ruolo internazionale del Paese.
Qualche mese fa i giornali, non solo nazionali, hanno evidenziato come il Governo italiano fosse in difficoltà a trovare i fondi per far partecipare la delegazione italiana alla missione umanitaria europea in Indonesia, in seno alla quale pure dovevamo assumere ruoli di direzione. Si tratta delle inevitabili conseguenze delle scelte politiche fatte nelle precedenti Finanziarie che in questa vengono ribadite e aggravate.
I tagli continuano a ridurre le capacità delle nostre missioni all'estero, vuoi di natura scientifica vuoi di natura culturale vuoi a carattere politico, non contribuendo certo a dare credibilità all'azione complessiva del Governo e all'immagine del Paese. Così anche in questo Documento tutti gli elementi si ripresentano, peraltro aggravati da una evidentissima sottovalutazione del settore cui viene dedicata un'attenzione così scarsa da mettere in difficoltà la stessa Commissione di merito nella fase dell'esame consultivo.
Da segnalare e da denunciare, anche questo anno, la pervicace violazione dell'impegno assunto a destinare ai fondi per la cooperazione almeno l'equivalente dell'0,3 per cento del Pil nel 2006, impegno disatteso grazie a un taglio di 150 milioni di euro a partire da questo anno cui l'opposizione cerca di rimediare con specifici emendamenti.
Diventa veramente difficile giustificare, in sede internazionale, il divario tra l'obiettivo prefissato e quanto effettivamente erogato (l'Italia è situata all'ultimo posto tra i paesi donatori per la percentuale di Pil destinata agli aiuti ai PVS). Si consideri, peraltro, che la legge 209/2000 sulla cancellazione del debito ha esplicato i suoi effetti più significativi e che lo stesso Fondo rotativo per la concessione dei crediti di aiuto si sta riducendo marcatamente.
Grave, a nostro avviso, è anche l'assenza di un'azione coordinata e convinta per sostenere la stabilizzazione dei Balcani, oggetto tra l'altro di una legge oramai priva di fondi, inutilizzata e non rifinanziata, mentre i nostri concorrenti europei, dalla Grecia alla Germania cercano di guadagnare, in un'area per noi strategica, influenza, mercati e rapporti.
Ancora una volta da segnalare, la cronica sottovalutazione dell'area mediterranea, non sostenuta da alcun progetto e
5.8. La sanità e le politiche sociali.
Per quanto riguarda le parti che interessano nello specifico il profilo della sanità esse non sono avulse dal contesto di improvvisazione e di approssimazione del disegno di legge in esame. Misure ampiamente insufficienti al fabbisogno necessario per garantire i livelli essenziali di assistenza e il diritto dei cittadini all'accesso delle prestazioni. Nella finanziaria 2006 è evidente uno scostamento tra la spesa stimata nel DPEF di luglio e quanto effettivamente previsto. Nel DPEF infatti era previsto un finanziamento complessivo di 96 miliardi di euro, mentre il disegno di legge in esame prevede uno stanziamento effettivo di 92,5 miliardi di euro. Pertanto si riscontra uno scostamento di ben 3,5 miliardi euro, che equivale a meno strutture, meno efficienza, meno diritti. Le regioni lamentano inoltre un sottofinanziamento pregresso di ben 4,5 miliardi di euro. Pertanto l'aumento di risorse destinato alla sanità è solo presunto, in quanto si collega ad una serie di norme «capestro» per le regioni. In particolare, come si evince anche dalla relazione tecnica allegata, a fronte dell'incremento del livello di finanziamento a cui concorre lo Stato rispetto al 2005, si richiede alle regioni una manovra di circa 2,5 miliardi di euro, che si vanno ad aggiungere ai tagli già sostenuti dalle regioni negli anni precedenti, pari a 1,250 miliardi di euro. In sostanza, il Governo promette alle regioni 1 miliardo di euro aggiuntivi, ma ne condiziona il trasferimento a tagli e razionalizzazioni di spesa per un valore doppio, il cui onere viene fatto ricadere sulle regioni. Quello che preoccupa è che, nell'ottica del presunto efficientamento del Servizio sanitario nazionale, il Governo di fatto prevede una rimodulazione delle prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza, che già sono fortemente ridimensionate con una disarticolazione del servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda l'intervento di cui al comma 192, per l'abbattimento delle liste d'attesa non è come prevede il governo che si affronta il delicatissimo problema della riduzione dei tempi d'attesa per i pazienti. Innanzitutto, l'erogazione dei 2 miliardi di euro definiti aggiuntivi (e comunque sempre inferiori ai 4,5 miliardi richiesti per fronteggiare il sottofinanziamento) viene condizionata ad una serie di adempimenti da parte delle regioni, a partire da un'intesa da siglare entro il 31 marzo 2006, il che significa che le regioni non potranno accedere a quelle risorse non prima della metà del prossimo anno e che fino ad allora dovranno continuare ad operare in condizioni di estrema difficoltà in ragione del sottofinanziamento del Fondo sanitario nazionale. Di particolare rilevanza è inoltre il comma 203, che prevede il tetto di rimborsabilità per cure fuori regione. La norma desta enorme preoccupazione perché, considerata l'elevata mobilità, in particolare dal sud al nord, non sarà ad un certo punto più possibile, per i cittadini, l'accesso a cure non reperibili nel territorio di residenza. Questa norma rischia di non accrescere la qualità dei servizi sanitari nel territorio di residenza e di penalizzare i centri di eccellenza e di specialità in altri territori; va quindi assolutamente modificata per fugare le preoccupazioni di medici e pazienti. Va poi detto che si è di fronte ad una strana finanziaria, in cui si punta ad efficientizzare la spesa e poi si scopre che vengono istituite nuove strutture, come al comma 199 con il Siveas i Sistema nazionale di
a) non vengono previste misure di contrasto alla perdita di potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, anche attraverso la restituzione del fiscal drag, l'adeguamento dei trattamenti pensionistici e la riforma del paniere ISTAT e dell'indice dei prezzi al consumo. In questo ambito non è inoltre presente nel testo della manovra finanziaria, alcuna norma per l'ampliamento della platea dei beneficiari dell'aumento a 516 euro dei trattamenti pensionistici al di sotto di questa cifra;
b) non sono previste le risorse per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego per il biennio 2006-2007, con la conseguenza non solo di impedire l'apertura di un tavolo di trattativa con le organizzazioni sindacali, ma anche di determinare un ulteriore squilibrio finanziario nel Bilancio dello Stato a carico delle prossime finanziarie;
c) viene prevista la riduzione del 40 per cento delle risorse destinate al personale a tempo determinato e con contratti di collaborazione coordinata e continuativa nella pubblica amministrazione, limitando gli stanziamenti finalizzati all'utilizzo di detto personale nella misura del 60 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2003, con una disposizione che colpisce gravemente una categoria debole come quella dei lavoratori precari. La medesima limitazione all'assunzione di personale a tempo determinato viene estesa anche alle amministrazioni regionali e locali e a quelle del Servizio Sanitario Nazionale, per i cui per i lavoratori precari non viene prevista alcuna proroga dei contratti o l'individuazione di processi di stabilizzazione;
d) la proroga dei trattamenti di cassa integrazione e di mobilità in scadenza al 31 dicembre 2005 non prevede risorse adeguate;
e) non viene previsto alcuno stanziamento per estendere la tutela degli ammortizzatori sociali alle imprese ed ai settori che ne sono attualmente privi, come le imprese con meno di 15 dipendenti;
f) non è stata realizzata da parte del Governo una riforma organica degli ammortizzatori sociali in senso universalistico che preveda l'estensione delle forme di tutela e di sostegno al reddito a coloro che ne sono privi, in particolare i lavoratori precari impiegati in nuove forme di lavoro, - come i collaboratori a progetto e gli associati in partecipazione;
g) non vengono individuate risorse per provvedimenti già da tempo all'esame dei Parlamento, quali il superamento del divieto di cumulo tra rendita INAIL e pensione di invalidità INPS e la modifica dei requisiti per l'accesso alla tutela dell'assicurazione contro gli infortuni domestici; non viene previsto un adeguamento dell'assegno sostitutivo dell'accompagnatore militare per i grandi invalidi di guerra e per servizio;
h) non viene altresì previsto il riconoscimento dei benefici economici previsti nel contratto collettivo nazionale di lavoro al personale già dipendente dal Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni cessato dal servizio nel periodo dal 1o ottobre 1994 al 1o ottobre 1995; non sono previste, per il secondo anno consecutivo, risorse per il sostegno ed il potenziamento dei centri pubblici per l'impiego delle province;
i) non sono previsti finanziamenti per consentire l'accesso alla pensione dei lavoratori impegnati in mansioni particolarmente usuranti;
5.9. Le politiche agricole.
La crisi del mondo agricolo è strutturale e di misure strutturali ha bisogno per essere affrontata. Sono almeno due anni che presentiamo proposte per fronteggiare lo stato di crisi; proposte respinte dal Governo. È in atto, una gravissima crisi del comparto produttivo, specie nel Mezzogiorno; crisi inedita, straordinaria rispetto al passato.
Alle calamità naturali che abbiamo già registrato negli anni scorsi si è aggiunta una crisi di mercato, mai così grave negli ultimi dieci anni; non è stato toccato un singolo settore ma tutti i comparti e le produzioni risultano coinvolte; migliaia di aziende agricole sono al collasso, indebitate, prossime al fallimento. Vi è un rischio sociale molto forte, specie nelle aree del Mezzogiorno, di perdita di nuovi posti di lavoro; e con il rischio sociale anche quello ambientale, l'abbandono delle campagne.
Le cause sono strutturali: la mancata riorganizzazione della filiera alimentare, l'alto costo del lavoro per quanto riguarda gli oneri contributivi previdenziali ed assistenziali, la carenza infrastrutturale. Si aggiungono, tuttavia, cause congiunturali, come il crollo della domanda, legato alle difficoltà economiche di fasce cospicue di cittadini che hanno ridotto il livello di consumi storicamente acquisiti: il minore potere di acquisto delle famiglie italiane ha portato ad un minor consumo di prodotti agroalimentari di qualità. Vi è poi la questione relativa al controllo dei prezzi: produttori e consumatori sono troppo «lontani» per un corretto governo dei prezzi ed entrambi vengono manipolati dalle lobby. Ci sono passaggi e rincari: alcuni sono necessari, ma altri sono parassitari e speculativi; in maniera parossistica, dunque, si registra un basso prezzo di acquisto del prodotto dal produttore e, al contempo, un alto prezzo di vendita al consumo.
Di fronte a una crisi così ampia il Governo e questa finanziaria non affrontano i nodi strutturali della crisi: la competitività e la commercializzazione dei prodotti delle imprese.
Per la competitività è necessaria e ineludibile la riduzione dei costi, in particolare, il Governo dovrebbe pensare a misure per la riduzione dei costi dell'energia, del gasolio, delle assicurazioni, dell'acqua per l'irrigazione. Si dovrebbe agire inoltre sul costo del danaro perchè in agricoltura è sicuramente più elevato rispetto a quello che si registra in altri settori e, molto spesso, si impone anche la problematica dell'accesso al credito. Il costo del lavoro è troppo elevato ed occorre quindi agire sugli oneri contributivi assistenziali e previdenziali. Solo con la riduzione dei costi si potranno avere aziende agricole realmente competitive.
Accanto al tema della competitività, vi è quello della commercializzazione. Siamo d'accordo sul fatto che la qualità debba improntare le filosofie, la strategia imprenditoriale delle imprese agricole italiane, ma la stessa presenta dei costi; pertanto, o le imprese agricole riescono a
6. Gli emendamenti dell'Unione: una proposta di discontinuità.
L'Unione ha presentato una serie di emendamenti a cui attribuisce importanza e valore politico in quanto vedono l'adesione di tutte le sue componenti e delineano una manovra alternativa, basata su credibili politiche di discontinuità.
In particolare si segnala la presentazione di proposte per:
1) Diminuire l'imposizione fiscale sul lavoro ed assicurare un aumento di reddito dei lavoratori dipendenti: una più equa ripartizione del carico fiscale che premi il lavoro e sia più esigente con le rendite finanziarie, basandosi su una ripresa di credibilità del patto fiscale con i cittadini.
2) Potenziare le risorse destinate alla ricerca e all'innovazione tecnologica (incremento dei finanziamenti per il Fondo per l'Innovazione Tecnologica e per il Fondo ricerca di base) per aumentare la competitività del sistema produttivo nazionale, adottare politiche di sostegno all'export, anche attraverso il miglioramento delle norme in materia di distretti industriali estendendo le agevolazioni anche ai consorzi di Piccole e Medie Imprese al fine di favorire la costituzione di nuove aree distrettuali.
3) Aumentare gli investimenti in infrastrutture di interesse nazionale al fine di valorizzare un sistema logistico fondato sull'integrazione tra strutture portuali, interportuali, aeroportuali con idonei raccordi con le reti ferroviarie e stradali, rilanciare l'ambizioso progetto delle Autostrade del Mare, potenziare la rete ferroviaria così come migliorare la mobilità urbana attraverso investimenti mirati a potenziare l'offerta di trasporto pubblico locale.
4) Realizzare un piano straordinario per lo sviluppo del settore turistico introducendo misure di fiscalità agevolata (riduzione dell'Iva al 10 per cento per gli anni 2006, 2007, 2008).
5) Individuare una prima strategia di interventi sugli ammortizzatori sociali universali al fine di adeguarne gli istituti alle trasformazioni industriali in atto prevedendo, altresì, la proroga dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale ed estendere e incrementare il Trattamento di disoccupazione.
6) Potenziare il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) per l'implementazione di interventi di medio periodo per la valorizzazione delle arti per giungere all'auspicato obiettivo dell'1 per cento delle
7) Garantire la ripresa di interventi mirati a favore del Mezzogiorno sul lato della produttività, introducendo agevolazioni contributive per favorire l'occupazione giovanile e femminile e fiscali (credito d'imposta) per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Sono state inoltre presentate misure per: incrementare il Fondo aree sottoutilizzate fortemente decurtato con questa manovra di bilancio; Istituire il Fondo per la riqualificazione e il recupero dei centri storici urbani e delle aree metropolitane del Mezzogiorno; Mettere in sicurezza il territorio al fine di prevenire le calamità naturali; Stabilizzare i Lavoratori Socialmente Utili del Sud e dei piccoli comuni.
8) Sostituire le misure una tantum presentate dal Governo con politiche strutturali a favore delle famiglie sui temi decisivi della natalità (istituzione del Fondo nazionale per gli asili nido), della casa (sostegno all'accesso alle locazioni abitative), delle giovani coppie (sostegno all'acquisto della prima casa), degli anziani non autosufficienti (istituzione del Fondo per il sostegno delle persone non autosufficienti), del potenziamento della rete di protezione sociale (reintegro del Fondo per le politiche sociali) che siano basate su principi di equità sociale.
9) Ripristinare un Patto di stabilità interno, realistico e concertato, basato su meccanismi virtuosi del rispetto dei saldi, sulla premialità delle amministrazioni efficienti attraverso un quadro normativo certo e duraturo e esentando dal taglio dei trasferimenti alcune categorie di spesa di grande rilievo sociale.
10) Intervenire nel settore sanitario adeguare le risorse complessive del Fondo sanitario nazionale garantendo il finanziamento dei Livelli essenziali di assistenza e il diritto dei cittadini all'accesso delle prestazioni impedendo il fenomeno delle cosiddette migrazioni sanitarie all'interno del territorio nazionale.
Per concludere, la quantità e la qualità degli emendamenti che abbiamo presentato sarebbe stata l'occasione per un confronto approfondito sui temi cruciali del Paese. Un confronto che non c'è stato sia per la fretta che il Governo ha imposto ai lavori parlamentari sia per l'estrema frammentarietà della manovra che, a pochi giorni dalla sua approvazione, non è ancora del tutto nota al Parlamento e allo stesso Governo.
7. Conclusioni.
La discussione in Commissione Bilancio della legge finanziaria non ha risposto a nessuna delle domande che pendevano sulla manovra economica in corso.
Non ha risposto alle domande sulla validità delle previsioni macroeconomiche. L'opposizione ha richiesto la presenza del Ministro dell'Economia, anche per illustrare i termini di un chiarimento in corso con l'Unione Europea che contestava l'attendibilità delle cifre della manovra, ma il Ministro non si è presentato.
Non ha risposto alle domande sull'attendibilità delle coperture, che in più sedi erano state oggetto di contestazione anche alla luce dei risultati negativi degli anni precedenti. Non ha risposto infine alle domande sul rapporto tra i contenuti della legge finanziaria e le ricadute sulla prospettiva di sviluppo del paese: quando e a quali condizioni saranno attivate le risorse del «pacchetto Lisbona», che sembra la Commissione Europea ci chieda di far slittare al 2006?
Nessuno degli emendamenti significativi presentati dall'opposizione è stato approfondito ed approvato, mentre si è riproposto l'antico schema delle norme particolari che interessano territori o categorie. Su molte delle modifiche approvate si sono registrate significative divergenze tra la posizione del Governo e quella della Maggioranza, divergenze che hanno condotto in molti casi all'approvazione di testi
Gianfranco MORGANDO,
Relatore di minoranza.
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