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PDL 6178-A-bis 6177-A-bis

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 6178-A-bis
   N. 6177-A-bis



 

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DISEGNO DI LEGGE
n. 6178

APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA

l'11 novembre 2005 (v. stampato Senato n. 3614)

presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(TREMONTI)

Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2006
e bilancio pluriennale per il triennio 2006-2008
e relative note di variazioni (6178-bis e 6178-ter)

Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica

il 14 novembre 2005

e

DISEGNO DI LEGGE
n. 6177

APPROVATO DAL SENATO DELLA REPUBBLICA

l'11 novembre 2005 (v. stampato Senato n. 3613)

presentato dal ministro dell'economia e delle finanze
(TREMONTI)

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale
e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)

Trasmesso dal Presidente del Senato della Repubblica
il 14 novembre 2005

(Relatore di minoranza: MORGANDO)

designato congiuntamente dai gruppi Democratici di sinistra-L'Ulivo, Margherita, DL-L'Ulivo, Rifondazione comunista e dalle componenti del gruppo misto Comunisti italiani, La rosa nel pugno, Popolari-Udeur, Verdi-L'Unione, ai sensi dell'articolo 79, comma 12, secondo periodo, del Regolamento

 

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Onorevoli Colleghi!

1. Un giudizio su cinque anni di politica economica.

      La legge finanziaria che ci apprestiamo a discutere alla Camera dei Deputati è l'ultima della legislatura, ed assume quindi una particolare importanza perché ci consente di svolgere valutazioni complessive sulla politica economica del governo di centro destra. Il Presidente del Consiglio annuncia agli italiani, proprio in questi giorni, di aver mantenuto tutte le promesse contenute nel «contratto» del 2001. La manovra di fine anno è la migliore occasione per verificare se le affermazioni corrispondono alla realtà.
      Se volessimo individuare un filo conduttore del dibattito che in questi anni si è svolto sulla situazione del paese e sulle sue prospettive lo potremmo trovare intorno alla questione del declino. Sono state coniate varie definizioni per descrivere una situazione di difficoltà riconosciuta da tutti: un «paese dalle pile scariche», vecchio e privo di entusiasmo per il futuro; un'economia in rapido scivolamento verso i gradini più bassi nelle classifiche della competitività internazionale. Potremmo proseguire. Al nostro dibattito spetta il compito di andare oltre le immagini per cogliere la sostanza dei problemi, che sono oggi riconducibili a due grandi emergenze su cui, con l'eccezione del Presidente del Consiglio, c'è una generale convergenza di giudizio. L'emergenza della finanza pubblica fuori controllo e l'emergenza dell'economia incapace di crescere. C'è sempre un po' di retorica nell'uso di parole così forti, e della retorica oggi non c'è veramente bisogno. Vorrei preliminarmente dimostrare che il concetto di emergenza corrisponde esattamente alla realtà italiana, e che gli errori degli ultimi anni sono stati determinanti per creare questa situazione.
      Gli anni '90 sono stati caratterizzati da un grande sforzo di risanamento della finanza pubblica, che ha accomunato fasi politiche tra di loro molto diverse, a cominciare dalla manovra in più tempi realizzata nel 1992 dal governo Amato. Complessivamente la situazione al termine del decennio si presentava sotto buoni auspici: l'indebitamento nel 2000 si collocava poco al di sotto del 2 per cento del PIL; il debito calava regolarmente secondo gli impegni assunti in sede europea, ed era passato dal 124,3 per cento del 1995 al 111,3 per cento del 2000; il saldo primario si attestava stabilmente intorno al 5 per cento. Nonostante l'artificiale polemica sul «buco», ridimensionata dallo stesso Ragioniere Generale dello Stato, gli osservatori più autorevoli ritenevano che l'Italia fosse sostanzialmente uscita dal tunnel della crisi finanziaria.
      Vediamo la situazione nel 2005, con le lenti di due soggetti insospettabili. Lo stesso Governo nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria riconosce che l'indebitamento viaggia verso il 5 per cento (per la precisione individua un tendenziale al 4,7 per cento), prevede che il debito riprenda a crescere (dal 106,6 per cento al 108,2 per cento) e ipotizza un avanzo primario allo 0,6 per cento. Quello dell'avanzo primario è un tema delicato: si tratta di una grandezza molto importante, perché segnala la capacità del bilancio di produrre risparmi che consentano la progressiva riduzione del debito. Non a caso l'Italia aveva assunto un impegno informale a mantenerlo al di sopra del 5 per cento, e nel 2000 il Centro Sinistra aveva lasciato in eredità alla nuova legislatura

 

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un avanzo primario al 5,7 per cento. L'andamento degli anni successivi è emblematico: 3,4 per cento nel 2001; 3 per cento nel 2002; 2,1 per cento nel 2003; 1,8 per cento nel 2004. Ho già detto che la previsione del 2005 era dello 0,6 per cento.
      Il secondo insospettabile testimone della crisi della finanza pubblica italiana è l'Europa. Nel Consiglio ECOFIN del 12 luglio 2005 si è formalmente preso atto che deficit, debito ed avanzo primario (i tre indicatori che ho ricordato prima come cartina di tornasole dei nostri problemi) sono fuori controllo, e richiedono interventi straordinari ed urgenti. Nella stessa seduta si raccomanda all'Unione Europea l'apertura di una procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell'Italia, indicando le strategie che il nostro Governo dovrà seguire per riportare i conti in equilibrio. Sono i numeri della finanziaria che stiamo discutendo: scendere sotto il 3 per cento entro il 2007, riprendere la riduzione del debito, conseguire un avanzo primario di livello adeguato. Siamo tornati alla situazione degli inizi degli anni '90, sprecando un lungo percorso di risanamento che aveva tuttavia prodotto significativi risultati.
      Vale la pena interrogarsi sulle ragioni che hanno determinato questa situazione. Secondo il Governo e la maggioranza le responsabilità sono tutte da attribuirsi alla crisi economica. L'allora Ministro dell'Economia Domenico Siniscalco, presentando il DPEF, aveva insistito sulla bassa crescita come fattore determinante del peggioramento dei conti. In realtà non è così, e la situazione ci deve allarmare perché essa oltrepassa la soglia che sarebbe giustificata dallo sfavorevole andamento del ciclo. Le cause sono più profonde e strutturali. In Italia si è riprodotto un fenomeno che abbiamo già conosciuto in passato: sono diminuite le entrate ed è aumentata la spesa. I messaggi lanciati a più riprese dal Presidente del Consiglio contro la cosiddetta «truffa fiscale», la strategia condonistica e di fiscalità straordinaria che ha caratterizzato l'intera legislatura hanno ottenuto il loro effetto: la pressione fiscale ordinaria (le entrate correnti) è calata dal 2001 al 2004 di circa un punto e mezzo di PIL, un calo che non è integralmente giustificato dalle misure discrezionali di riduzione dell'IRPEF intraprese con la riforma fiscale e dal calo dell'attività economica che incide soprattutto sull'imposizione societaria.
      A fronte del calo delle entrate correnti registriamo il fallimento di tutti i tentativi di controllo della spesa. Come hanno ricordato molti autorevoli commentatori, il problema fondamentale della finanza pubblica italiana consiste nell'incapacità di controllare la quantità e la qualità della spesa pubblica. Basta un dato per dimostrare questa affermazione: nei primi quattro anni del decennio la spesa corrente è cresciuta in media del 2,4 per cento all'anno, a fronte di un aumento medio del PIL dell'1 per cento. L'aumento della spesa corrente è stato finanziato dalla riduzione della spesa per interessi. Un autorevole quotidiano ha reso pubbliche cifre inconfutabili: nel 2001 la spesa corrente si attestava al 37,9 per cento del PIL; nel 2004 è passata al 39,3 per cento, e le previsioni per il 2005 sono che salga ancora al 40,2 per cento. Vale la pena ricordare quanto ha detto la Corte dei Conti nell'audizione sul Documento di Programmazione: «Le risorse liberate dalla convergenza dei tassi di interesse sui più bassi livelli prevalenti in Europa non sono state utilizzate né per correggere il disavanzo né per ridurre in misura sensibile la pressione fiscale, né infine per ricomporre la spesa verso le voci in grado di accrescere la capacità di competere del nostro sistema produttivo. Si è di fatto consentita l'espansione della spesa corrente» La constatazione appare in tutta la sua gravità in un momento in cui i tassi in Europa ricominciano a crescere dopo la recente decisione della Banca Centrale.
      Sul tema della spesa si sono sprecati parole e provvedimenti, che regolarmente non hanno raggiunto gli obiettivi. Il 2003 è stato l'anno del decreto cosiddetto «taglia spese». Il 2004 quello del «metodo Gordon Brown». Nessuno di questi interventi ha raggiunto lo scopo, ed il loro fallimento si è riversato sugli anni successivi
 

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in termini di eccedenze di spesa da finanziare. Basti pensare che nella composizione degli oneri correnti della Finanziaria che stiamo discutendo tali eccedenze di spesa costituiscono quasi il 20 per cento (19,6 per cento per la precisione) dell'intera manovra. Vorrei citare ancora la Corte dei Conti: «Le misure temporanee di controllo della spesa comportano un recupero più o meno pieno nell'anno successivo, e impongono necessariamente l'adozione di nuove misure straordinarie. Tali misure, oltre a svolgere la funzione di correggere andamenti del disavanzo non in linea, hanno anche la funzione di compensare l'effetto rimbalzo dei tagli temporanei e degli slittamenti di spesa».
      Conclusivamente su questo punto possiamo ribadire che il frutto della legislatura che si avvia al termine è un peggioramento strutturale dei conti pubblici e l'incapacità di definire strategie in grado di affrontare il problema. Come è noto queste consistono non tanto nella individuazione di strumenti straordinari, che sono di dubbia efficacia e soprattutto di dubbia tenuta, ma in una continuativa azione di gestione e di controllo, nella realizzazione di sistemi informativi adeguati, nella condivisione degli obiettivi di stabilità interna tra tutti gli attori del sistema. Proprio quello che è mancato in questi anni.
      Le cose non vanno meglio sul fronte dell'altra emergenza che caratterizza il nostro paese, che è l'emergenza dell'economia reale. Non mi sono mai appassionato alle graduatorie di competitività, che contengono evidenti approssimazioni e semplificazioni. Tuttavia non c'è dubbio che la nostra capacità di reggere il confronto con altre economie si è molto indebolita in questi anni, perché sono venuti al pettine alcuni nodi strutturali a cui non è stato posto rimedio.
      I dati del PIL sono in proposito impietosi: dalla crescita del 3 per cento del 2000 siamo passati a cifre vicine allo zero nel 2002 e nel 2003. Il rimbalzo del 2004 (+ 1,2 per cento) si è rivelato a tal punto effimero che lo stesso Governo nel Documento di Programmazione prevedeva per l'anno in corso una crescita zero. I segnali di recupero che l'ISTAT ha registrato nel terzo trimestre non basteranno a determinare una inversione di tendenza.
      Tuttavia sono altri i dati che evidenziano i problemi strutturali dell'economia italiana, su cui vorrei brevemente soffermarmi. L'insoddisfacente crescita dell'Italia, che si è registrata dall'inizio degli anni '90 ad oggi, non è un fenomeno transitorio ma il manifestarsi di un vero e proprio declino dell'economia. Una situazione di crisi che ha coinvolto l'Europa nel suo complesso, ma che ha poi colpito noi in modo più grave degli altri paesi. I dati a questo proposito sono impietosi. Rispetto a quello europeo (Europa a 15) il reddito pro capite dell'Italia è passato dal 106 per cento del '95 al 98 per cento del 2004, riportandosi al valore che aveva alla metà degli anni '70. Rispetto a quello americano il reddito pro capite italiano è passato da circa l'80 per cento a circa il 61 per cento. Il tasso di crescita della produttività del lavoro è costantemente diminuito. La nostra presenza sui mercati internazionali si è ridotta in modo significativo: mentre nel 1995 le esportazioni italiane rappresentavano circa il 4,5 per cento delle esportazioni mondiali, nel 2003 si è arrivati al 3 per cento.
      Le radici di questo fenomeno vengono da lontano, ed affondano nelle particolari caratteristiche della crescita italiana del secondo dopoguerra, che si è basata essenzialmente su due poli, quello della grande industria di base e manifatturiera e quello dell'industria «leggera», piccola e piccolissima, nata dal ricco substrato artigianale e commerciale del nostro paese. La crisi della grande impresa e la sua quasi scomparsa ha affidato le prospettive di crescita e di penetrazione commerciale e industriale alle piccole aziende, esaltando una specializzazione produttiva troppo tradizionale ed allontanandosi sempre di più dai settori innovativi caratterizzati da alta intensità di ricerca e sviluppo. La specializzazione produttiva tradizionale è all'origine delle altre debolezze dell'Italia, che sono il nanismo delle imprese, la bassa presenza di manodopera
 

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qualificata, una struttura proprietaria chiusa e non contendibile. Bastano pochi dati. In Italia la percentuale di produzione nell'industria manifatturiera delle imprese con più di 25 dipendenti è il 42,6 per cento, contro il 63,7 per cento della media europea e il 70,5 per cento della Germania. Le microimprese fino a 9 addetti occupano in Italia il 23,9 per cento totale degli addetti dell'industria manifatturiera, contro il 9,5 per cento della Germania. Per quanto riguarda la qualificazione della manodopera , in Italia solo il 12 per cento della popolazione tra i 25 e i 34 anni ha un titolo universitario, contro il 19 per cento della Francia, il 25 per cento della Spagna e il 31 per cento degli Stati Uniti. Per quanto riguarda la struttura del capitalismo familiare, il campione di Mediobanca, che rappresenta i maggiori gruppi industriali italiani, ci informa che la quota media di controllo detenuta dal maggiore azionista è dell'80 per cento.
      La crisi economica italiana si accompagna ad una trasformazione della struttura della nostra società che apre interrogativi per il futuro a cui dobbiamo dare delle risposte. Eravamo negli anni passati abituati a confrontarci con il modello della «società dei due terzi», in cui il benessere aveva ormai raggiunto la maggioranza della popolazione ed i problemi da risolvere erano quelli del terzo più debole. Oggi tutto è diventato terribilmente più complicato. L'impoverimento dei ceti medi ci presenta una società fatta a forma di clessidra, che richiede una rinnovata capacità di analisi e la definizione di politiche sociali nuove. Le politiche dello stato sociale sono diventate, forse ancor più che in passato, elementi fondamentali della strategia di politica economica. Pensiamo soltanto alle politiche del lavoro, o alle politiche dei servizi per consentire l'ingresso delle donne nel sistema produttivo.
      Si possono citare molte altri dati per rendere plasticamente evidenti le difficoltà che attraversa l'economia reale del nostro paese. La colpa non è certo semplicisticamente ascrivibile al Governo in carica. Ma chi ci ha governato in questi anni non ha fatto nulla per uscire da questa situazione di difficoltà.
      In un'altra parte della relazione ho tentato di analizzare le diverse manovre di politica economica del Centro Destra, evidenziandone i limiti. In questa parte introduttiva voglio cercare di cogliere il segno di fondo dell'azione condotta, gli errori di impostazione strategica che sono stati commessi, le ragioni per cui rivolgiamo al Governo in carica l'accusa di aver lasciato incancrenire una situazione che oggi vede con difficoltà percorsi per la ripresa.
      L'errore dell'impostazione strategica è tutta contenuta nel Documento di Programmazione del primo Governo Berlusconi: l'idea di una ripresa forte e duratura, di un nuovo miracolo economico, reso possibile essenzialmente dalle aspettative positive nei confronti del nuovo corso politico, da una strategia di riduzione del carico fiscale e dal taglio dei lacci e dei laccioli che tenevano incatenata l'economia. Questa impostazione si è tradotta in una politica economica basata sul rafforzamento della domanda di consumi e di investimenti, immaginando che da questa potessero emergere quasi miracolosamente la ripresa produttiva e la crescita del paese. Mai previsione fu più fallace, e i dati sono lì a dimostrarlo.
      La causa dei mancati risultati è ascrivibile anche ad una sorta di «eterogenesi dei fini» della maggioranza di Centro Destra. Nata per liberalizzare finalmente l'economia, ha in realtà rallentato un processo che il Centro Sinistra aveva avviato con significativi risultati. Nata pensando di dare risposta ad una domanda di nuova politica, si è ridotta alla tutela di interessi particolari, alla logica delle corporazioni e dei gruppi di potere. Nata con l'ambizione di avviare una modernizzazione della pubblica amministrazione anche come contributo alla crescita economica, ha riprodotto in realtà antiche logiche clientelari coltivate anche attraverso un uso spregiudicato dello «spoil system». Per non parlare delle tutele, anche giudiziarie, di categorie ristrette di classe dirigente, corrispondente sostanzialmente ad
 

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alcune cerchie amicali. Non stupisce di fronte a questo percorso che le forze produttive del paese abbiano progressivamente maturato una posizione comune sui principali temi di politica economica alternativa a quella del governo, che potrà contribuire a dare vita ad una nuova prospettiva.
      Ho illustrato le ragioni per cui, a nostro avviso, ci troviamo di fronte al fallimento di un intero ciclo di politica economica. Potrei aggiungere agli argomenti esposti il balletto dei ministri (Tremonti, poi Berlusconi, indi Siniscalco, poi nuovamente Tremonti). L'ultimo cambio ha portato qualche novità. Potremmo dire che la finanziaria in discussione costituisce una ammissione di colpa, perché le tradizionali impostazioni vengono abbandonate e si ricerca faticosamente e con molte contraddizioni una strada nuova. Non si parla più del completamento promesso della riforma fiscale, ancora fino a poco tempo fa individuato come il toccasana per la ripresa. Misteriosa anche la vicenda dell'IRAP, che doveva essere cancellata e di cui oggi non si fa più cenno. Al loro posto alcune indicazione copiate un po' maldestramente dal Centro Sinistra: la riduzione del cuneo fiscale, la ripresa di un ragionamento di politica industriale con la proposta sui Distretti. Ci si avvia faticosamente verso una politica dell'offerta, fino a poco tempo fa guardata con sufficienza. Naturalmente è molto difficile pensare che lo stesso ministro delle una tantum, della finanza creativa, del fisco minimo sia in grado credibilmente di interpretare una nuova stagione. Il rischio è che ci troviamo di fronte a delle enunciazioni, a cui poi non seguono i fatti. Abbiamo già qualche esempio nel passato: la finanziaria del 2004 prevedeva la costituzione di un importante istituto di ricerca, l'Istituto Italiano di Tecnologia, che avrebbe dovuto imitare le grandi istituzioni internazionali e costituire un punto di forza della capacità innovativa del nostro sistema. A distanza di due anni di quell'iniziativa si sente parlare soltanto per un litigio sulla sede tra Genova e Milano. La «Banca del Sud» rischia di fare la stessa fine: un buon manifesto di propaganda in vista delle elezioni e per tacitare le polemiche sul disimpegno del Governo verso il mezzogiorno, e poi tutto tornerà come prima.
      Naturalmente l'accusa che rivolgiamo al Governo per gli errori di politica economica che ha commesso costituisce un impegno a chiarire obiettivi e programmi del Centro Sinistra. È tanto più importante in occasione dell'ultima manovra della legislatura.
      Il Centro Sinistra si presenta a questo appuntamento con una significativa novità: una strategia unitaria di tutta l'Unione, resa possibile non soltanto dalla convergenza «contro» ma dalla elaborazione di una proposta comune, anche sotto forma di emendamenti condivisi alla legge finanziaria. Ne do naturalmente conto in un apposito paragrafo in modo più diffuso, ma qui vorrei individuare il filo conduttore di questa strategia, che mi sembra riassumibile nei punti che seguono:

          a) una scelta determinata per far ripartire uno sviluppo di qualità. Vanno in questa direzione le proposte in materia di ricerca, di incentivi alle attività produttive ed all'occupazione, al turismo ed alle infrastrutture.

          b) La consapevolezza che la ripresa dei processi di sviluppo richiederà una attenta verifica delle ricadute sociali delle trasformazioni del settore produttivo, e conseguentemente la proposta di una riforma degli ammortizzatori sociali, che a nostro avviso costituisce una assoluta priorità anche come strumento di politica del lavoro.

          c) La riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, trasferendola sulla speculazione e sulle rendite. Come è noto una scelta di questo tipo costituisce contemporaneamente un beneficio per il lavoratore e per l'impresa, perché i vantaggi possono essere trasferiti in parte su minori costi per l'azienda e in parte su un incremento della busta paga dei dipendenti.

 

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          d) L'impostazione di un nuovo patto di stabilità, basato non più sui tetti di spesa ma sui saldi di bilancio, caratterizzato da meccanismi di concertazione e di partecipazione.

          e) La definizione di una strategia di riforma dello stato sociale, che abbia al centro le categorie più deboli e sottragga le politiche familiari alla logica delle una tantum propagandistiche.

      In sintesi, e per concludere questa prima analisi generale, affrontiamo quest'anno il dibattito sulla manovra economica con la sensazione di intercettare fette crescenti di opinione pubblica deluse dal fallimento della politica economica del Governo, e di Berlusconi in particolare. Il mito dell'imprenditore prestato alla politica, capace di portare una ventata di rinnovamento e di efficienza, sta rapidamente tramontando. Berlusconi ha vinto sulle questioni economiche, e probabilmente perderà sulle questioni economiche. Le scelte in questo campo si rivelano quindi ogni giorno di più le vere scelte che contano, soprattutto in questa fase difficile dell'Italia. Il dibattito di questi giorni ci potrà aiutare a capire meglio le differenze tra i progetti dei due poli e le linee orientative su cui si muove il Centro Sinistra.

2. L'economia italiana all'inizio del nuovo secolo.

      2.1 La situazione congiunturale e le prospettive di breve termine.

      «La valutazione della competitività del sistema Italia tocca nel 2005 il punto più basso nella storia recente di questa rilevazione, da entrambe le prospettive considerate: la valutazione storica sulla competitività effettiva dimostrata nel periodo 2001-2005 vede l'Italia precipitare al 31o posto nella classifica mondiale perdendo 8 posizioni».
      Le parole citate sono quelle con cui si apre il Rapporto dell' Economist Intelligence Unit sulla competitività del «Sistema Italia». Esse sintetizzano un giudizio duro quanto netto nei confronti della performance complessiva dell'economia italiana: lo scivolamento dell'Italia al 31o posto nella classifica mondiale costituisce il peggior risultato tra tutti i 60 Paesi (europei e non) presi in considerazione dal rapporto!
      Secondo il Bollettino economico della Banca d'Italia (n. 45, novembre 2005), «nella prima metà del 2005 l'espansione economica dell'area dell'euro è stata modesta: più sostenuta in Francia e in Spagna, moderata in Germania, negativa in Italia».
      Un primo elemento di preoccupazione nasce dalla comparazione della realtà italiana con lo scenario globale: a fronte di una performance senza precedenti del PIL mondiale nel 2004, che ha segnato una crescita del 5,1 per cento, come risultato della ripresa americana, del risveglio giapponese e dell'esplosione dei paesi emergenti come Cina e India, l'Italia continua a mancare l'appuntamento della ripresa e soprattutto lascia che le sue carenze strutturali continuino ad erodere i livelli di competitività.
      In particolare, se le prospettive a breve per l'area dell'euro vanno verso una ripresa contenuta, per l'Italia lo scenario è notevolmente meno ottimistico, nonostante i tenui segnali di ripresa manifestatisi negli ultimi tempi (crescita del fatturato e degli ordinativi dell'industria). A condizionare tale risultato è sia il versante esterno che quello interno.
      Sul lato della domanda estera pesano la concorrenza delle economie emergenti e gli elevati costi materiali e immateriali (infrastrutturali, amministrativi, da deficit di innovazione tecnologica, ecc.) che gravano sulle produzioni nazionali.
      Sul versante interno, invece, continuano a farsi sentire la debolezza della domanda - e in particolare la crisi dei consumi delle famiglie - su cui nessun effetto ha avuto la politica dei «tagli delle tasse».
      Lo scadimento del livello di competitività è evidente e viaggia lungo due direttrici principali: la perdita di attrattività dell'Italia per gli investitori stranieri e la

 

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persistenza di un deficit di riforme strutturali, che si è allargato negli ultimi anni anche a causa dello «stallo da riforme annunciate» e del disorientamento - delle imprese, degli investitori e dei cittadini - che ha fatto seguito al loro fallimento.
      Vi sono indicazioni di una decelerazione delle esportazioni e di un andamento sostenuto delle importazioni: il contributo del settore estero alla crescita del prodotto, positivo nel secondo trimestre, dovrebbe essersi annullato nel terzo.
      L'andamento più recente degli indicatori congiunturali non è univoco. Il sondaggio condotto dalle filiali della Banca d'Italia nel mese di settembre, presso un campione di 4.200 imprese con almeno 20 addetti dell'industria in senso stretto e dei servizi, e le indagini dell'ISAE effettuate in settembre e in ottobre presso le imprese industriali, indicavano attese di un'accelerazione della domanda. Il clima di fiducia delle famiglie, infatti, segnava in ottobre un lieve miglioramento.
      Secondo stime preliminari basate sui consumi di elettricità, la produzione industriale nel bimestre ottobre-novembre dovrebbe essere rimasta però pressoché stazionaria rispetto al livello di settembre, peraltro di circa mezzo punto percentuale inferiore al valore medio del terzo trimestre.

L'economia internazionale.

      Nel 2005 è proseguita la fase espansiva del ciclo dell'economia mondiale; secondo le valutazioni del Fondo monetario internazionale, quest'anno il prodotto dovrebbe aumentare del 4,3 per cento, un ritmo ancora elevato, seppure inferiore al 5,1 registrato nel 2004. Il permanere di condizioni finanziarie assai favorevoli ha contenuto le ripercussioni del rincaro dell'energia. Nel 2006 il commercio mondiale si dovrebbe espandere del 7,4 per cento.
      Per l'economia mondiale i rischi di andamenti dell'attività produttiva meno favorevoli di quelli sopra indicati sono aumentati dalla fine dell'estate. Essi sono essenzialmente riconducibili agli ampi squilibri delle bilance dei pagamenti, al livello particolarmente contenuto dei premi per il rischio sui mercati finanziari, all'elevata variabilità del prezzo del petrolio osservata negli ultimi mesi.
      Gli esigui margini di capacità produttiva inutilizzata nei paesi dell'OPEC accrescono la probabilità d'ulteriori rialzi, anche bruschi, delle quotazioni del petrolio in caso di limitazioni dell'offerta, di aumenti inattesi della domanda e di attività speculative. L'eventuale affievolirsi dei fattori che nel corso del 2005 hanno sostenuto la crescita dell'economia mondiale - tra cui il basso livello dei tassi di interesse a lungo termine - potrebbe fare emergere appieno gli effetti ritardati del rincaro dell'energia, con riflessi significativi sull'andamento dell'attività produttiva.

L'area dell'euro.

      Dalla fine dell'estate, nei Paesi dell'area dell'euro, si sono manifestati segnali di un miglioramento del quadro congiunturale. Secondo le stime preliminari dell'Eurostat nel terzo trimestre il prodotto dell'area è cresciuto dello 0,6 per cento rispetto al secondo, in linea con l'aumento della produzione industriale.
      Gli indicatori qualitativi riferiti alle imprese segnalano un'accelerazione dell'attività produttiva nel quarto trimestre; in Germania l'indicatore del clima di fiducia e gli ordini hanno segnato in ottobre un ulteriore, netto rialzo.
      Il rafforzamento del quadro congiunturale stenta, tuttavia, a essere percepito dalle famiglie dell'area.
      Secondo le previsioni della Commissione europea, che scontano una lieve accelerazione nel secondo semestre, il prodotto dell'area aumenterebbe nel 2005 dell'1,3 per cento. Tale risultato è nettamente inferiore a quello indicato dalla stessa Commissione un anno fa (2,0 per cento), nonché a quello conseguito nel 2004 (2,1 per cento).
      Proseguendo al ritmo di crescita della seconda metà di quest'anno, nel 2006 l'attività economica aumenterebbe in media dell'1,9 per cento, sospinta dal favorevole andamento del commercio mondiale

 

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e dall'accelerazione degli investimenti; questi ultimi beneficerebbero del miglioramento della situazione reddituale e patrimoniale delle imprese. Anche i consumi si rafforzerebbero gradualmente; la loro espansione rimarrebbe, tuttavia, leggermente inferiore a quella del reddito disponibile, indicando il perdurare di un atteggiamento di cautela da parte delle famiglie.
      L'inflazione nell'area, calcolata sull'indice armonizzato dei prezzi al consumo, è salita dal 2,2 al 2,5 per cento fra agosto e ottobre; dovrebbe mantenersi su livelli superiori al 2 per cento nei prossimi mesi. L'accelerazione dei prezzi al consumo non si è riflessa sulla dinamica dei salari, anche in relazione alle condizioni di debolezza del mercato del lavoro.
      Secondo le previsioni della Commissione nel 2005 l'inflazione sarebbe in media del 2,3 per cento. Scontando il protrarsi di una crescita moderata dei salari e quotazioni del greggio intorno ai 61 dollari al barile, valore più elevato dell'attuale, essa rimarrebbe pressoché invariata nel 2006, al 2,2 per cento in media d'anno.

L'economia italiana: la situazione congiunturale e la prospettiva di breve termine.

      Alla luce degli ultimi dati relativi al terzo trimestre dell'anno presentati recentemente dall'Istat - che mostrano un incremento del Pil dello 0,3 per cento, in decelerazione rispetto al +0,7 per cento del trimestre precedente - è verosimile supporre che nell'intero 2005 la crescita media del prodotto interno lordo registrerà solo un leggero incremento rispetto al 2004 e che tale incremento risulterà, tuttavia, del tutto inferiore alle aspettative che prevedevano una crescita in linea con quella dell'area della moneta unica.
      Ciononostante le stime per il 2006 dei principali centri di analisi economica congiunturale (Cer, Ocse, Fmi, Commissione Europea, Isae, Prometeia, Confindustria) continuano a mostrare la presenza di segnali di ripresa la cui debolezza, però, appare ancora inadeguata ai fini del superamento dei fattori strutturali che differenziano la nostra economia da quella di altri paesi dell'area dell'euro e delle frizioni che incidono negativamente sulla produttività e riducono la capacità competitiva delle nostre imprese e dei nostri prodotti nei mercati internazionali.

PREVISIONI SULL'ECONOMIA
ITALIANA A CONFRONTO

Tasso di crescita del PIL
2005
2006
CER (novembre 2005)
0,2
1,2
OCSE (novembre 2005)
0,2
1,1
Commissione Europea (novembre 2005)
0,2
1,5
Ref.Irs (ottobre 2005)
0,2
1,5
ISAE (ottobre 2005)
0,2
1,3
Prometeia (ottobre 2005)
0,1
0,7
FMI (settembre 2005)
0,0
1,4
Centro Studi Confindustria (settembre 2005)
0,2
1,0

      L'uscita dell'economia italiana dalla condizione di bassa crescita in cui versa da anni richiede un'azione ad ampio raggio, diretta a concentrare risorse da destinare al rafforzamento della dotazione di infrastrutture, della formazione di capitale umano e della ricerca; a favorire l'ammodernamento del sistema produttivo; a innalzare il grado di concorrenza sui mercati interni dei prodotti e della proprietà delle imprese; ad aumentare l'efficienza della pubblica Amministrazione.
      Nel medio termine occorre rimuovere i fattori di natura strutturale che ostacolano la diffusione delle innovazioni tecnologiche e organizzative nell'apparato produttivo e che si riflettono in una specializzazione ancora fortemente orientata alla manifattura tradizionale e in una relativa scarsità di aziende medie dinamiche e di grandi imprese attrezzate a reggere la concorrenza sui mercati globali.
      Il sistema bancario e finanziario dovrebbe convogliare un sempre maggiore volume di risparmio verso investimenti innovativi in grado di generare una riqualificazione dell'offerta.

 

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      2.2 I «mali» dell'economia italiana: struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi.

      C'è ormai consenso, tra gli economisti, che l'insoddisfacente crescita dell'Italia che si è registrata dagli inizi degli anni 90 ad oggi non sia un fenomeno transitorio, ma che sia il manifestarsi di un vero e proprio declino dell'economia. Una situazione di crisi che ha coinvolto l'Europa nel suo complesso ma che ha poi colpito l'Italia più degli altri paesi europei. I dati, a questo proposito sono particolarmente impietosi. Rispetto a quello europeo (Europa a 15) Il reddito pro capite dell'Italia (misurato in parità di potere d'acquisto) è passato dal 106 per cento del 1995 al 98 per cento del 2004, riportandosi al valore che aveva alla metà degli anni settanta. Rispetto a quello americano, il reddito pro capite italiano passato dall'80 per cento circa al 61 per cento. Il tasso di crescita della produttività del lavoro è costantemente diminuito per registrare, negli ultimi anni, variazioni addirittura negative. Allo stesso tempo, la nostra presenza nei mercati internazionali si è ridotta in modo significativo. Mentre nel 1995 le esportazioni italiane rappresentavano circa il 4,5 per cento delle esportazioni mondiali, nel 2003 sono arrivata al 3 per cento. La gravità della situazione è accentuata dal fatto che il decennio passato è stato un decennio caratterizzato da una bassa conflittualità sindacale, da tassi d'interesse reali piuttosto bassi e dall'assenza di shock negativi dal lato dell'offerta (se si escludono gli aumenti piuttosto recenti del prezzo del petrolio).
      L'Italia, in verità ha dovuto subire un forte risanamento fiscale dopo le «follie» degli anni ottanta, e importanti aggiustamenti macroeconomici derivanti dall'introduzione dell'euro, ma questi fattori non sembrano sufficienti a spiegare una performance così negativa per l'economia italiana, rispetto a quella degli altri grandi paesi industrializzati. È molto più convincente, invece, una spiegazione di tipo strutturale e cioè sulla crisi del modello di specializzazione dell'economia italiana.
      Le radici di questo fenomeno vengono da lontano e si fondano sul particolare sentiero di crescita seguito dall'Italia nel dopoguerra, basato essenzialmente su due poli: l'industria di base, come la cantieristica, la metallurgia, la meccanica, la gomma, la chimica che era l'erede di un disegno di politica industriale, nato in età giolittiana, e l'industria leggera (oreficeria, tessile, mobili, calzature, elettrodomestici) che nasce in modo più spontaneo, sul ricco substrato artigianale e commerciale che ha sempre caratterizzato l'economia italiana.
      Verso la fine degli anni sessanta, il primo polo, che era costituito soprattutto dalla grande industria pubblica e privata entra in una forte crisi. La classe politica italiana, la classe imprenditoriale e le parti sociali non riescono a rispondere in modo efficace a questa crisi, e l'Italia esce dai grandi settori industriali quali la chimica, l'elettronica di consumo, l'informatica, l'aeronautica e altre importanti industrie come quella dell'auto entrano in crisi. La grande industria continua, nel corso degli anni, a ridurre il suo peso. Anche le grandi privatizzazioni degli anni 90 non producono l'effetto sperato. I grandi gruppi privati italiani usano l'acquisto delle imprese pubbliche come Telecom, autostrade ecc per posizionarsi su mercati protetti, ricchi di rendite monopolistiche, invece di investire in settori aperti alla concorrenza, dove si tratta soprattutto di investire in ricerca e innovazione.
      Da quel momento in poi, le prospettive di crescita e di penetrazione dell'Italia nei mercati internazionali è stata affidata quasi esclusivamente all'industria leggera, che, nel frattempo, si è organizzata in distretti industriali. I distretti industriali sono stati, e ancora continuano ad essere, la vera forza del made in Italy. Basta pensare che essi impiegano circa il 45 per cento dell'occupazione complessiva del settore manifatturiero italiano e che circa il 40 per cento delle imprese italiane opera all'interno di forme di «condensazione» e di «rete» riconducibili ai distretti industriali. Il 46 per cento dell'export di prodotti manufatti proviene dai distretti. Alcuni di questi distretti, come le ceramiche

 

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di Sassuolo o le calze da donna di Castel Goffredo in provincia di Mantova detengono quote di mercato dell'ordine del 35-40 per cento sui mercati mondiali. Molti distretti presentano quote di mercato mondiale intorno al 10-15 per cento del loro settore di attività. Sotto questo punto di vita i distretti industriali, presi nel loro insieme, rappresentano una forza economica paragonabile a quella dei grandi gruppi industriali o di vere e proprie multinazionali.
      Dei punti di forza dei distretti industriali si è parlato molto in questi anni. Essi sono rappresentati dalla marcata flessibilità delle strutture produttive dalla vicinanza e dalla collaborazione tra imprese all'interno delle catene di produzione, dai rapporti reticolari tra imprese, da un'organizzazione originale della divisione del lavoro e da una forza lavoro qualificata in grado di sostenere continue innovazioni di processo. I distretti industriali, tuttavia, presentano anche notevoli i punti di debolezza che stanno emergendo con drammaticità adesso che la sfida competitiva nei mercati mondiali è diventata estremamente agguerrita. Essendo aggregazioni spontanee di imprese, per lo più di piccole dimensioni, i distretti sono privi di strategie d'indirizzo e di guida per crescere, rinnovarsi e conseguire maggiore apertura verso dimensioni sopranazionali. E inoltre, le imprese distrettuali, essendo piccole, hanno oggettive difficoltà a raggiungere i mercati di sbocco ad alta crescita potenziale e hanno forti limiti nella capacità di esprimere cambiamenti radicali e innovazioni che emergono al di fuori della traiettoria tecnologica esistente. Sicuramente, se consideriamo la debolezza strutturale di un sistema paese in cui i costi derivanti dai trasporti, dall'energia, dalle telecomunicazioni, dagli adempimenti burocratici, dalla fiscalità ecc. sono più alti in Italia che negli altri paesi europei e negli Stati Uniti, le piccole imprese esportatrici hanno mostrato un dinamismo eccezionale. Adesso che la globalizzazione dei mercati e l'emergere di nuovi, temibili concorrenti la situazione è diventata però particolarmente difficile.
      Il problema fondamentale è che i distretti industriali e, più in generale, il sistema produttivo italiano, sono fortemente sbilanciati verso quell'industrializzazione leggera di cui parlavamo più sopra. Più specificamente, per usare la tassonomia di Pavitt (1984) l'industria italiana è specializzata: i) nei beni di consumo tradizionali per la persona e per la casa (tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria, articoli sportivi, utensili domestici, elettrodomestici bianchi, materiali da costruzione, gioielleria, alcuni comparti alimentari) che dipendono da innovazioni tecnologiche generate, per lo più, altrove; ii) nelle attrezzature meccaniche e nella componentistica specializzata, particolarmente legata alla produzione di beni di consumo, con una spiccata capacità di adattamento dell'offerta alle esigenze della clientela. Corrispondentemente, malgrado poche eccezioni, l'Italia mostra una sostanziale debolezza negli altri due macrosettori di Pavitt: iii) i settori ad altra intensità di ricerca e sviluppo, generatori netti di ricerca tecnologica, che poi si riversa nel resto del sistema (computer, componentistica elettronica, telecomunicazioni, chimica fine e farmaceutica, meccanica di precisione, aerospazio, biotecnologie) iv) settori a forti economie di scala (chimica di base e per il largo consumo, metallurgia, autoveicoli, elettronica di consumo, software ecc.). Come abbiamo detto precedentemente, in questi due ultimi macrosettori l'Italia aveva raggiunto, verso la fine degli anni sessanta, una presenza significativa e un buon patrimonio tecnologico che è stato poi dissipato nei decenni successivi.
      Il problema è che anche in questi ultimi anni in cui la crisi si è fatta più intensa, l'Italia non mostra alcuna inversione di tendenza. Negli ultimi anni, l'Italia ha mantenuto o aumentato la sua specializzazione nei primi due comparti e ha diminuito la sua già scarsa quota negli altri due. Ciò è in qualche modo comprensibile, dati i costi rappresentati dalla riconversione, ma è in netto contrasto con quanto sta avvenendo in altri paesi, come la Francia e la Spagna in cui è possibile
 

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notare un processo inverso: una diminuzione significativa del contributo dei settori tradizionali al prodotto interno lordo, e un aumento del peso dei settori di scala e ad alta tecnologia.
      Al particolare modello di specializzazione dell'economia italiana sono legate altre tre importanti debolezze del nostro paese: a) il nanismo delle imprese italiane, b) la bassa presenza di manodopera qualificata, c) una struttura proprietaria chiusa e non contendibile, incentrata sul controllo familiare. Bastano qui pochi dati: in Italia la percentuale della produzione nell'industria manifatturiera nelle imprese con più di 250 dipendenti è il 42,6 per cento contro il 63,7 per cento della media europea e il 70,5 per cento della Germania; le micro imprese fino a 9 addetti il Italia impiegano il 23,9 per cento degli addetti totali dell'industria manifatturiera contro il 14,6 per cento della media europea e il 9,5 per cento della Germania. Per quanto riguarda la qualificazione della manodopera, in Italia solo il 12 per cento della popolazione tra i 25 e i 34 anni ha un titolo universitario, contro il 19 per cento della Francia, il 25 per cento della Spagna e il 31 per cento degli USA. La particolare struttura del capitalismo familiare è evidente non soltanto dai dati sulle piccole medie imprese, ma anche da quelle delle grandi imprese. Basti pensare che per le imprese del campione Mediobanca, che rappresenta gran parte dei maggiori gruppi industriali italiani in gran parte quotati, la quota media di controllo detenuta dal maggiore azionista è dell'80 per cento.
      Quanto questi fattori siano la conseguenza del modello italiano di specializzazione industriale, e quanto la causa è ovviamente difficile a dirsi. Certo è che una struttura di piccole medie imprese in concorrenza monopolistica, che producono cioè prodotti fortemente diversificati, è una struttura ideale per imprese nei settori tradizionali e in quelli specializzati. Allo stesso tempo, essendo bassa l'intensità tecnologica, è bassa anche la domanda di personale altamente qualificato. La scarsa domanda di capitale umano da parte dell'industria italiana è ben evidenziata dal basso rendimento dell'istruzione universitaria che, in Italia è pari al 6,5 per cento, contro il 9,1 per cento in Germania, il 14,3 per cento in Francia e il 18,5 per cento nel Regno Unito, e anche dall'alta percentuale di emigrati dall'Italia con titolo di studio superiore (il 7 per cento contro il 3.9 per cento della Francia e il 2,6 per cento della Spagna)
      Accanto a questi problemi emergono altri tre importanti difficoltà del contesto in cui si trova ad operare il sistema produttivo italiano: a) l'esistenza di settori protetti, che godono di rendite significative nel settore soprattutto dei servizi di pubblica utilità, e cioè nei trasporti, nell'elettricità, dell'acqua delle comunicazioni, in cui si è cercato di innescare, negli anni passati, un processo di liberalizzazione che però ormai si è decisamente arrestato; b) un costo dell'energia superiore a quello dei nostri concorrenti europei, che è connesso ovviamente agli importanti monopoli che dominano questi settori, ma anche ad una politica energetica che sviluppi fonti alternative rispetto al petrolio; c) bassi investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, che ci vede, in Europa, tra i fanalini di coda e scarsa efficienza degli enti pubblici di ricerca; d) un costo eccessivo dei servizi alle imprese, in particolare dei servizi professionali che rappresentano, secondo una recente ricerca dell'Antitrust, tra il 4 per cento e il 7 per cento dei servizi alle imprese.

      2.3 I «mali» dell'economia italiana: il «lavoro che gira a vuoto».

      Il declassamento del mercato del lavoro italiano deve dunque leggersi anche e soprattutto come un giudizio sulla qualità e l'efficacia delle politiche di riforma tentate in questa legislatura che, anche laddove realizzate, non hanno sortito alcun effetto apprezzabile sull'economia reale.
      In particolare, a due anni dall'entrata in vigore della riforma, che avrebbe dovuto far sparire l'anomalia dei «co.co.co», riconducendo tali contratti alla sfera della subordinazione o del vero e proprio lavoro

 

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autonomo, nessuna variazione si è registrata nel ricorso a queste forme di parasubordinazione, che sono arrivate a far registrare circa 3 milioni e mezzo di iscrizioni alla gestione separata dell'INPS.
      L'introduzione del contratto a progetto, infatti, se poco ha innovato nella forma rispetto al vecchio contatto a collaborazione coordinata e continuativa, nell'immediato ha semmai determinato un disorientamento delle imprese che hanno esteso la pratica di imporre ai propri dipendenti l'apertura di partite IVA per mascherare quelli che a tutti gli effetti sono rapporti di lavoro subordinati o parasubordinati.
      Secondo un'analisi della Nidil-Cgil nel biennio 2003-04 i parasubordinati già iscritti alla Gestione INPS, che hanno aperto una partita IVA, sono saliti del 10 per cento, toccando le 300.000 unità. Per altro verso, le imprese non sembrano avere dimostrato grande interesse per le nuove figure contrattuali flessibili introdotte dalla legge n. 30, come rilevato da un'indagine condotta dall'Associazione Direttori Risorse Umane su un campione di 66 aziende con un totale di oltre 80.000 addetti.
      Più utile sarebbe stato introdurre istituti e strumenti a sostegno dei disoccupati, idonei a rendere sostenibile e meno traumatico il passaggio da un lavoro all'altro. Secondo quanto dichiarato dagli stessi imprenditori consultati nell'ambito dell'indagine sopra citata, «l'introduzione di una rete efficace di sostegno sociale, costruita su criteri premianti, potrebbe contribuire in modo rilevante a rendere il mercato più efficiente».
      Nel merito, il giudizio negativo sulle politiche del lavoro è tanto più rilevante in quanto il tasso di disoccupazione negli ultimi anni si è mantenuto decrescente (arrivando al 7,5 per cento secondo l'ultima rilevazione ISTAT), facendo parlare del «paradosso dell'occupazione senza crescita» o del «lavoro che gira a vuoto», secondo l'espressione del CENSIS.
      In realtà, la crescita dell'occupazione deve ritenersi almeno in parte riconducibile agli effetti di «trascinamento» di politiche adottate in epoche e contesti diversi. In particolare, a condizionare la performance occupazionale negli anni 2001-2004 sono stati verosimilmente:

          A. con riferimento agli anni 2001-2002, gli effetti «residui» del bonus automatico sui nuovi assunti (articolo 8 della legge n. 388/2000), particolarmente significativi nel Mezzogiorno, dove l'incentivo era maggiorato del 50 per cento rispetto al resto del Paese (1,2 milioni di lire per ogni nuovo assunto). Tali effetti devono ritenersi ormai pressoché esauriti, in conseguenza degli interventi successivi di «congelamento» e svuotamento delle risorse per il finanziamento dell'incentivo (decreto legge n. 194/2002 e leggi Finanziarie successive);

          B. con riferimento agli anni 2003-2004, gli effetti della regolarizzazione di circa 750mila lavoratori immigrati realizzata attraverso il decreto legge n. 195/2002, con una procedura di sanatoria, e dunque di corrispondente «immissione» dei nuovi lavoratori nella forza lavoro nazionale, che - avviata nel novembre 2002 - si è di fatto protratta per oltre un anno.

      Ma soprattutto, con riferimento all'intero periodo 2001-2005, i dati ISTAT dimostrano come il calo del tasso di disoccupazione non sia conseguenza solo dell'aumento degli occupati, ma anche e soprattutto della riduzione delle persone in cerca di occupazione.
      Si tratta in prevalenza di donne che vivono al Sud - secondo l'ISTAT - che avrebbero rinunciato a cercare lavoro, soprattutto per la difficoltà di sostenere economicamente il costo dei servizi all'infanzia. Lo dimostrerebbe l'incremento delle «non forze di lavoro», che ha riguardato soprattutto la componente femminile del Mezzogiorno (+ 100mila unità nel 2005), nell'ambito di una generale crescita della popolazione inattiva in età compresa tra i 15 e i 64 anni pari a 131mila unità.
      Gli squilibri si confermano anche sul piano territoriale.

 

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      Alla dinamica positiva delle regioni settentrionali (+1,4 per cento) e di quelle centrali, (+0,6 per cento) si è contrapposta la nuova discesa dell'occupazione nel Mezzogiorno (-0,8 per cento, pari a - 63mila unità). Gli effetti di questa divaricazione sono a dir poco vistosi: su 213mila occupati in più rispetto ad un anno prima, l'ISTAT rileva - nel secondo trimestre 2005 - 178mila nuovi occupati al Nord e, rispettivamente, appena 18mila e 17mila al Centro e al Sud.
      Il crescente divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord è stato segnalato anche dall'OCSE nell'Employment Outlook di quest'anno che evidenzia come l'Italia sia il Paese industrializzato che registra il maggior grado di disparità regionale con una differenza tra la regione con il minor tasso di disoccupazione (Trentino Alto-Adige, 2,6 per cento) e quella con il maggior tasso di disoccupazione (Calabria, 25,6 per cento) che arriva a toccare i 23 punti percentuali.

      2.4 I «mali» dell'economia italiana: aumenta il disagio sociale.

      Un più generale indicatore del disagio sociale del Paese è costituito dall' indice di povertà, come rilevato nell'ambito del Rapporto ISTAT su «La povertà relativa in Italia nel 2004». Secondo il Rapporto ISTAT, la povertà aumenta nel Mezzogiorno ed è in crescita tra le famiglie numerose e tra quelle con minori e anziani del Centro e del Sud. In particolare, nel Sud una famiglia su quattro è ormai povera. A livello nazionale, la povertà colpisce 2 milioni 674mila famiglie, pari all'11,7 per cento del totale, per un complesso di 7 milioni 588mila persone, che costituiscono il 13,2 per cento della popolazione.
      Ma è l'allargamento del divario territoriale ad allarmare.
      Nel Mezzogiorno la percentuale di famiglie povere è passata dal 21,6 per cento del 2003 al 25 per cento del 2004, mentre le famiglie indigenti composte da 5 o più persone segnano un passaggio dal 21,2 per cento al 23,9 per cento. La percentuale delle famiglie povere passa dal 4,7 per cento del Nord, al 7,3 per cento del Centro, fino a raggiungere nel Sud il 25 per cento. Le percentuali più elevate nel Sud si registrano in Sicilia (29,9 per cento) e in Basilicata (28,5 per cento).
      Per altro verso, la povertà colpisce di più le famiglie numerose, che superano i 5 componenti. In media quasi un quarto delle famiglie risulta povero, ma nel Sud la quota sale a oltre un terzo di quelle residenti. In genere è povero il 22,7 per cento delle coppie con tre o più figli e il 18,5 per cento delle famiglie con membri aggregati. Nel Mezzogiorno se i figli minori sono tre o più l'incidenza raggiunge il 41 per cento!
      Infine, la percentuale di famiglie povere è forte tra quelle con familiari esclusi dal mercato del lavoro: il 28,9 per cento tra le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione, il 37,4 per cento tra quelle con due o più componenti in cerca di lavoro. La condizione si aggrava se è scarsa la capacità di reddito degli altri componenti: tra le famiglie con almeno una persona in cerca di occupazione, l'incidenza è del 15,7 per cento quando la persona di riferimento è un autonomo, al 18,8 per cento se si tratta di un dipendente, mentre sale al 25 per cento nel caso in cui la persona di riferimento è in pensione.
      Notevoli le difficoltà anche per gli anziani.
      L'incidenza della povertà è del 15 per cento tra le famiglie con presenza di un componente con più di 64 anni, una percentuale che sale al 17,3 per cento quando in famiglia c'è più di un anziano. Qui il Nord, a fronte di un'incidenza media della povertà del 4,7 per cento, registra il 7,2 per cento delle coppie anziane povere e il 6,8 per cento degli anziani soli poveri. Anche in questo contesto, è la condizione delle donne a distinguersi negativamente.
      Sono donne l'83,8 per cento degli anziani poveri e soli e, ancora, sono donne l'83,2 per cento dei genitori single poveri.

 

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      2.5. I «mali» dell'economia italiana: il peso dell'economia sommersa.

      Lo scorso settembre l'Istat ha diffuso le stime, aggiornate al 2003, del Pil e dell'occupazione attribuibile alla parte di economia non osservata costituita dal sommerso economico.
      Nel 2003 il valore aggiunto prodotto nell'area del sommerso economico è compreso tra un minimo del 14,8 per cento del Pil (pari a circa 193 miliardi di euro) ed un massimo del 16,7 per cento (pari a 217 miliardi di euro) (Tabella 1). Nel 1992, la percentuale minima era pari al 12,9 per cento e la massima al 15,8 per cento (rispettivamente corrispondenti a circa 101 miliardi e a 124 miliardi di euro); nel 2001, la percentuale minima era pari al 14,2 per cento e la massima al 17,5 per cento (rispettivamente corrispondenti a circa 173 miliardi e a 213 miliardi di euro).
      Il maggiore o minore accostamento nel tempo delle due misure del sommerso (ipotesi minima e ipotesi massima) può essere spiegato anche dai comportamenti delle imprese che, in alcuni periodi, soprattutto in presenza di molteplici tipologie di condono, tendono ad usare forme di evasione diversificate.
      I dati evidenziano anche che negli anni successivi alle regolarizzazioni degli immigrati si riduce la parte di valore aggiunto sommerso attribuibile al lavoro non regolare, mentre crescono altre forme di evasione come, ad esempio, i fuori busta e/o l'utilizzo improprio di forme di lavoro a carattere atipico (che spesso celano forme di elusione delle norme contrattuali e previdenziali).
      I settori maggiormente coinvolti dall'irregolarità del lavoro sono quelli dell'agricoltura e delle costruzioni, dove il carattere frammentario e stagionale dell'attività produttiva ha consentito l'impiego di lavoratori stranieri non residenti e non regolarizzati; questi ultimi, ormai da diversi anni, sostituiscono la manodopera locale che tende progressivamente a fuoriuscire dai suddetti settori.
      Nel 2003, il tasso di irregolarità nel settore agricolo è stato pari al 32,9 per cento contro il 25,5 per cento del 1992.
      L'industria in senso stretto non utilizza in modo consistente personale irregolare. Nel 2003 il tasso di irregolarità nel settore è pari al 5,4 per cento, assai prossimo al valore del 1992 (5,7 per cento). Nel settore delle costruzioni l'incidenza percentuale delle unità di lavoro non regolari sul totale delle unità di lavoro si colloca invece su valori più elevati (12,5 per cento), sebbene in tendenziale riduzione rispetto sia al 1992 (14,2 per cento) sia al 1997 (16,2 per cento).
      Nel settore dei servizi il fenomeno è molto diffuso: nel 2003 il 14,5 per cento delle unità del settore risultano non regolari. Il fenomeno è più rilevante nel comparto del commercio, degli alberghi, dei pubblici esercizi e dei trasporti, dove il 15,2 per cento delle unità di lavoro risultano non registrate (15,6 per cento nel 1992). Nel comparto dei trasporti su strada, in particolare, il tasso di irregolarità è piuttosto elevato (33,9 per cento) e superiore anche ai valori del settore agricolo. In altri comparti produttivi la quota delle unità di lavoro non regolari è più modesta e stabile nel tempo, ma pur sempre elevata, come nel caso dell'intermediazione finanziaria e dei servizi alle imprese (14,1 per cento nel 2003).
      A livello territoriale il tasso di irregolarità è stato pari al 22,8 per cento nel Mezzogiorno mentre in tutte le altre circoscrizioni ha raggiunto livelli inferiori alla media nazionale (13,4 per cento): nel 2003 il tasso di irregolarità è stato pari al 12,3 per cento nel Centro, al 9,3 per cento nel Nord-Est e all'8,3 per cento nel Nord-Ovest. La Calabria è la regione che presenta il più alto tasso di irregolarità (31 per cento), la Lombardia quella con il tasso più basso (7,3 per cento). Nel complesso dell'economia, sono le regioni dell'Italia meridionale a registrare i tassi di irregolarità più elevati.
      I differenziali tra i tassi di irregolarità dipendono sia dalla diversa specializzazione produttiva di ciascuna area geografica, sia da una maggiore o minore pro

 

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pensione delle singole regioni ad impiegare lavoratori non regolari. Il Mezzogiorno, ad esempio, si caratterizza per tassi di irregolarità elevati nel settore agricolo, che ha maggior peso in questa area: nel 2003 circa il 41,1 per cento delle unità di lavoro sono irregolari; si registrano, inoltre livelli di irregolarità superiori alla media nazionale (32,9 per cento) in Calabria (50,8 per cento), Sicilia (42,4 per cento), Campania (42,6 per cento) e Puglia (41,7 per cento).
      Rispetto ad altre aree territoriali, il Mezzogiorno registra tassi di irregolarità relativamente elevati anche nel settore dell'industria in senso stretto (17,1 per cento rispetto al 5,3 per cento del Centro, al 2,2 per cento del Nord-est e al 2 per cento del Nord-ovest) e nell'attività edilizia (27 per cento rispetto al 12,3 per cento del Centro, il 3,9 per cento del Nord-Ovest e il 3,7 per cento del Nord-Est). Il settore delle costruzioni, in particolare, registra tassi di irregolarità superiori al 20 per cento in tutte le regioni del Mezzogiorno con l'eccezione della Sardegna (15 per cento). L'Emilia Romagna, invece, è la regione con il tasso di irregolarità più modesto nel settore (1,4 per cento).

3. Le Finanziarie del centrodestra.

      Nel giugno del 2001, quando si è formato il Governo Berlusconi, avete tentato di dimostrare che vi avevamo consegnato un'Italia in condizioni drammatiche sotto il profilo del deficit annuo in rapporto al PIL, sotto il profilo della finanza pubblica (il ministro Tremonti è andato in tutte le televisioni denunciando il famoso buco), sotto il profilo del grado di liberalizzazione dei suoi mercati. Ma non era così, la vostra iniziativa era infondata, perché non sostenuta da valutazioni tecnicamente attendibili. Piuttosto che affrontare la realtà si è preferito occultarla, iniziando a dissipare una buona eredità.
      Il parametro più elementare è quello che riguarda la crescita: nel primo semestre del 2001 l'Italia, che cresce del 2,3 per cento, recupera tutto il gap di crescita rispetto all'area dell'euro, con una sola voce negativa, quella del volume degli investimenti. Perché? Lo spiega il Governatore della Banca d'Italia nella sua audizione sulla vostra prima Finanziaria: eravamo in un trend di esplosione degli investimenti prima che si cominciasse a discutere della «Tremonti-bis». Ed ecco che gli operatori medi sospendono le decisioni di investimento, in attesa della certezza matematica di poter operare nel nuovo contesto normativo. Risultato. Effetto di depressione degli investimenti, spostamento del vantaggio competitivo a favore del Nord e contro il Sud.
      Dopo l'11 settembre 2001, tutti sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso e anche per l'Italia nulla sarebbe stato come prima. Il Governo non ha dimostrato di esserne consapevole e nel corso degli anni ha ripetutamente che tutto andava bene. Insomma, la vostra prima Finanziaria è stata di tono minore. Una legge Finanziaria sostanzialmente ininfluente, di ordinaria amministrazione in un contesto di assolta straordinarietà, imperniata sui temi come le pensioni (per aumentare quelle minime a 516 euro andando in giro dicendo che sette milioni di persone avrebbero avuto l'aumento e poi far scoprire a cinque-sei di quei setti milioni di persone che non era vero niente) o come l'IRPEF (piccoli aumenti di detrazioni).
      Avete fatto il minimo indispensabile sancendo, di fatto, l'inizio delle recessione!
      Con la successiva Finanziaria si inizia ad assistere alle forzature regolamentari: dilatazione dei contenuti normativi, i dati vengono forniti solo parzialmente e non permettono la ricostruzione degli effetti della manovra sul fabbisogno, forzature procedurali nella presentazione di emendamenti (non più in Commissione bilancio ma direttamente in Aula). La non presentazione del quadro tendenziale da parte del Governo ha costituito una grave carenza e ha posto un'altra questione di metodo che la ritroviamo anche quest'anno: si compromette la trasparenza delle linee strategiche di politica economica

 

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e finanziaria che il Governo si propone di attuare.
      Sono stati i primi precedenti molto negativi, che hanno costituito un elemento di «rottura» del percorso di razionalizzazione delle procedure ed hanno posto una ipoteca sulla qualità normativa di tutte le altre Finanziarie che si sono succedute.
      Ma i precedenti non finiscono qui. Non era mai accaduto, infatti, che si impiegassero i miglioramenti del risparmio pubblico (3,2 miliardi) a copertura degli oneri correnti. Viene fornito uno scarso contributo al riequilibrio strutturale dei conti pubblici. Le maggiori entrate, principalmente di natura «una tantum», sono realizzate prevalentemente attraverso l'emersione di attività detenute all'estero ed il concordato di massa, cui si aggiungono altre misure temporanee minori (adeguamento delle esistenze iniziali di magazzino e chiusura delle liti fiscali pendenti).
      Il concordato con adesione viene modellato sul precedente concordato di massa del 1994, che rivela come la fantasia non sembra essere la qualità principale del Governo di centrodestra, che ripropone, in ogni situazione, sempre le stesse ricette.
      Gli sgravi fiscali per le famiglie vengono annunciati come il primo modulo di una più vasta riforma fiscale che, come è noto, rappresenta la parte più rilevante del programma elettorale del centrodestra. Dopo il sostanziale rinvio del precedente anno, lo sgravio fiscale proposto, appare molto al disotto delle promesse elettorali, e sconta per il 2003 le riduzioni fiscali operate dal centrosinistra e sospese dall'attuale Governo. Prosegue l'attacco forsennato all'Irap, un'imposta che ad oggi non siete ancora riusciti a modificare.
      Gli sgravi fiscali per le ristrutturazioni edilizie, misura introdotta dal centrosinistra e prorogata ripetutamente, vedono comparire alcune limitazioni rispetto alla originaria misura: si riduce l'importo massimo delle spese ammesse a detrazione (da 77 a 40.000 euro) e non si proroga il regime di IVA agevolato al 10 per cento. Anche in questo caso vengono prorogate misure del centrosinistra, che evidentemente hanno prodotto risultati positivi, introducendo modifiche peggiorative.
      Gli interventi sulla spesa, che rappresentano la parte più rilevante delle disposizioni che formano il disegno di legge finanziaria, forniscono questa ricostruzione: gran parte delle risorse sono concentrate nel terzo anno del bilancio pluriennale, di cui è nota la scarsa significatività. Inoltre le nuove risorse nette dopo le rimodulazioni, il rifinanziamento e gli emendamenti approvati dalla Camera, ammontano a soli 106 milioni di euro nel 2003, cui si aggiunge nel 2004 una riduzione importante delle risorse esistenti (tabella F), pari a 2,6 miliardi di euro.
      Le nuove risorse per il Fondo di rotazione subiscono, rispetto alla manovra finanziaria precedente, una riduzione di circa 900 milioni di euro, pari all'11,6 per cento, che non sembra coerente, neppure formalmente, con il Patto per l'Italia. Il quadro delle risorse aggiuntive per le aree depresse appare dunque molto modesto. È istituito un Fondo per le aree sottoutilizzate, accentuando però un processo in senso dirigistico e centralistico, provocando il blocco degli interventi.
      Con la Finanziaria 2004, si allarga la stagione nera dei condoni (rientro capitali, condono fiscale, condono edilizio), e si aggravano le condizioni già viste. Sul fronte degli interventi in materia previdenziale e sociale si ripropongono le vecchie promesse e, intanto, crescono i dati sulle nuove povertà; proseguono i blocchi alle assunzioni nel settore scuola, università e ricerca che si connota per la genericità e demagogia di alcune nuove misure - peraltro di modesto contenuto finanziario - e per la sostanziale carenza di risorse e misure strutturali indispensabili per la funzionalità generale del sistema; il Mezzogiorno è dimenticato facendo mancare, per intero, uno dei temi cruciali per la credibilità ed efficacia delle politiche economiche e finanziarie (nessun obiettivo economico o di finanza pubblica nazionale può infatti prescindere dal grado di dinamismo e reattività dell'economia meridionale),
 

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anzi si assiste allo smantellamento degli strumenti di sviluppo sperimentati; le infrastrutture rimangono in mezzo al guado dopo una prima parte di legislatura caratterizzata da una straordinaria enfasi sui programmi di investimento infrastrutturale; la sfida della competitività e dell'innovazione è affidata alla politica degli «incentivi di carta» (detassazione degli investimenti in ricerca, la c.d. Tecno-Tremonti ed il «rientro dei cervelli»)
      Per il 2005, tutta la manovra è resa prigioniera di una promessa populistica, ed un modesto ritocco delle aliquote IRE per una cifra che non raggiunge lo 0,4 del PIL, di per sé incapace di avere qualsiasi effetto macroeconomico, concentrata sui ceti a più alto reddito della popolazione, viene pagato da un aggravio di una miriade di altre forme di imposizione fiscale e da un taglio di servizi e trasferimenti a imprese e famiglie.
      Scompare dall'orizzonte un pensiero robusto sul futuro del paese; l'espressione «investimenti» (in infrastrutture, in miglioramento del capitale fisso del paese, in sapere e formazione) scompare dall'agenda del Governo.
      Dinnanzi a questa sequenza di modeste politiche per lo sviluppo stanno ben più robuste politiche depressive. In questi numeri e in questi risultati sta la cifra del vostro fallimento e la ragione per cui oggi, a fronte di una pesantissima stagnazione, accompagnata finalmente da timidi segni di ripresa che andrebbero incoraggiati, potete mettere a disposizione per le politiche di sviluppo solamente tre miliardi di euro o poco più, per la riduzione di un punto del cuneo fiscale (da quanto tempo lo chiediamo) e per interventi a favore delle famiglie, finanziati per un solo anno.
      Soprattutto a rendere inadeguata l'attuale manovra ci sono i grandi assenti: politiche serie per l'innovazione e la ricerca (nessun nuovo strumento viene messo in campo per il 2006 e si limitano gravemente gli stanziamenti esistenti); politiche inadeguate per il Mezzogiorno, confermando l'interruzione di interventi che avevano nella legislatura dell'Ulivo consentito performance eccezionali, e soprattutto la mancanza di quelle riforme a costo zero essenziali per il recupero della competitività paese. Per consolidare la nostra fragile ripresa sarebbe necessario intervenire su quella vasta area di rendita e diffuse inefficienze nel campo dei servizi che appesantiscono i costi del nostro sistema produttiva. Non c'è nulla.
      È davvero troppo lungo l'elenco delle cattive opere e delle omissioni e l'unica misura positiva, almeno nella direzione proposta, è la riduzione del costo del lavoro, peraltro numerose volte richiesta come indispensabile dal centrosinistra. Si tratta però di una misura insufficiente, perché occorrerebbe una rimodulazione dell'intervento in senso più incisivo, così come proposto negli emendamenti dei gruppi di opposizione che non ha avuto alcuna attenzione da parte del Governo.
      Destino riservato anche alle numerose proposte che si collocavano in un orizzonte di crescita, di sviluppo, di occupazione e di equità.
      Insomma, in una situazione di forte crisi e di scarsità di risorse, era richiesta, forse più di ieri, una particolare attenzione nel selezionare alcune priorità e nell'intervenire con progetti mirati, concreti ed efficaci, in grado di risolvere problemi e ridare slancio.
      Anche quest'anno il risultato è invece l'opposto. Nessun intervento risolutivo, e soprattutto ulteriori disparità tra le diverse aree del Paese.

4. La manovra 2006: un'analisi generale.

      4.1. Procedure caotiche e mancanza di trasparenza.

      Come negli ultimi anni, anche questa sessione di bilancio è proceduta in modo disordinato con un susseguirsi di promesse, annunci, emendamenti, più o meno maxi, voti di fiducia, forzature procedurali, scarsa attenzione e considerazione delle proposte emendative dell'opposizione che hanno confermato, per l'ennesima volta, un modo di procedere caotico e non trasparente.

 

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      Di questo vostro modo di procedere ne ha risentito non tanto il lavoro dell'opposizione, abituata a seguire i lavori parlamentare con una certa accortezza, ma soprattutto gli osservatori esterni, nazionale ed internazionali, quelli che tecnicamente si chiamano «portatori di interessi» che si avvantaggerebbero nell'avere documenti di bilancio chiari, leggibili, attendibili. I cittadini e gli utilizzatori della Finanziaria saranno in grado di valutare da soli la pessima qualità legislativa di una normazione che procede a colpi di maxi emendamenti.
      Al contrario si conclude una sessione di bilancio caratterizzata da una sovrapproduzione micidiale di ordini e contrordini che ha creato seri problemi proprio alla qualità dei documenti di bilancio e del lavoro di esame delle commissioni parlamentari. È una critica che rivolgiamo confortati dalle osservazioni che ha fatto la Corte dei Conti nella relazione effettuata nel corso delle consultazioni in Commissione bilancio: «le limitate informazioni sui criteri di costruzione dello scenario tendenziale precludono sostanzialmente una verifica del grado di attendibilità delle stime governative».
      A generare incertezza sulla finanza pubblica concorre anche la mancanza di trasparenza. La questione del tendenziale sollevata dalla Corte dei Conti è solo un esempio. Ben si comprende allora perché nel comunicato conclusivo della missione del Fondo monetario internazionale, diffuso il 2 novembre, si affermi che «L'analisi delle tendenze e delle prospettive del bilancio è gravemente ostacolata da una mancanza di trasparenza di lunga durata (...) La presentazione del bilancio è ben al di sotto degli standard di trasparenza dei paesi industrializzati e necessita urgentemente di miglioramenti».
      La responsabilità della trasparenza della politica fiscale e della politica di bilancio è certamente nelle mani del Governo e, in particolare, del ministro dell'Economia e del suo braccio operativo, la Ragioneria generale dello Stato. Se viene meno questa responsabilità, la sua mancanza danneggia tutti, Governo e Parlamento, opposizione e maggioranza.
      Il luogo più ovvio dove l'opinione pubblica può verificare la bontà delle scelte di politica economica che un Governo compie è e resta il Parlamento, il cui lavoro non va svilito a mero ratificatore di scelte altrui, per di più sotto intimidazione del voto di fiducia.
      Il nostro giudizio complessivo, pertanto, è negativo perché raramente nel passato è stata presentata una legge Finanziaria dai contorni così incerti.
      Uno dei pochi punti fermi è costituito dall'obiettivo di riduzione del disavanzo, 11,5 miliardi di euro, in linea con gli impegni assunti in sede europea che prevedono un calo progressivo del rapporto indebitamento/Pil al 3,8 per cento nel 2006 e al 2,8 per cento nel 2007.
      Questi risultati sono raggiungibili?
      Le stime più recenti del Fondo monetario internazionale indicano che il disavanzo tendenziale - prima quindi degli interventi correttivi previsti dalla legge finanziaria - si attesta al 5,1 per cento del Pil, quasi 6 miliardi in più di quelli previsti dall'esecutivo. Nel 2006, quindi, quando anche la manovra avesse pieno successo, il disavanzo si attesterebbe al 4,3 per cento, ben al di sopra dell'obiettivo del 3,8 per cento.
      Ciò comporta che nella prossima legislatura, il prossimo Governo avrà l'onere di scegliere se attuare una manovra assai consistente sul fronte della riduzione del disavanzo, oppure contravvenire gli impegni con l'Europa. L'eredità lasciata al prossimo esecutivo da questa Finanziaria sarà quindi ancora più pesante.
      Più volte è stato ripetuto che l'esecutivo non avrebbe fatto ulteriore ricorso a misure tampone, di natura temporanea. In questo senso vanno anche i nostri impegni con la Commissione europea. Nella Finanziaria dello scorso anno, oltre alla seconda rata del condono edilizio, la principale una tantum è stata il Fondo immobili pubblici (FIP). Ci aspettavamo, quindi, che a partire dal 2006, incassati gli introiti delle vendite immobiliari, fosse la spesa in conto capitale a registrare una forte impennata.
 

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Ma così non è, cosicché anche per il 2006 non cambia nulla rispetto al passato e nuovamente parte della copertura della manovra (5-6 miliardi) è assicurata da operazioni di questo tipo.
      Ma operazioni «spot» di breve durata garantiscono l'adeguatezza delle coperture finanziarie?

      4.2. Le coperture a rischio.

      (Le entrate da vendite di immobili).

      Vorrei ricordare che Il Consiglio europeo straordinario di Lisbona, tenutosi nei giorni 23 e 24 marzo 2000, nacque dalla volontà di imprimere un nuovo slancio alle politiche comunitarie, in un momento in cui la congiuntura economica era la più promettente da una generazione per gli Stati membri dell'Unione europea.
      Occorreva, pertanto, adottare provvedimenti a lungo termine in questa prospettiva. Quella che a tutti è nota come «agenda di Lisbona». A cinque anni dal varo delle strategia di Lisbona, trascorso invano più di un quinquennio, nella legge Finanziaria si stabilisce che le erogazioni dall'istituendo Fondo innovazione (Agenda di Lisbona appunto) «sono operate esclusivamente sul presupposto dei maggiori proventi rispetto alle previsioni di bilancio per l'anno 2006», derivanti da operazioni di dismissione di immobili nel limite massimo di 3 miliardi per il 2006.
      Sembra che ciò significhi una cosa molto semplice. Il Fondo innovazione, uno dei principali interventi per essere più competitivi, potrà essere finanziato solo se (e nella misura in cui) si realizzeranno gli incassi da immobili. Se questi ultimi non dovessero arrivare (e non è da escludere, se si ricorda che il bilancio per il 2005 prevedeva da questa fonte 8 miliardi, dei quali finora sembra sia arrivato poco o nulla), occorrerà o no reperire in altro modo questo ammontare oppure ci si dovrà rassegnare a retrocedere nelle classifiche sulla competitività e l'innovazione?
      Visto che avete fatto diventare le entrate da dismissioni di immobili una componente fondamentale degli equilibri di finanza pubblica, non sarebbe il caso di fornire al pubblico e al Parlamento qualche informazione sul grado di realizzazione della previsione fatta per il 2005 (8 miliardi), e sui programmi di vendite che si intende mettere in cantiere nel 2006?
      Peraltro, l'insuccesso di Scip2 (per la quale in aprile si è dovuto ristrutturare il debito, visto l'andamento negativo delle vendite) fa sì che una nuova operazione di cartolarizzazione sarebbe difficile da collocare sui mercati se non riconoscendo un elevato premio di rischio agli investitori.

      (La regolazione dei flussi di Tesoreria).

      Un'altra parte importante della copertura è garantita dalla «regolazione dei flussi di Tesoreria». Questi limiti di cassa si tradurrebbero in una minore spesa, nel 2006, per l'Anas, per il Fondo innovazione tecnologica e per le contabilità speciali di Tesoreria.
      Naturalmente, la minor spesa nel 2006 sarebbe compensata da una maggiore spesa negli anni successivi: secondo la Relazione tecnica 400 milioni nel 2007, 500 milioni nel 2008 (e, si deve presumere, la parte restante negli anni successivi).
      In passato si è spesso fatto ricorso a misure di questo tipo come extrema ratio per comporre manovre di metà anno, talvolta questi limiti hanno funzionato solo parzialmente e sono stati superati da deroghe. Insomma qualche dubbio sulla loro efficacia lo abbiamo.
      Ma il punto più importante è un altro. Nella presentazione della manovra è stata molto sottolineata la distinzione tra misure strutturali e misure una tantum. Le entrate una tantum, si è detto, sarebbero solo quelle da dismissioni. L'imposizione di limiti di cassa non è forse la più classica delle una tantum?

      (Le minori spese).

      Con il taglio ai consumi intermedi (gli acquisti di beni e servizi) per 1,5 miliardi - una riduzione superiore al 10 per cento della spesa per questa voce - siamo alla riproposizione di una politica di bilancio

 

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iniziata con il decreto taglia-spese del 2003 e proseguita con la regola del tetto del 2 per cento della Finanziaria 2005.
      Cosa ci dicono le prime risultanze di queste scelte?
      A giudicare dai risultati esposti dalla Corte dei Conti per il primo semestre 2005, siamo di fronte ad esperienze non particolarmente esaltanti: «rispetto all'anno precedente le erogazioni di cassa per i consumi intermedi dei ministeri sono cresciute del 10 per cento e per gli investimenti del 9,3 per cento».
      Il punto vero è che senza una verifica della loro effettiva sostenibilità, la successione di tagli ai consumi intermedi si traduce in interventi puramente finanziari, non accompagnati da modifiche delle determinanti della spesa, della struttura e dell'organizzazione dei centri di spesa coinvolti.
      Poiché avete imposto dei tagli, ma i risparmi non si sono realizzati, ciò che lasciate in eredità, in fondo, sono i famosi stanziamenti per il ripiano di debiti pregressi delle amministrazioni centrali (170 milioni nel 2006 e 200 milioni negli anni successivi), una fattispecie che non eravamo più abituati a vedere, se non per le amministrazioni locali.
      Per questi motivi non si possono che condividere le preoccupazioni espresse a questo riguardo dalla missione del Fondo monetario internazionale: «Siamo preoccupati che la dinamica della spesa pubblica in Italia comprometta il raggiungimento dell'obiettivo di deficit nel 2006».
      I tagli alla sanità (2,5 miliardi) e agli enti locali (3,1 miliardi) sono invece certamente realizzabili nell'immediato, in quanto agiscono direttamente sui trasferimenti dal bilancio dello Stato.
      Qui la questione riguarda la loro congruenza e soprattutto la loro sostenibilità. A quanto pare, anche nel 2005 la sanità produrrà un disavanzo sommerso (di circa 4 miliardi). Il taglio per il 2006 andrebbe, quindi, a incidere sulla proiezione di una spesa che già nel 2005 si è rivelata insufficiente. Quali meccanismi sono stati adottati per impedire il formarsi di un nuovo disavanzo sommerso nel 2006?
      Per quanto riguarda la finanza regionale e locale, tutta la manovra è frutto di improvvisazione. Bisogna certamente intervenire sulla spesa locale, ma è difficile pensare di poter realizzare obiettivi così ambiziosi comunicandoli a Regioni ed enti locali solo quarantotto ore prima della presentazione in Parlamento della Finanziaria.
      Chi è stato chiamato ad amministrare enti locali, più o meno piccoli, sa bene quanto la situazione economica sia difficile e caratterizzata da squilibri di finanza pubblica, caduta di competitività del sistema produttivo e bassi livelli di crescita. In questa legislatura il livello di collaborazione tra Governo, Regioni ed Enti locali è stato molto basso e questo ha impedito di «fare sistema». Con i tagli della Finanziaria 2006, il Governo ha deciso di impoverire i Comuni, le istituzioni locali, che vuol dire impoverire i cittadini e le famiglie. E se continua così, se non affronteremo le emergenze, se mancheranno risposte adeguate è facile prevedere che nelle nostre città andremo incontro ad un periodo di maggiori tensioni e conflitti sociali.
      È finita? No!
      Non è finita perché nelle nostre città c'è un'emergenza sociale drammatica che si chiama casa, si chiama sfratti e nella Finanziaria - al di là del solito annuncio illusionistico di 500 mila case in più - non c'è nessuna politica di rilancio degli investimenti per realizzare alloggi decenti ad affitti decenti.
      C'è invece la riduzione del Fondo di sostegno per le famiglie disagiate, dopo che negli anni scorsi era già stato decurtato del 48 per cento. E come non ricordare il definanziamento del Fondo nazionale per le politiche sociali dal quale mancano la bellezza di 518 milioni di euro, per la gioia e la tranquillità degli anziani soli, bisognosi di assistenza che vivono nei nostri Comuni.
      Anche su un tema delicato, come quello della sicurezza, o meglio dell'insicurezza dei cittadini, questa Finanziaria interviene pesantemente portando a regime i tagli alle forze dell'ordine già
 

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operati dalla Finanziaria scorsa. Per tutta risposta al tema della lotta alla criminalità, si fanno mancare, in una misura che va dal 20 al 30 per cento, le risorse per i consumi intermedi connessi all'attività di polizia, si riducono di un ulteriore 10 per cento le risorse per le missioni operative, vengono soppresse le norme che consentono spese per ricoveri e cure per cause di servizio e, sul versante degli organici, si consente solo una minima copertura del turn over determinando, per la prima volta nella storia della Polizia di stato, la perdita di numerosi posti di lavoro già esistenti.
      Come non ricordare, infine, la cessazione dei trasferimenti erariali, a decorrere dal 2007, in favore della Consob, dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, in pratica tutte le Istituzioni più autorevoli di questo Paese che potranno essere finanziate integralmente dal proprio «mercato di competenza», ridimensionando di fatto e limitando drasticamente l'indipendenza e la terzietà delle Authorities.

      (Il decreto legge sulle misure fiscali e tributarie).

      Sulla genesi di questo decreto, che sembra connotarsi più come uno «scollegato» alla Finanziaria, abbiamo assistito a delle forzature procedurali con la presentazione di maxi emendamenti che hanno impedito ai colleghi del Senato un esame serio delle clausole di copertura.
      Su un punto c'è certezza: gli interventi per il 2005 recati dal decreto legge - che corrispondono in larghissima parte a quelli previsti dal decreto legge n. 211/05 - sono la riprova che i conti del 2005 non erano in regola. Non solo, ma gli interventi previsti dal decreto concorrono al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica anche per il 2006, derivanti in larga misura da provvedimenti di carattere fiscale, affiancati da una serie di interveti di «collegio» che hanno il sapore di una mancia elettorale.
      Tra i tanti interventi di questo tipo, se ne cita solo uno da portare ad esempio: si autorizza un contributo quindicennale di un milione di euro in favore dell'ANAS «per la realizzazione di lavori di raccordo stradale». Non è una svista, non si parla al plurale, di raccordi stradali, vale proprio il singolare. Con questa norma, infatti, non si precisa se i lavori per i quali si dispone il finanziamento sono riferiti ad uno specifico tratto stradale oppure ad una genericità di interventi. Evidentemente di raccordo stradale se ne farà uno, aprendo il concorso per sapere chi è il potente di turno che, dietro questa forma anonima, ha ottenuto per il proprio collegio il finanziamento, al di fuori di ogni programmazione, di un raccordo stradale. Al di là del folclore negativo che si accompagna a questa infarcitura de decreto di norme localistiche, entrando nel merito del decreto legge, sono da sottolineare alcuni aspetti.

      (Lotta all'evasione e riforma della riscossione).

      Una quota di copertura della manovra deriva per 625 milioni di euro (946 nel 2007 e 1.278 nel 2008) da strumenti di contrasto all'evasione e dalla riforma del sistema di riscossione, che prevede il passaggio della titolarità di tale attività dai concessionari privati a una società per azioni, la Riscossione spa, di proprietà pubblica.
      Secondo le stime della relazione tecnica, la ripubblicizzazione della riscossione dovrebbe avere (ipso facto?) l'effetto di permettere l'estensione a tutto il territorio nazionale delle performance che il regime attuale raggiunge solo nelle zone di eccellenza, garantendo, a regime (e cioè dal 2008), un incremento di gettito pari a 780 milioni. Seicento milioni di finanziamento della manovra finanziaria per il 2006 dipendono, quindi, in larga parte, dalla credibilità dell'ipotesi di un aumento di produttività nell'accertamento fiscale e nella riscossione. È un'ipotesi fondata o ha piuttosto il sapore di una scommessa?

 

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      (Le maggiori entrate).

      Maggiori entrate proverrebbero da misure tampone: dalla svalutazione dei crediti delle banche, dalla rivalutazione dei beni di impresa, da giochi e scommesse.
      Sulla partecipazione degli enti locali all'accertamento delle imposte erariali e sulle misure di contrasto dell'evasione (nel complesso a quest'ultima voce si possono attribuire circa 650 milioni) vale quanto scritto prima: misure indefinite e dagli effetti a dir poco incerti.
      Non ha certamente migliorato il quadro il dibattito in Commissione Bilancio che ha determinato nuove fonti di entrate, tra cui la cosiddetta Porno Tax, su cui esistono ancora forti perplessità in relazione alla sua portata. Lo stesso presidente della Commissione ha dichiarato nel corso del dibattito la presenza all'interno dello stesso Ministero dell'Economia di due diverse e opposte valutazioni riguardo al gettito di questa nuova tassa.
      Certo, ci aspettavamo di trovarci di fronte ad un provvedimento dalle caratteristiche di omogeneità di materia, un intervento da affiancare alla manovra come collegato, mentre nel decreto si spazia su argomenti che nulla hanno a che fare con il titolo del decreto, senza far riferimento poi alle caratteristiche di improrogabilità ed urgenza.
      Molte materia hanno una sola urgenza, quella della maggioranza di perdere consensi nel Paese e quindi della necessità di infarcire il decreto di norme di carattere clientelare, microsettoriale.
      Ma davvero pensate così facendo di aumentare il vostro tasso di consenso nel Paese? Forse sottovalutate che i cittadini italiani hanno una maggiore serietà di quella che i loro rappresentanti pensano che essi abbiano.

      4.3. Le nuove spese.

      A fronte di un quadro di copertura finanziaria incerto, si decidono nuove spese. Tra queste, c'è la novità degli «oneri inderogabili» (una new entry per la legge Finanziaria) per 4,5 miliardi, che includono misure che vanno dalla proroga di agevolazioni fiscali ai forestali della Calabria, dagli autotrasportatori alla vice-dirigenza. C'è da chiedersi però a cosa si riferisca l'inderogabilità di tali oneri.
      La parte restante (6,5 miliardi) è la «parte straordinaria» che riguarda il piano dello sviluppo e per l'equità, con misure che vanno dalla riduzione del costo del lavoro (cuneo contributivo), ai sussidi per la natalità, ai distretti industriali.
      La retorica della «Finanziaria per lo sviluppo» rischia di costare molto cara in termini di equilibrio dei conti, peraltro con effetti molto dubbi sulla crescita economica che non si sostiene aumentando l'incertezza sul futuro. Maggiori vantaggi per l'economia verrebbero se si decidesse seriamente di ridurre il disavanzo e si riuscisse a farlo.
      Forse l'unica misura positiva, almeno nel senso della direzione proposta, è la riduzione del costo del lavoro. Sono anni che il centrosinistra ha segnalato questo intervento come indispensabile. A distanza di anni, dopo vani tentativi di ridurre l'imposta IRAP, è un bene vedere che è stata adottata la scelta di ridurre di un punto il cuneo contributivo. Sull'intensità della riduzione abbiamo forti perplessità, perché la riduzione sarebbe stata più efficace se fosse stata di almeno 3 punti (1,5 per le imprese e 1,5 per il lavoro). E non si dica che non ci sono risorse. Le risorse ci sono se si ammette che la riforma fiscale sull'IRE, non avendo inciso né sui consumi, né sugli investimenti, è stato un errore al qual porre rimedio. Poiché la riduzione di un punto della pressione fiscale sul lavoro costa circa 2 miliardi di euro, ridurla di 3 punti costerebbe 6 miliardi di euro. Ed è proprio la cifra che con cui è stato coperto il secondo modulo di riforma fiscale IRE.
      La legislatura, quindi, si chiude con una legge finanziaria in cui sono assenti le parole IRE e IRAP. È l'ammissione dell'esigenza di una svolta tardiva rispetto al tema dominante della politica economica dei quattro anni precedenti, il famoso «meno tasse per tutti».

 

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      Certamente il tema dei distretti industriali rappresenta una delle poche misure degne di nota della manovra. Dei distretti industriali in realtà si parla già da anni, vi sono anche studi approfonditi, alcuni distretti già esistono ed altri hanno già mostrato i loro limiti. Ma l'ottica in cui il tema dei distretti andrebbe affrontato meglio, ed in questo senso andranno apportati miglioramenti, sono le modalità in cui porre insieme parti comuni delle piccole e medie imprese che comportano nei processi di aggregazioni e di fusione problemi molto seri.
      Non è un caso che Paolo Sylos Labini, l'economista che più si è concentrato sulle tematiche dei distretti industriali, e di cui oggi, a pochi giorni dalla sua scomparsa, già sentiamo la mancanza, ha mostrato in un articolo de Il Sole24Ore del 15 novembre scorso la sua insoddisfazione per le scelte adottate dal Governo in materia di distretti industriali. Scelte che ha definito «frettolose», «confuse» e «deludenti» e che ha criticato perchè circoscritte al solo ambito nazionale e prive di aperture alle necessarie collaborazioni con l'Unione Europea per la definizione di un vero e proprio Piano Europeo per il rilancio industriale fondato sulla combinazione di infrastrutture alla Delors e di investimenti pubblici produttivi ed innovativi.
      Il concorso dello Stato alle spese per la ricerca - la misura del 5 per mille, che riguarda sia la ricerca che il volontariato per il terzo settore - demanda di fatto all'obolo dei cittadini il finanziamento della ricerca in questo Paese. La maggioranza sostiene che il meccanismo funziona. È vero, il meccanismo funziona, ma se poi queste entrate non si destinano al volontariato e alla ricerca, cosa facciamo, li restituiamo ai cittadini? Avete introdotto il meccanismo del 5 per mille perché avete bisogno di reperire risorse e quando si dovranno decidere le destinazioni - speriamo che sia un altro Governo a farlo - si porrà un problema di scelte e di destinazioni.
      Sul rilancio del processo comunitario di sviluppo abbiamo già detto. È quasi comico, se non fosse tristemente tragico, scoprire che i 3 miliardi di euro del Fondo per l'innovazione, la crescita e l'occupazione, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con la generica finalità del rilancio della Strategia di Lisbona, cioè pensato per finanziare lo sviluppo e avviare una convergenza verso gli obiettivi di competitività europei, in realtà sono condizionati alla realizzazione di extra proventi da dismissioni immobiliari o alienazioni dei beni dello Stato.
      Per quanto riguarda la spesa sociale, viene data attuazione ad un Fondo famiglia indistinto, con il quale è chiaro che non si fa nessuna politica familiare, soprattutto se limitato ad un solo anno e privo di qualsiasi concetto di equità sociale. Certo, meglio che niente. Però è singolare la previsione di un bonus di 1.000 euro per i nati nel 2005: in genere questi interventi servono se incentivano le famiglie ad orientarsi per il futuro. Purtroppo le elezioni sono tra pochi mesi, pertanto andava messo a frutto ora quello che sembra una «regalia» del Governo, piuttosto che un diritto dei cittadini.
      Anche il contributo di 160 euro per i figli nati nel 2003 (circa 13 euro al mese), ha il sapore più di uno slogan - se pensiamo all'aumento dei costi di pannolini, alimentari per bambini, latte in polvere e se pensiamo al futuro aumento dei costi dei servizi comunali - che l'avvio di una duratura e seria politica per la famiglia.
      Se questi soldi ci sono e si vogliono spendere per aiutare effettivamente le famiglie, perché allora non finanziarie interventi per le giovani coppie aiutandoli a pagare l'affitto o il mutuo per la casa in cui abitano.
      È infine davvero grave, nonostante gli impegni esplicitamente assunti dal governo, la mancata riforma degli ammortizzatori sociali, sempre più indispensabili per tutelare le fasce più deboli in un mercato del lavoro come quello attuale. Ci si è limitati a pochi interventi settoriali e, per fortuna, alla proroga degli ammortizzatori sociali in caso di crisi occupazionali. Inserita in extremis, purtroppo non riesce ad operare un'organica innovazione del
 

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sistema delle tutele che è stata, invece, proposta nei nostri emendamenti.
      Nessun intervento strutturale è previsto per ridurre l'incidenza della spesa sanitaria, e parliamo di uno dei comparti più importanti per i cittadini e per la loro salute, ma anche uno dei comparti più onerosi per l'intero bilancio dello Stato.
      Nessuna misura congrua ed efficace per contrastare le vecchie e nuove povertà che nel Mezzogiorno stanno raggiungendo livelli di allarme sociale.
      Non ci convince la tesi per cui il Governo non sia l'ente più importante dello sviluppo economico, per cui da solo non può tutto. È vero che questo compito è assegnato ai milioni di lavoratori, di imprenditori, di operai che costituiscono la società italiana. Ma è anche vero che qualcosa il Governo può. Se guardiamo i dati sul calo della quota di commercio mondiale detenuta dal nostro Paese, sul calo della produttività dei fattori, sul ridotto volume complessivo degli investimenti, possiamo assecondare la tesi che questo fenomeni sono di lungo periodo - addebitabili solo in parte al governo - ma l'attuale governo li ha sistematicamente accompagnati nel loro accentuarsi, senza contrastarli adeguatamente.
      Solo in quest'ultimo anno di legislatura sembra che la gravità della situazione sia chiara e questa nuova consapevolezza della natura dei problemi ha inciso sul cambio di rotta rispetto ai quattro anni precedenti. Ma il ritardo accumulato nel riconoscere queste tendenze di fondo, l'aver sottaciuto la realtà dei fatti è il danno strutturale più grave che abbiate potuto compiere.
      Per questi motivi il giudizio sulle politiche economiche adottate è negativo.

5. La manovra del 2006: le principali criticità.

      5.1. Il Mezzogiorno.

      Dopo 4 anni il tema «Mezzogiorno» è ritornato strumentalmente tra le priorità dell'azione di governo. Nei primi anni, infatti, l'Esecutivo si è impegnato quasi esclusivamente in un affannoso reperimento di risorse che ha mostrato tutta la propria debolezza, in assenza di un disegno strategico di riferimento per lo sviluppo del Sud.
      Nel passaggio dal Governo Berlusconi 1 al Governo Berlusconi 2, per marcare un'inversione di tendenza, è stato riproposto il Ministero per lo Sviluppo e la coesione, una sorta di dicastero per il Mezzogiorno, al quale sono state trasferite le competenze della politica meridionalistica dal Ministero dell'Economia, peraltro senza portafoglio. Si rischia così di ritornare alla programmazione senza risorse, con un ritorno al passato di cui non si avverte il bisogno.
      Il Ministro Tremonti - nel suo intervento di presentazione della legge Finanziaria al Senato - ha inserito un'altra «s» tra le tre priorità della manovra di bilancio 2006: sanità, sicurezza, Sud. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, si può e si deve dire subito: dopo il fumo (la Banca del Sud), viene un arrosto assai indigesto (i tagli ai due fondi dedicati e a quelli per il cofinanziamento delle politiche comunitarie di sviluppo).
      Sulla Banca del Sud, è presto detto: lo Stato ci metterebbe 5 milioni di euro. Gli altri, dovrebbero metterceli i privati. E Tremonti li individua negli ex azionisti delle banche meridionali. Dopo il bagno di sangue che hanno subito, è realistico immaginare che se ne staranno lontani. Ma, più in generale, è di questo che ha davvero bisogno il Sud, anche per risolvere il problema - che indubbiamente ha - di un costo del denaro più elevato rispetto al Centro-nord? Evidentemente no.
      Il Sud ha, semmai, più bisogno del centro-nord di un sistema creditizio e finanziario aperto e competitivo. Non di un nuovo carrozzone pubblico.
      Veniamo però alla sostanza: quanto stanzia, la finanziaria, per il Sud? Il film è quello delle finanziarie scorse: per il primo dei tre anni, un taglio draconiano; per l'ultimo anno (fa «fine» e non impegna) un aumento spettacolare. L'anno scorso, per il 2006 (secondo anno di riferimento)

 

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si prevedevano risorse per ben 10,4 miliardi. Per il primo anno, il 2005, si riducevano le disponibilità a 6,2 miliardi.
      Puntuale, ecco la finanziaria 2006-2009: i mirabolanti 10,4 miliardi si riducono del 10 per cento, salvo prometterne in quantità per il 2009. Quest'anno, però, si aggiunge il taglio ai fondi per il cofinanziamento UE.
      Come risulta dalla tavola sotto riportata, per quanto riguarda il primo anno del triennio di riferimento, il disegno di legge finanziaria per il 2006 prevede per gli interventi per le aree sottoutilizzate risorse pari a 8.329 milioni, di cui 110 milioni di risorse aggiuntive stabilite dalla Tabella D. Per effetto delle rimodulazioni di Tabella F (-1.533 milioni per il 2006) e dei definanziamenti di tabella E (-634 milioni per il 2006) si determina, tuttavia, rispetto al bilancio a legislazione vigente una riduzione degli stanziamenti complessivi di 2.057 milioni di euro.

Manovra 2006

Risorse complessive risultanti dal disegno di legge finanziaria

(milioni di euro)

 
2006
2007
2008
Triennio
2009
Quadriennio
Interventi aree sottoutilizzate
8.329
6.880
6.130
21.339
10.631
31.970
Settore 4 tabella F
8.329
6.880
6.130
21.339
10.631
31.970
Cofinanziamento nazionale
2.000
204
600
2.804
14.999
17.803
Totale
10.329
7.084
6.730
24.143
25.630
49.773

      Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati

      Se si considerano anche gli stanziamenti relativi al cofinanziamento nazionale dei Fondi strutturali, risultano per il primo anno di riferimento, i seguenti importi:

          disegno di legge finanziaria per il 2006: risorse complessive pari a 10.329 milioni di euro;

          legge finanziaria per il 2005: risorse complessive pari a 10.817 milioni di euro.

      Nella tavola seguente sono riassuntivamente poste a raffronto le risorse complessive per le aree sottoutilizzate stanziate dalla legge finanziaria 2005 e dal disegno di legge finanziaria per il 2006, per il primo anno del triennio di riferimento.

(milioni di euro)

 
Finanziaria 2005
Ddl Finanziaria 2006
Differenza
Differenza %
Interventi aree sottoutilizzate
6.628
8.329
1.701
25,7
Cofinanziamento nazionale
4.189
2.000
- 2.189
- 52,3
Totale
10.817
10.329
- 488
- 4,5

 

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      Se il confronto viene effettuato relativamente alle risorse per gli interventi nelle aree sottoutilizzate stanziate nel triennio di riferimento, risulta che:

          il disegno di legge finanziaria per il 2006 prevede, per gli interventi nelle aree sottoutilizzate, risorse complessive pari a 21.339 milioni di euro (24.143 milioni se si considera anche il cofinanziamento nazionale);

          la legge finanziaria per il 2005 prevedeva, per gli interventi nelle aree sottoutilizzate, risorse complessive pari a 24.017 milioni di euro (36.642 milioni se si considera anche il cofinanziamento nazionale).

(milioni di euro)

TRIENNIO
Finanziaria 2005
Risorse 2005-2007
Ddl Finanziaria 2006
Risorse 2006-2008
Differenza
Diff. %
Interventi per le aree sottoutilizzate
24.017
21.339
- 2.678
- 11,2
Cofinanziamento nazionale
12.625
2.804
- 9.821
- 77,8
Totale
36.642
24.143
- 12.499
- 34,1

      5.2. I tagli agli enti locali.

      Negli anni novanta i comuni italiani sono stati fondamentali per la tenuta del nostro paese, basta pensare a come gli Enti Locali hanno dato risposte in periodo in cui in seguito a tangentopoli la politica nazionale aveva lasciato un vuoto, basta pensare allo sforzo compiuto anche dai Comuni nella seconda metà degli anni novanta per contribuire al raggiungimento dei parametri richiesti dal trattato di Mastricht per poter centrare l'obiettivo dell'euro.
      Negli ultimi quattro anni, invece, il governo ha trattato gli Enti Locali come fossero un peso e anziché una risorsa, invece di sfruttare le potenzialità che potevano offrire sono stati attuati una serie di provvedimenti che hanno complicato e reso difficile l'attività degli Enti incidendo direttamente sulla loro autonomia. Da una parte si annuncia la «devolution» dall'altra vengono mortificate le autonomie locali.
      In questi quattro anni vi è stato un taglio dei trasferimenti pari a circa un miliardo di euro (nel 2001 sono stati trasferiti agli Enti Locali 15,469 miliardi di euro, per il 2006 sono stati stanziati 14,246 miliardi di euro), questo ha comportato nel corso di questi anni un aumento dei costi, dei servizi soprattutto per le famiglie, per gli anziani e per le fasce più deboli, in questi anni gli Enti Locali hanno dovuto recuperare gli effetti dell'inflazione e le minori entrate aumentando le entrate proprie. Negli anni del risanamento economico attuato dal governo di centrosinistra erano state applicate alcune norme che con l'obbiettivo di ridurre la spesa pubblica andavano ad incidere anche sugli Enti Locali.
      Pur prevedendo queste norme, tranne rari casi che riguardavano gli Enti meno virtuosi, non si è mai andati a incidere in maniera pesante su quella che era l'autonomia dei Comuni e delle Province. Anche in quegli anni i Comuni e Province erano obbligati al rispetto del «patto di stabilità», ma il meccanismo teneva conto che gli Enti Locali avevano entrate proprie e quindi i parametri si basavano sui saldi fra entrate e spese.
      In questi ultimi 4 anni il metodo di calcolo del patto di stabilità è stato variato ogni anno, facendo innanzitutto l'errore di

 

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non dare negli anni, un parametro di riferimento costante, ma l'errore più grave è quello di imporre limitazioni alle spese, indipendentemente dalle entrate proprie dell'Ente. In questo modo si penalizzano soprattutto i comuni più virtuosi e si impedisce di dare nuovi servizi, anche se a totale carico del cittadino. Nel 2005 la limitazione della spesa è stata posta anche sulla spesa in conto capitale determinando una forte contrazione degli investimenti degli Enti Locali.
      L'effetto della finanziaria 2006 è un effetto scure. Si prevedono tagli nell'ordine di 3,1 miliardi cosi ripartiti: 1,1 per le Regioni e 2 per Province e Comuni. Confrontandole con le spese iscritte nel conto economico degli enti stilato dall'Istat, e relativo al 2004., se ne desume che la riduzione per il 2006 sarà pari rispettivamente a 3,8 per cento per le regioni, mentre per gli enti locali si aggirerà intorno al 6,7 per cento.

      Nella tabella che segue (fonte Servizio Studi della Camera) si evidenzia l'andamento storico dei trasferimenti erariali agli Enti Locali, a partire dal 2001 (ultima finanziaria dell'ulivo) fino al 2006.

Trasferimenti erariali (fondi di parte corrente più fondi di conto capitale).

(milioni di euro)

Anno 2001
Anno 2002
Anno 2003
Anno 2004
Anno 2005
Anno 2006
15.469
15.612
15.230
15.009
14.920*
14.246*


      * Stanziamenti al netto della trattenuta da parte dello stato dell'addizionale ENEL, versato in più negli anni precedenti. (- 77 mln € anni dal 2005 al 2009 e - 17 mln € dal 2010 al 2012).

      Da una prima stima elaborata dall'ANCI, relativa agli effetti prodotti dal taglio della spesa corrente, si evince un ridimensionamento forte dei servizi erogati, soprattutto in quei settori fondamentali per le comunità locali (servizi trasporti alunni, contributi per il diritto allo studio, trasporto pubblico locale, illuminazione pubblica, manutenzione stradale, biblioteche, musei, eventi culturali, ecc.).
      Inoltre c'è l'azzeramento del Fondo per la montagna che riguarda 356 comunità

 

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montane dove vivono 12 milioni e mezzo di cittadini.
      Queste prime indicazioni rendono evidente quanto sarà difficile, se non addirittura impossibile, per le comunità locali sopportare una manovra finanziaria così articolata.
      Quello che, infatti, sembra emergere dall'atteggiamento del Governo è la sottovalutazione delle conseguenze che questa manovra avrà nelle nostre città e nei nostri Comuni.
      Qui c'è un difetto grave delle nostre istituzioni: la mancanza di un quadro definito delle relazioni finanziarie tra livelli di governo e di una sede di coordinamento delle politiche di bilancio. In assenza di ciò, l'autonomia implicita nel federalismo non è sostenibile per la finanza pubblica e certo non lo diventa con diktat dell'ultima ora. Stiamo assistendo alla fine del federalismo solidale, basato sul principio della sussidiarietà, ed alla nascita di un federalismo competitivo molto spinto, che lascia indietro chi è in difficoltà e fa più fatica.
      Siamo convinti, invece, che prestando la dovuta attenzione al tema dell'equità sociale, se non saranno lasciati soli, i sindaci e gli amministratori locali sapranno fare la loro parte, anche in termini di fantasia progettuale, per reagire alla cattiva congiuntura italiana che avete contribuito a realizzare.

      5.3. La ricerca.

      L'Istat ha presentato nello scorso ottobre i principali risultati sulla Ricerca e Sviluppo in Italia. I dati ci dicono che nel periodo 2003-2005 nel settore Ricerca e Sviluppo intra-muros, la spesa delle imprese, delle amministrazioni pubbliche (incluse le università) e delle istituzioni private non profit, mostra una battuta di arresto dopo tre anni consecutivi di crescita; su base annua l'aumento è soltanto dell'1,2 per cento in termini monetari (-1,7 per cento in termini reali).
      Il contributo delle imprese alla R&S italiana scende, infatti, dal 50,1 per cento del 2000 al 47,3 per cento nel 2003. Si tratta di un'anomalia nel contesto dei principali paesi Ue, dove la quota della spesa sostenuta dal settore privato supera frequentemente il 60 per cento con punte, nei paesi nordici, di oltre il 70 per cento. La tenuta del sistema nazionale della R&S è, quindi, garantita dalle amministrazioni pubbliche e, soprattutto, dalle università, nonostante i ripetuti tagli decisi dalle Finanziarie degli anni scorsi.
      Anche in questo settore, purtroppo, si registrano forti divari territoriali: nel solo 2003 si modifica la distribuzione territoriale della spesa per R&S delle imprese, sempre concentrata (per l'89,9 per cento) nell'Italia settentrionale e centrale (di cui il 30,9 per cento in Lombardia, il 19,3 per cento in Piemonte e l'11,7 per cento in Emilia-Romagna), mentre la quota del Mezzogiorno è pari soltanto al 10,1 per cento del totale nazionale.
      Il rallentamento osservato nel 2003 in tutto il settore pubblico solleva un serio interrogativo in merito ai vari Commissariamenti degli enti di ricerca, ed in particolare alle perduranti difficoltà del più grande ente di ricerca pubblico in Italia, il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il CNR, dopo 15 mesi di commissariamento, attraversa oggi una crisi profonda come non era mai accaduto prima nella sua storia: i dati del trasferimento statale espressi in valori correnti e costanti 2001 (usando il deflattore del PIL), sono, infatti, impressionanti: una riduzione del budget di circa il 18 per cento negli ultimi quattro anni è una misura che non solo produce guasti gestionali, ma cambia profondamente la natura dell'Ente, ridotto ormai ad ente strumentale e di servizio.
      Ma il pericolo più grande per il futuro della ricerca in Italia è costituito dalle porte sbarrate ai giovani ricercatori. Veniamo, infatti, da quasi quattro anni di blocco delle assunzioni che rischia di prosciugare interi filoni: l'età media dei ricercatori è arrivata a 50 anni. Siamo già oggi in una carenza tendenziale di ricercatori.

 

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Le vocazioni scientifiche sono in calo in tutto il mondo. E il fenomeno è ancora più grave in Italia. Infatti, siamo l'unico paese europeo ad aver diminuito il numero dei ricercatori.
      In questo contesto si inseriscono le scarne norme della Finanziaria che per la ricerca e l'innovazione si riassumono nella misura del 5 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, peraltro presentato a titolo sperimentale, sul quale abbiamo espresso l'idea che siano in realtà i cittadini, con il loro contributo volontario, a concorrere alle spese per la ricerca, sostituendosi di fatto allo Stato, senza avere, peraltro, la certezza del destinatario finale dei contributi, perché l'espressione letterale della norma è troppo generica.
      Di analoga portata è la detassazione delle erogazioni liberali in favore della ricerca. Purtroppo il popolo italiano non ha la cultura anglosassone, realtà nella quale le detassazioni sono addirittura parte importantissima di tutti gli enti di ricerca e costituiscono uno degli elementi fondamentali del finanziamento.
      Del Fondo per l'innovazione si è già fatto riferimento, in particolare per la quota subordinata agli incassi delle vendite immobiliari.

      5.4. Le infrastrutture ed i trasporti

      Il drastico ridimensionamento delle risorse trasferite ai diversi comparti del trasporto si aggiunge all'ormai consolidata carenza di qualsiasi politica di settore, all'assenza di programmazione, ai tagli operati con le precedenti manovre finanziarie, ai tanti e spesso sovrapposti interventi legislativi che in questa legislatura hanno generato incertezze e rallentamenti dei processi avviati dai Governi dell'Ulivo.
      I tagli apportati da questa finanziaria risultano tuttavia accentuati dal taglio dei trasferimenti alle Regioni e agli Enti locali che avranno le loro inevitabili ricadute nel settore specialmente per quanto attiene al Trasporto pubblico locale e alla mobilità urbana.
      Nel contesto più generale dell'andamento dell'economia italiana, il trattamento riservato agli investimenti nelle pubbliche infrastrutture va ulteriormente a danneggiare la crisi complessiva del Paese. Gli investimenti utilizzati come volano economico anticiclico non ci sono. Così come sono stati fortemente ridimensionati i finanziamenti alle Ferrovie dello Stato e all'ANAS ossia ai soggetti che maggiormente attivano investimenti nel sistema.
      Fra le modifiche più rilevanti sul piano finanziario, introdotte nel corso dell'esame al Senato, si segnala infatti proprio la riduzione dei trasferimenti in conto capitale alle Ferrovie dello Stato per un importo di 1.200 milioni di euro per ciascuno 2006, 2007 e 2008, e all'ANAS, per un importo di 300 milioni di euro nel 2006 adottati nell'ambito degli interventi correttivi per rimodulare gli strumenti di acquisizione di una quota delle entrate rispetto a quelli previsti in sede di predisposizione del DPEF.
      Secondo il FMI, le drastiche riduzioni nei trasferimenti alle Ferrovie dello Stato e all'ANAS sono difficilmente sostenibili senza credibili ristrutturazioni aziendali, che a loro volta sono rese difficili dalla mancanza di puntuali informazioni sulla situazione finanziaria delle dette società.
      Le riduzioni apportate ai trasferimenti in conto capitale sono, inoltre, aggravate dal forte taglio ai trasferimenti correnti che per le Ferrovie dello Stato raggiungono la cifra di 555 milioni di euro e per l'ANAS 118 milioni di euro.
      Per quanto attiene l'ANAS gli effetti complessivi dei tagli genereranno gravi ripercussioni non solo sulle nuove opere ma anche sui lavori stradali già appaltati e in corso di realizzazione e sulla manutenzione straordinaria.
      Quello che si prospetta, in un quadro più generale in cui è messa a rischio anche l'unità della gestione della rete stradale di interesse nazionale (DL 203/205), è l'accrescimento spropositato dei debiti che la Società dovrà contrarre per rispondere

 

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agli impegni già assunti con le imprese edili e nei confronti delle quali è attualmente insolvente, per effetto della mancata corresponsione di quanto già dovuto all' Anas da parte dello Stato per il 2005.
      Per le Ferrovie dello Stato gli effetti dei forti tagli apportati sanciranno il sostanziale al blocco degli investimenti. Tutti gli investimenti sulle linee tradizionali, con particolare penalizzazione per il Sud, sui nodi delle grandi aree metropolitane e sulle attrezzature tecnologiche di sicurezza subiranno un arresto per mancanza di risorse. L'effetto sui contratti stipulati a opere avviate si farà sentire pesantemente nel corso del 2006 sia sulla rete tradizionale sia sulla progettazione e realizzazione dell'Alta Velocità.
      Anche in questo caso a peggiorare la situazione si aggiunge l'effetto dei tagli di trasferimento alle Regioni che avranno conseguenze sui contratti di servizi relativi al trasporto regionale di Trenitalia.
      A questa situazione si somma l'esiguo rifinanziamento della Legge Obiettivo. La Finanziaria per il 2006 è l'ennesima dimostrazione concreta di quanto le infrastrutture sono state utilizzate nel corso di questa legislatura meramente in modo propagandistico. Ai tanti e frequenti slogan con cui si è parlato di «grandi opere», di «cantieri aperti», di «ammodernamento del Paese» si è accompagnata una realtà ben diversa, estremamente deludente nei dati obiettivi e nelle realizzazioni.
      L'intento del Governo di creare con la «legge - obiettivo» una sorta di corsia speciale e preferenziale, dal punto di vista sia normativo, amministrativo e finanziario, è sostanzialmente fallito prevalentemente per il fatto che il Governo non ha saputo scegliere. Ed infatti la previsione di un regime speciale per la realizzazione delle infrastrutture può avere una sua validità unicamente se il suo ambito di applicazione viene circoscritto a un numero ristretto di infrastrutture di assoluta priorità. Cosa che non è avvenuta in questa legislatura dal momento che la lista delle opere strategiche approvata con la deliberazione del CIPE n. 121 del 21 dicembre 2001 è cresciuta a dismisura abbracciando, allo stato attuale, ben 358 interventi: un piano smisurato che ha travolto ogni concetto serio e rigoroso di priorità.
      Entrando nello specifico degli altri comparti del trasporto si osserva che la manovra finanziaria non tiene conto della gravità della congestione delle città italiane e dei riflessi che questa situazione genera sulla salute dei cittadini. Si prende, infatti, atto che per il quarto anno consecutivo il Governo (contrariamente ai propri documenti programmatici) non provvede a realizzare un programma di interventi strutturali e radicali per fronteggiare le criticità derivanti dalla congestione da traffico nelle aree urbane.
      A tal proposito si segala che la manovra finanziaria per il 2006:

          a) non presenta interventi finanziari in grado di invertire le tendenze in atto sul piano della mobilità urbana e contribuire al risanamento ed allo sviluppo del trasporto pubblico locale, al miglioramento e potenziamento del trasporto rapido di massa, alla crescita di forme di trasporto alternative a quelle automobilistiche, al sostegno dell'innovazione tecnologica nei sistemi di regolazione del traffico, alla riduzione dell'uso del mezzo privato (anche con l'applicazione del car sharing e del car pooling), alla razionalizzazione del trasporto merci i ambito urbano.

          b) non fornisce adeguati contributi ai privati cittadini per l'acquisto di veicoli a basso impatto ambientale;

          c) non interviene, nonostante le promesse, per superare l'insufficienza delle risorse stanziate per far fronte alle esigenze di tutela ambientale con il Decreto Legge del 21 febbraio 2005, n. 16 (cosiddetto decreto anti-Smog);

          d) non prevede appositi contributi per stimolare la domanda di trasporto pubblico e favorire il riequilibrio modale in ambito urbano, ad esempio, incentivando l'acquisto di abbonamenti annuali e mensili ai servizi di trasporto pubblico locale, regionale, interregionale e ferroviario,

 

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anche attraverso una detassazione dei costi sostenuti dai cittadini.

          e) taglia le risorse destinate all'acquisto di autobus dalla legge 194/98 per il triennio 2006-2008 di circa 120 milioni di euro sancendo, in questo modo, la rinuncia all'acquisto di 800 nuovi autobus, che erano già previsti nei piani regionali per il rinnovo del parco mezzi.

      Anche la sicurezza stradale viene completamente dimenticata in questa sessione di bilancio, in particolare si segnala che la manovra finanziaria per il 2006:

          a) non garantisce le adeguate risorse per il finanziamento del Piano del Piano Nazionale della Sicurezza Stradale (PNSS);

          b) non interviene in modo risolutivo sulla procedure di semplificazione del trasferimento dei fondi relativi al PNSS alle Regioni determinando in tal modo il permanere della situazione di blocco dei finanziamenti del Piano e la conseguente compromissione di molti progetti, senza modificare la paradossale situazione odierna per cui si è a conoscenza di quali sono i cosiddetti «punti neri» della rete stradale, ma non si dispone delle risorse per intervenire e porvi rimedio;

          c) non prevede, contrariamente agli impegni presi con il Parlamento, risorse per finanziare specifiche campagne per la sicurezza stradale anche con l'uso di mezzi di comunicazione di massa, che coinvolga anche le scuole ed i giovani studenti, soprattutto in relazione all'uso dei ciclomotori e alla guida sicura in città;

          d) determina una ulteriore contrazione delle risorse a favore dei soggetti preposti ai controlli sulla rete stradale nazionale e locale compromettendo in questo modo la sessa credibilità delle norme contenute nel codice della strada;

      Non vengono date le opportune risposte al settore marittimo e portuale. In particolare si segnala che nonostante gli impegni presi in Parlamento (accoglimento dell'ordine del giorno n. 9/05827/003) non viene superato il blocco degli investimenti delle Autorità portuali che sta impedendo la realizzazione di importanti progetti con il solo risultato di aiutare i porti già infrastrutturati del nord Europa, ed i porti della Spagna e della Francia a vincere la sfida per intercettare i grossi flussi di traffico che arrivano dalla Cina e dall'Asia.
      In sintesi, relativamente al settore marittimo e portuale, la manovra finanziaria per il 2006:

          a) non adotta le opportune iniziative volte a garantire l'utilizzo di risorse adeguate alle Autorità portuali, anche al fine di dare una risposta alle esigenze di chiarezza nonché per il rilancio del sistema portuale italiano;

          b) non compensa la forte riduzione alle spese per investimenti fissi (- 302.698.950 -) in opere marittime e portuali apportata dal decreto 203/2005;

          c) non prevede il rifinanziamento, per il prossimo triennio, delle misure riguardanti il sostegno e lo sviluppo del cabotaggio e del progetto delle Autostrade del Mare nonostante quest'ultimo, e più in generale il settore dell'economia marittimo-portuale, rappresenta un fattore decisivo per il riequilibrio in senso sostenibile del sistema di trasporto delle merci;

          d) per il terzo anno consecutivo non prevede il finanziamento delle spese della ricerca nel settore;

          e) riduce le risorse per gli interventi a sostegno delle imprese italiane del settore navalmeccanico e amatoriale particolarmente esposte ad una concorrenza, talvolta sleale, nei mercati internazionali;

          f) non vengono potenziati i servizi di trasporto marittimo con le isole minori.

          g) vengono tagliate le risorse per il Gruppo Tirrenia mettendo in seria discussione il processo di ristrutturazione ormai giunta in uno stadio avanzato che consentirà, in una politica di rilancio della Flotta Pubblica, di porsi sul mercato di cabotaggio nel ruolo che gli compete.

 

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      I tagli apportati incidono negativamente anche sull'aviazione civile. Vengono previsti ulteriori decrementi delle risorse finanziarie destinate all' Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo senza rimuovere gli ostacoli di carattere economico e normativo che stanno incidendo sulla organizzazione e sull'operatività dell'Agenzia stessa e, conseguentemente, sulla sicurezza aerea del Paese. Se si considerano gli effetti delle norme contenute nel decreto legge n. 203 del 30 settembre 2005 si comprende chiaramente quanto tutto il settore viene fortemente penalizzato: dalle gestioni aeroportuali, agli enti di vigilanza (ENAC) e controllo (ENAV) che, anche quest'anno, subiscono forti riduzioni nei trasferimenti e vedono messa in discussione la loro stessa autonomia finanziaria.
      Alla luce di quanto esposto la legge finanziaria 2006 conferma la mancanza di strategia e di qualsiasi azione programmatica sul sistema dei trasporti nazionali che, nonostante i continui slogan propagandistici sull'infrastrutturazione del Paese, finisce fatalmente e paradossalmente per compromettere importanti progetti di sviluppo e di riequilibrio modale oltre che mettere in discussione la stessa competitività nazionale.

      5.5. Le politiche ambientali.

      Come è consuetudine di questo Governo anche nella sua quinta finanziaria la spesa ambientale continua a subire un forte ridimensionamento. Il taglio, operato quasi esclusivamente per la parte di conto capitale, sfiora complessivamente il venti per cento di un bilancio già ridotto all'osso. Forti riduzioni subiscono tutti i centri di responsabilità a cominciare dal fondo unico istituito dalla legge finanziaria del 2002, che contiene il grosso degli investimenti e fa capo al gabinetto del Ministro, così come la protezione della natura, la ricerca ambientale, la difesa del suolo. Questo per quanto attiene al bilancio.
      Quanto alle norme contenute nella finanziaria il discorso non cambia: si prorogano gli incentivi sulla manutenzione e salvaguardia dei boschi, si dispone un finanziamento di 100 milioni di euro per la realizzazione delle misure di attuazione del protocollo di Kyoto, si torna sulla disciplina riguardante i siti di interesse nazionale da bonificare, con l'intento di rendere meno oneroso per la parte pubblica l'intervento di bonifica, si elevano le sanzioni pecuniarie per il danno ambientale, sempre allo scopo, lodevole, di aumentare le risorse del Ministero, si interviene sulle procedure di monitoraggio della spesa ambientale, nel senso di rinnovare la collaborazione già avviata con l'Associazione dei comuni italiani.
      Tutto qui: con la mano destra si toglie quasi tutto e con la sinistra si getta una manciata di spiccioli.
      Ben diverso dovrebbe essere a nostro avviso il peso della spesa ambientale in un paese moderno. Basti pensare alle significative ricadute sul piano economico e occupazionale, oltre ai benefici per la salute e l'ambiente, che potrebbero avere dei seri investimenti in ricerca e sviluppo nei settori del risparmio e dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, o l'avvio di quella che è stata definita la più importante infrastruttura del Paese, vale a dire la realizzazione di un programma nazionale di interventi per la riduzione del dissesto e quindi del rischio idrogeologico, o, ancora, la svolta, promessa ogni anno e mai realizzata, relativa al risanamento atmosferico nelle grandi aree urbane. Ma le misure di lungo respiro, gli interventi strutturali, non si addicono a questo Governo.
      La spesa ambientale dal 2001 a oggi è calata costantemente, ma più del dato quantitativo preoccupa l'assenza di qualità della spesa stessa (in questo quinquennio si è speso troppo per il funzionamento di commissioni ministeriali) e l'incapacità del Ministero di impedire la più colossale sanatoria dei reati contro il territorio mai realizzata nel Paese, che, a fronte di un risultato economico inferiore alle aspettative, ha contribuito a consolidare l'idea che la tutela del territorio, inserita nel nome del Ministero (ironia della sorte!) proprio con il Governo attualmente in

 

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carica, sia una esigenza eventuale e subordinata a qualunque interesse economico contingente. Proprio il contrario di quello che si sostiene ormai da decenni nelle teorie economiche più evolute e in tutte le sedi internazionali, in special modo in quelle comunitarie. Il Ministro dell'ambiente del Governo Berlusconi se sarà ricordato per qualcosa sarà ricordato solo per questo.

      5.6. I tagli alla cultura.

      Prosegue la politica del contenimento della spesa nel settore dell'istruzione, dell'università e della cultura. Il Piano finanziario della legge n. 53 del 2003 prevedeva, infatti, 8.320 milioni di euro per il periodo 2004-2008 ma che: dei primi 4 miliardi di euro - che sarebbero dovuti provenire dalle tre precedenti leggi finanziarie - è difficile oggi trovare traccia in quanto tali economie di spesa o sono state impiegate nella copertura del contratto della scuola o sono andate in economia a compensare il disavanzo; degli altri 4 miliardi di euro dei piano da investire nel periodo 2004-2008 è stata messa a bilancio: con la finanziaria per il 2004 la cifra irrisoria di 90 milioni (il 2,2 per cento dell'intera somma da stanziare nel quinquennio) per tecnologie multimediali, lotta alla dispersione, istruzione tecnica superiore ed educazione degli adulti. Si ricorda, infine, che l'articolo 3, comma 92, della legge finanziaria 2003 (legge n. 350 del 2002) aveva autorizzato tale spesa da destinare all'attuazione del citato piano programmatico di interventi finanziari; tali risorse erano destinate allo sviluppo delle tecnologie multimediali; interventi contro la dispersione scolastica e per assicurare il diritto-dovere di istruzione e formazione; sviluppo dell'istruzione e della formazione tecnica superiore e per l'educazione degli adulti; istituzione del Servizio nazionale di valutazione del sistema di istruzione; il comma 8 dell'articolo 16 del disegno di legge n. 5310 prevedeva un finanziamento di 110 milioni di euro da destinare all'attuazione del piano programmatico di interventi finanziari previsto dall'articolo 1, comma 3, legge n. 53 del 2003.
      Nella finanziaria per il 2006 non vi è traccia di alcun finanziamento e non si sa che fine abbia fatto la postazione della Tabella F della legge finanziaria 2005 (legge n. 311 del 2004) che a decorrere da 2006 prevedeva lo stanziamento annuo di 31 milioni di euro per il finanziamento dei mutui di edilizia scolastica previsti dalle legge n 23 del 1996 e n. 362 del 1998; non è stato ancora emanato il decreto ministeriale per la ripartizione dei mutui relativi all'annualità 2005 (quello per il 2004 risale al 30 ottobre 2003).
      Per quanto invece riguardano gli stanziamenti destinati ai diversi settori della cultura, negli ultimi cinque anni si è registrata una costante e gravissima flessione. Il Fondo unico dello spettacolo (FUS) ha subito tagli ingenti che, rispetto al 2001, ne hanno determinato una riduzione complessiva del 50 per cento. Nonostante in Senato, siano stati reintegrati 85 milioni di euro per il 2006, rimane grave la situazione in cui versa lo spettacolo italiano. È un atto totalmente insufficiente, volto esclusivamente ad un recupero di facciata che non risolve minimamente i problemi in cui versa il mondo della cultura italiana.
      La perdita di finanziamenti pubblici che subiscono i settori e le istituzioni dello spettacolo e la cinematografia italiani è, in termini di potere reale d'acquisto, molto più grave di quanto appena esposto; lo stanziamento di 385 milioni di euro per il 2006 e di 300 milioni per il 2007-2008 previsto dalla Tabella C decreta la chiusura, di fatto, delle attività dello spettacolo italiano. Infatti oltre 200 milioni di euro sono assorbiti dal fabbisogno delle fondazioni lirico-sinfoniche che, è il caso di ricordarlo, occupano oltre 5.000 persone su tutto il territorio nazionale, oltre a costituire in tutto il mondo una tra le più importanti testimonianze della nostra tradizione e produzione culturale e artistica.
      Detratta questa quota resterebbero 100 milioni di euro per finanziare tutti gli altri settori dello spettacolo: cinema, teatro di prosa, danza, musica e attività circensi. Va ricordato, poi, che lo spettacolo in Italia, nel suo complesso, conta all'incirca

 

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250.000 addetti, tra artisti, tecnici, operatori, maestranze e che una tale esiguità di finanziamenti pubblici mette in serio rischio i livelli occupazionali dell'intero comparto.
      Allo stato dei fatti è concreto il rischio della chiusura per musei, istituzioni culturali, enti, associazioni e fondazioni che ricevono finanziamenti pubblici, imprese dello spettacolo dal vivo e cinematografiche e vi è l'incognita gravissima se l'Amministrazione centrale e periferica dei beni culturali sia in grado di esercitare le proprie funzioni di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale nazionale; sul fronte della tutela del patrimonio culturale il Governo spinge sull'acceleratore e mette a punto un meccanismo (contenuto nel decreto legislativo di adeguamento all'articolo 115 del codice dei beni culturali) che in pochi mesi potrebbe «affidare» in mani private una grossa fetta del nostro patrimonio e che il bene potrà essere gestito, senza alcuna forma di controllo da parte dell'amministrazione della tutela, esclusivamente in nome del pieno sfruttamento economico. È evidente come a questo progetto sia sottesa una concezione mercantile del bene culturale.

      5.7. La politica estera.

      È oramai scontato che il trattamento riservato alla politica estera italiana dalla manovra Finanziaria consiste nel taglio delle risorse correnti, in un'assoluta indisponibilità a investimenti per migliorare la funzionalità della Farnesina e delle nostre rappresentanze diplomatiche all'estero e di una decurtazione dei contributi alla cooperazione. Il tutto è calato in un quadro caratterizzato da una totale assenza di scelte forti e di priorità strategiche, sostenute da congrui impegni finanziari, che consentano di riqualificare e rilanciare il ruolo internazionale del Paese.
      Qualche mese fa i giornali, non solo nazionali, hanno evidenziato come il Governo italiano fosse in difficoltà a trovare i fondi per far partecipare la delegazione italiana alla missione umanitaria europea in Indonesia, in seno alla quale pure dovevamo assumere ruoli di direzione. Si tratta delle inevitabili conseguenze delle scelte politiche fatte nelle precedenti Finanziarie che in questa vengono ribadite e aggravate.
      I tagli continuano a ridurre le capacità delle nostre missioni all'estero, vuoi di natura scientifica vuoi di natura culturale vuoi a carattere politico, non contribuendo certo a dare credibilità all'azione complessiva del Governo e all'immagine del Paese. Così anche in questo Documento tutti gli elementi si ripresentano, peraltro aggravati da una evidentissima sottovalutazione del settore cui viene dedicata un'attenzione così scarsa da mettere in difficoltà la stessa Commissione di merito nella fase dell'esame consultivo.
      Da segnalare e da denunciare, anche questo anno, la pervicace violazione dell'impegno assunto a destinare ai fondi per la cooperazione almeno l'equivalente dell'0,3 per cento del Pil nel 2006, impegno disatteso grazie a un taglio di 150 milioni di euro a partire da questo anno cui l'opposizione cerca di rimediare con specifici emendamenti.
      Diventa veramente difficile giustificare, in sede internazionale, il divario tra l'obiettivo prefissato e quanto effettivamente erogato (l'Italia è situata all'ultimo posto tra i paesi donatori per la percentuale di Pil destinata agli aiuti ai PVS). Si consideri, peraltro, che la legge 209/2000 sulla cancellazione del debito ha esplicato i suoi effetti più significativi e che lo stesso Fondo rotativo per la concessione dei crediti di aiuto si sta riducendo marcatamente.
      Grave, a nostro avviso, è anche l'assenza di un'azione coordinata e convinta per sostenere la stabilizzazione dei Balcani, oggetto tra l'altro di una legge oramai priva di fondi, inutilizzata e non rifinanziata, mentre i nostri concorrenti europei, dalla Grecia alla Germania cercano di guadagnare, in un'area per noi strategica, influenza, mercati e rapporti.
      Ancora una volta da segnalare, la cronica sottovalutazione dell'area mediterranea, non sostenuta da alcun progetto e

 

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finanziamento particolare e il cui corrispondente centro di responsabilità al Ministero, in sede di Bilancio, rimane finanziariamente sottodotato. Inesistente una politica di valorizzazione della cultura italiana e delle comunità italiane all'estero su cui, a parole, il Governo doveva puntare per la promozione dell'Italia all'estero.
      Alla luce di tutto questo è da giudicare sorprendente l'incapacità del Ministro Fini, vicepremier e leader di una delle forze più importanti della maggioranza, di impostare una politica estera italiana che vada oltre le vetrine diplomatiche e medianiche e scelga, per le poche risorse disponibili, proprio a partire dalla Finanziaria obiettivi, priorità e strategie.

      5.8. La sanità e le politiche sociali.

      Per quanto riguarda le parti che interessano nello specifico il profilo della sanità esse non sono avulse dal contesto di improvvisazione e di approssimazione del disegno di legge in esame. Misure ampiamente insufficienti al fabbisogno necessario per garantire i livelli essenziali di assistenza e il diritto dei cittadini all'accesso delle prestazioni. Nella finanziaria 2006 è evidente uno scostamento tra la spesa stimata nel DPEF di luglio e quanto effettivamente previsto. Nel DPEF infatti era previsto un finanziamento complessivo di 96 miliardi di euro, mentre il disegno di legge in esame prevede uno stanziamento effettivo di 92,5 miliardi di euro. Pertanto si riscontra uno scostamento di ben 3,5 miliardi euro, che equivale a meno strutture, meno efficienza, meno diritti. Le regioni lamentano inoltre un sottofinanziamento pregresso di ben 4,5 miliardi di euro. Pertanto l'aumento di risorse destinato alla sanità è solo presunto, in quanto si collega ad una serie di norme «capestro» per le regioni. In particolare, come si evince anche dalla relazione tecnica allegata, a fronte dell'incremento del livello di finanziamento a cui concorre lo Stato rispetto al 2005, si richiede alle regioni una manovra di circa 2,5 miliardi di euro, che si vanno ad aggiungere ai tagli già sostenuti dalle regioni negli anni precedenti, pari a 1,250 miliardi di euro. In sostanza, il Governo promette alle regioni 1 miliardo di euro aggiuntivi, ma ne condiziona il trasferimento a tagli e razionalizzazioni di spesa per un valore doppio, il cui onere viene fatto ricadere sulle regioni. Quello che preoccupa è che, nell'ottica del presunto efficientamento del Servizio sanitario nazionale, il Governo di fatto prevede una rimodulazione delle prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza, che già sono fortemente ridimensionate con una disarticolazione del servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda l'intervento di cui al comma 192, per l'abbattimento delle liste d'attesa non è come prevede il governo che si affronta il delicatissimo problema della riduzione dei tempi d'attesa per i pazienti. Innanzitutto, l'erogazione dei 2 miliardi di euro definiti aggiuntivi (e comunque sempre inferiori ai 4,5 miliardi richiesti per fronteggiare il sottofinanziamento) viene condizionata ad una serie di adempimenti da parte delle regioni, a partire da un'intesa da siglare entro il 31 marzo 2006, il che significa che le regioni non potranno accedere a quelle risorse non prima della metà del prossimo anno e che fino ad allora dovranno continuare ad operare in condizioni di estrema difficoltà in ragione del sottofinanziamento del Fondo sanitario nazionale. Di particolare rilevanza è inoltre il comma 203, che prevede il tetto di rimborsabilità per cure fuori regione. La norma desta enorme preoccupazione perché, considerata l'elevata mobilità, in particolare dal sud al nord, non sarà ad un certo punto più possibile, per i cittadini, l'accesso a cure non reperibili nel territorio di residenza. Questa norma rischia di non accrescere la qualità dei servizi sanitari nel territorio di residenza e di penalizzare i centri di eccellenza e di specialità in altri territori; va quindi assolutamente modificata per fugare le preoccupazioni di medici e pazienti. Va poi detto che si è di fronte ad una strana finanziaria, in cui si punta ad efficientizzare la spesa e poi si scopre che vengono istituite nuove strutture, come al comma 199 con il Siveas i Sistema nazionale di

 

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verifica e controllo sull'assistenza, struttura per la quale si stanziano ben 10 milioni di euro per ciascun anno del prossimo triennio. La manovra brilla poi per l'assenza di interventi in favore del potenziamento tecnologico delle strutture sanitarie e per l'assenza di un piano di investimenti per l'edilizia sanitaria in particolare nel Mezzogiorno. Per quanto riguarda la lotta alla povertà, abbiamo assistito alla soppressione del reddito minimo di inserimento e la mancata attuazione dell'istituto sostitutivo, quello del reddito di ultima istanza previsto ben 2 anni fa. Infine nella manovra non si fa cenno all'adeguamento delle pensioni minime e delle indennità per i disabili, ai programmi del «dopo di noi», al fondo per la non autosufficienza.
      I tagli al welfare derivanti dalla riduzione di spesa prevista nella Finanziaria 2006 «annullano» e anzi superano gli stanziamenti del Fondo per la famiglia; il saldo complessivo negativo per le famiglie è di 345 milioni: la differenza cioè tra i 1.485 milioni di euro in meno a disposizione dei Comuni per la spesa sociale e l'ammontare del pacchetto di misure per la famiglia fissato dal governo in 1.140 milioni;
      I tagli della finanziaria alla spesa sociale dei comuni si tradurranno in un taglio di 544 euro l'anno per ogni famiglia povera, pari a 45 euro al mese, fermo restando che il taglio al Fondo per la spesa sociale interviene già dal 2005: una riduzione del 50 per cento che equivale a 502 milioni di euro in meno. Dunque, il Governo le mani in tasca agli italiani, le mette, ed anche in maniera pesante;
      In relazione alle tematiche prettamente legate all'ambito lavorativo si segnala che:

          a) non vengono previste misure di contrasto alla perdita di potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, anche attraverso la restituzione del fiscal drag, l'adeguamento dei trattamenti pensionistici e la riforma del paniere ISTAT e dell'indice dei prezzi al consumo. In questo ambito non è inoltre presente nel testo della manovra finanziaria, alcuna norma per l'ampliamento della platea dei beneficiari dell'aumento a 516 euro dei trattamenti pensionistici al di sotto di questa cifra;

          b) non sono previste le risorse per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego per il biennio 2006-2007, con la conseguenza non solo di impedire l'apertura di un tavolo di trattativa con le organizzazioni sindacali, ma anche di determinare un ulteriore squilibrio finanziario nel Bilancio dello Stato a carico delle prossime finanziarie;

          c) viene prevista la riduzione del 40 per cento delle risorse destinate al personale a tempo determinato e con contratti di collaborazione coordinata e continuativa nella pubblica amministrazione, limitando gli stanziamenti finalizzati all'utilizzo di detto personale nella misura del 60 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2003, con una disposizione che colpisce gravemente una categoria debole come quella dei lavoratori precari. La medesima limitazione all'assunzione di personale a tempo determinato viene estesa anche alle amministrazioni regionali e locali e a quelle del Servizio Sanitario Nazionale, per i cui per i lavoratori precari non viene prevista alcuna proroga dei contratti o l'individuazione di processi di stabilizzazione;

          d) la proroga dei trattamenti di cassa integrazione e di mobilità in scadenza al 31 dicembre 2005 non prevede risorse adeguate;

          e) non viene previsto alcuno stanziamento per estendere la tutela degli ammortizzatori sociali alle imprese ed ai settori che ne sono attualmente privi, come le imprese con meno di 15 dipendenti;

          f) non è stata realizzata da parte del Governo una riforma organica degli ammortizzatori sociali in senso universalistico che preveda l'estensione delle forme di tutela e di sostegno al reddito a coloro che ne sono privi, in particolare i lavoratori precari impiegati in nuove forme di lavoro, - come i collaboratori a progetto e gli associati in partecipazione;

 

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          g) non vengono individuate risorse per provvedimenti già da tempo all'esame dei Parlamento, quali il superamento del divieto di cumulo tra rendita INAIL e pensione di invalidità INPS e la modifica dei requisiti per l'accesso alla tutela dell'assicurazione contro gli infortuni domestici; non viene previsto un adeguamento dell'assegno sostitutivo dell'accompagnatore militare per i grandi invalidi di guerra e per servizio;

          h) non viene altresì previsto il riconoscimento dei benefici economici previsti nel contratto collettivo nazionale di lavoro al personale già dipendente dal Ministero delle Poste e delle telecomunicazioni cessato dal servizio nel periodo dal 1o ottobre 1994 al 1o ottobre 1995; non sono previste, per il secondo anno consecutivo, risorse per il sostegno ed il potenziamento dei centri pubblici per l'impiego delle province;

          i) non sono previsti finanziamenti per consentire l'accesso alla pensione dei lavoratori impegnati in mansioni particolarmente usuranti;

      5.9. Le politiche agricole.

      La crisi del mondo agricolo è strutturale e di misure strutturali ha bisogno per essere affrontata. Sono almeno due anni che presentiamo proposte per fronteggiare lo stato di crisi; proposte respinte dal Governo. È in atto, una gravissima crisi del comparto produttivo, specie nel Mezzogiorno; crisi inedita, straordinaria rispetto al passato.
      Alle calamità naturali che abbiamo già registrato negli anni scorsi si è aggiunta una crisi di mercato, mai così grave negli ultimi dieci anni; non è stato toccato un singolo settore ma tutti i comparti e le produzioni risultano coinvolte; migliaia di aziende agricole sono al collasso, indebitate, prossime al fallimento. Vi è un rischio sociale molto forte, specie nelle aree del Mezzogiorno, di perdita di nuovi posti di lavoro; e con il rischio sociale anche quello ambientale, l'abbandono delle campagne.
      Le cause sono strutturali: la mancata riorganizzazione della filiera alimentare, l'alto costo del lavoro per quanto riguarda gli oneri contributivi previdenziali ed assistenziali, la carenza infrastrutturale. Si aggiungono, tuttavia, cause congiunturali, come il crollo della domanda, legato alle difficoltà economiche di fasce cospicue di cittadini che hanno ridotto il livello di consumi storicamente acquisiti: il minore potere di acquisto delle famiglie italiane ha portato ad un minor consumo di prodotti agroalimentari di qualità. Vi è poi la questione relativa al controllo dei prezzi: produttori e consumatori sono troppo «lontani» per un corretto governo dei prezzi ed entrambi vengono manipolati dalle lobby. Ci sono passaggi e rincari: alcuni sono necessari, ma altri sono parassitari e speculativi; in maniera parossistica, dunque, si registra un basso prezzo di acquisto del prodotto dal produttore e, al contempo, un alto prezzo di vendita al consumo.
      Di fronte a una crisi così ampia il Governo e questa finanziaria non affrontano i nodi strutturali della crisi: la competitività e la commercializzazione dei prodotti delle imprese.
      Per la competitività è necessaria e ineludibile la riduzione dei costi, in particolare, il Governo dovrebbe pensare a misure per la riduzione dei costi dell'energia, del gasolio, delle assicurazioni, dell'acqua per l'irrigazione. Si dovrebbe agire inoltre sul costo del danaro perchè in agricoltura è sicuramente più elevato rispetto a quello che si registra in altri settori e, molto spesso, si impone anche la problematica dell'accesso al credito. Il costo del lavoro è troppo elevato ed occorre quindi agire sugli oneri contributivi assistenziali e previdenziali. Solo con la riduzione dei costi si potranno avere aziende agricole realmente competitive.
      Accanto al tema della competitività, vi è quello della commercializzazione. Siamo d'accordo sul fatto che la qualità debba improntare le filosofie, la strategia imprenditoriale delle imprese agricole italiane, ma la stessa presenta dei costi; pertanto, o le imprese agricole riescono a

 

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farsi pagare a prezzi adeguati e redditizi oppure le stesse imprese chiuderanno. E allora il Governo avrebbe dovuto agire per ridurre la forbice dei prezzi riorganizzando le filiere, eliminando i passaggi che non aggiungono valore e favorendo forme decentralizzate di commercializzazione, anche con esperienze di filiera corta. Avrebbe dovuto agire per difendere e sostenere il reddito degli agricoltori con una politica di equità dei prezzi che, garantendo agli agricoltori la giusta remunerazione per la qualità prodotta, assicurasse un contenimento dei prezzi per i consumatori.
      La manovra Finanziaria per il 2006,è totalmente inadeguata a fronteggiare questa grave crisi.
      Mancano indicazioni per una riforma organica della contribuzione previdenziale in agricoltura, come invece più volte annunciato ed atteso fortemente dal settore; mancano indicazioni per una messa a sistema definitiva dell'aliquota IRAP all'1,9 per cento per il settore agricolo;mancano indicazioni per il sostegno attraverso lo strumento della riduzione delle accise per i carburanti utilizzati nelle produzioni agricole. Alla scadenza del mandato ricevuto dal Governo nel 2001 occorre registrare che per quanto riguarda l'agricoltura, nel corso di questi anni, la spesa complessiva del settore si è ridotta e dequalificata con tendenza marcata di ritorno al centralismo.

6. Gli emendamenti dell'Unione: una proposta di discontinuità.

      L'Unione ha presentato una serie di emendamenti a cui attribuisce importanza e valore politico in quanto vedono l'adesione di tutte le sue componenti e delineano una manovra alternativa, basata su credibili politiche di discontinuità.
      In particolare si segnala la presentazione di proposte per:

          1) Diminuire l'imposizione fiscale sul lavoro ed assicurare un aumento di reddito dei lavoratori dipendenti: una più equa ripartizione del carico fiscale che premi il lavoro e sia più esigente con le rendite finanziarie, basandosi su una ripresa di credibilità del patto fiscale con i cittadini.

          2) Potenziare le risorse destinate alla ricerca e all'innovazione tecnologica (incremento dei finanziamenti per il Fondo per l'Innovazione Tecnologica e per il Fondo ricerca di base) per aumentare la competitività del sistema produttivo nazionale, adottare politiche di sostegno all'export, anche attraverso il miglioramento delle norme in materia di distretti industriali estendendo le agevolazioni anche ai consorzi di Piccole e Medie Imprese al fine di favorire la costituzione di nuove aree distrettuali.

          3) Aumentare gli investimenti in infrastrutture di interesse nazionale al fine di valorizzare un sistema logistico fondato sull'integrazione tra strutture portuali, interportuali, aeroportuali con idonei raccordi con le reti ferroviarie e stradali, rilanciare l'ambizioso progetto delle Autostrade del Mare, potenziare la rete ferroviaria così come migliorare la mobilità urbana attraverso investimenti mirati a potenziare l'offerta di trasporto pubblico locale.

          4) Realizzare un piano straordinario per lo sviluppo del settore turistico introducendo misure di fiscalità agevolata (riduzione dell'Iva al 10 per cento per gli anni 2006, 2007, 2008).

          5) Individuare una prima strategia di interventi sugli ammortizzatori sociali universali al fine di adeguarne gli istituti alle trasformazioni industriali in atto prevedendo, altresì, la proroga dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale ed estendere e incrementare il Trattamento di disoccupazione.

          6) Potenziare il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) per l'implementazione di interventi di medio periodo per la valorizzazione delle arti per giungere all'auspicato obiettivo dell'1 per cento delle

 

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risorse di bilancio a favore del patrimonio e delle attività culturali come traguardo da conseguire nel corso della prossima legislatura.

          7) Garantire la ripresa di interventi mirati a favore del Mezzogiorno sul lato della produttività, introducendo agevolazioni contributive per favorire l'occupazione giovanile e femminile e fiscali (credito d'imposta) per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Sono state inoltre presentate misure per: incrementare il Fondo aree sottoutilizzate fortemente decurtato con questa manovra di bilancio; Istituire il Fondo per la riqualificazione e il recupero dei centri storici urbani e delle aree metropolitane del Mezzogiorno; Mettere in sicurezza il territorio al fine di prevenire le calamità naturali; Stabilizzare i Lavoratori Socialmente Utili del Sud e dei piccoli comuni.

          8) Sostituire le misure una tantum presentate dal Governo con politiche strutturali a favore delle famiglie sui temi decisivi della natalità (istituzione del Fondo nazionale per gli asili nido), della casa (sostegno all'accesso alle locazioni abitative), delle giovani coppie (sostegno all'acquisto della prima casa), degli anziani non autosufficienti (istituzione del Fondo per il sostegno delle persone non autosufficienti), del potenziamento della rete di protezione sociale (reintegro del Fondo per le politiche sociali) che siano basate su principi di equità sociale.

          9) Ripristinare un Patto di stabilità interno, realistico e concertato, basato su meccanismi virtuosi del rispetto dei saldi, sulla premialità delle amministrazioni efficienti attraverso un quadro normativo certo e duraturo e esentando dal taglio dei trasferimenti alcune categorie di spesa di grande rilievo sociale.

          10) Intervenire nel settore sanitario adeguare le risorse complessive del Fondo sanitario nazionale garantendo il finanziamento dei Livelli essenziali di assistenza e il diritto dei cittadini all'accesso delle prestazioni impedendo il fenomeno delle cosiddette migrazioni sanitarie all'interno del territorio nazionale.

      Per concludere, la quantità e la qualità degli emendamenti che abbiamo presentato sarebbe stata l'occasione per un confronto approfondito sui temi cruciali del Paese. Un confronto che non c'è stato sia per la fretta che il Governo ha imposto ai lavori parlamentari sia per l'estrema frammentarietà della manovra che, a pochi giorni dalla sua approvazione, non è ancora del tutto nota al Parlamento e allo stesso Governo.

7. Conclusioni.

       La discussione in Commissione Bilancio della legge finanziaria non ha risposto a nessuna delle domande che pendevano sulla manovra economica in corso.
      Non ha risposto alle domande sulla validità delle previsioni macroeconomiche. L'opposizione ha richiesto la presenza del Ministro dell'Economia, anche per illustrare i termini di un chiarimento in corso con l'Unione Europea che contestava l'attendibilità delle cifre della manovra, ma il Ministro non si è presentato.
      Non ha risposto alle domande sull'attendibilità delle coperture, che in più sedi erano state oggetto di contestazione anche alla luce dei risultati negativi degli anni precedenti. Non ha risposto infine alle domande sul rapporto tra i contenuti della legge finanziaria e le ricadute sulla prospettiva di sviluppo del paese: quando e a quali condizioni saranno attivate le risorse del «pacchetto Lisbona», che sembra la Commissione Europea ci chieda di far slittare al 2006?
      Nessuno degli emendamenti significativi presentati dall'opposizione è stato approfondito ed approvato, mentre si è riproposto l'antico schema delle norme particolari che interessano territori o categorie. Su molte delle modifiche approvate si sono registrate significative divergenze tra la posizione del Governo e quella della Maggioranza, divergenze che hanno condotto in molti casi all'approvazione di testi

 

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non condivisi dal viceministro responsabile della Finanziaria. Il vero e proprio scontro che si è registrato rende ancora oggi difficile capire quale sarà il testo definitivo della Finanziaria su cui l'Aula sarà chiamata a discutere, anche alla luce delle insistenti voci che annunciano la presentazione di un ulteriore maxiemendamento correttivo su cui il Governo intende porre la fiducia.
      Emerge, come già in passato, un quadro confuso ed eterogeneo, frutto di trattative personali tra i parlamentari di maggioranza ed il Governo, privo di una caratterizzazione unitaria e di certezze sugli effetti e sui risultati.
      Abbiamo una sola certezza: che dalla legge finanziaria non emergerà una strategia di politica economica di ampio spettro, capace di dare certezze agli operatori ed ai cittadini e di orientare l'azione pubblica lungo pochi ma chiari binari.
      Al termine di un iter parlamentare povero di confronto e di dibattito confermiamo il giudizio negativo che abbiamo espresso sui contenuti della legge fin dalla sua presentazione.

Gianfranco MORGANDO,
Relatore di minoranza.


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