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PDL 5927

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5927



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato CRAXI

Disposizioni per l'indennizzo dei beni abbandonati
nei territori passati a sovranità jugoslava

Presentata il 17 giugno 2005


      

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Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge si avvale della collaborazione della Associazione nazionale Venezia-Giulia e Dalmazia (ANVGD) e può essere un utile punto di partenza per un iter parlamentare che fornisca una soluzione equa e definitiva del complesso problema dei beni abbandonati (rectius nazionalizzati ed espropriati) nei territori passati alla sovranità jugoslava dopo la II guerra mondiale.
      È comunemente noto che, alla fine della II guerra mondiale, la Conferenza di pace con l'Italia impose non pochi sacrifici al nostro Paese, il più grave dei quali non può non essere considerata la estesa mutilazione territoriale della Venezia-Giulia, ai confini orientali del Paese.
      Questa fu una dura condanna inflitta al popolo italiano, ma in forma particolarmente dolorosa agli abitanti dei territori annessi dalla ex Jugoslavia i quali, a seguito del cambio di sovranità, dell'obbligo dell'automatica acquisizione della cittadinanza jugoslava e dell'instaurato regime persecutorio nazional-comunista, furono costretti all'esodo.
      Su una popolazione istriana, fiumana e zaratina di 400/450.000 italiani, ben 300/350.000 (lo stesso Tito aveva indicato il numero complessivo in 300.000) furono coloro che abbandonarono tutto per trovare rifugio in Italia, nelle Americhe, negli Stati occidentali d'Europa e nella lontana Australia.
      Il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo ai sensi del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430, ratificato dalla legge 25 novembre 1952, n. 3054, assegnava così alla Jugoslavia 7.630 chilometri quadrati (kmq) di territorio giuliano: a quel Trattato avrebbe fatto seguito il 10 novembre 1975 l'Accordo di Osimo, reso esecutivo ai sensi della legge 14 marzo 1977, n. 73, con
 

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l'ulteriore assegnazione dei restanti 529 kmq di terre istriane, della cosiddetta «zona B», per cui dei 9.166 kmq annessi all'Italia dopo la I guerra mondiale, 8.159 sono passati alla ex Jugoslavia, rimanendone all'Italia solamente 1.700.
      La ex Jugoslavia, sin dalla fine della guerra, se non addirittura dopo l'8 settembre 1943, espropriò sistematicamente tutti i beni delle persone fisiche e giuridiche italiane siti nei territori ceduti dall'Italia in base al Trattato di pace e nella zona B del Territorio libero di Trieste, il tutto in aperta violazione dello stesso Trattato di pace.
      Infatti, per quanto concerne i territori ceduti, l'allegato XIV del Trattato di pace stabiliva, all'articolo 9 (paragrafi 1 e 2), il trattamento cui dovevano venire sottoposti i beni italiani di quei territori; disponeva cioè che i beni dei cittadini italiani, i quali il 16 settembre 1947 (entrata in vigore del Trattato di pace) non erano permanentemente residenti nei territori ceduti, non fossero soggetti «a disposizioni legislative diverse da quelle che potranno venire eventualmente applicate in maniera generale ai beni di persone fisiche e morali di nazionalità straniera e rispettivamente se di italiani permanentemente residenti nei territori ceduti al 16 settembre 1947 dovranno essere rispettati nella misura usata per quelli jugoslavi».
      Consapevole delle violazioni commesse allo scopo di costringere gli italiani all'esodo e di nazionalizzare così la Venezia-Giulia, la ex Jugoslavia stipulò con l'Italia due accordi (uno del 23 maggio 1949, cui fece seguito la legge 5 dicembre 1949, n. 1064, e l'altro del 23 dicembre 1950) con i quali si impegnò a pagare all'Italia una somma che, a conti fatti, sarebbe stata di circa 130 miliardi di lire del 1947 (corrispondenti a circa 22.000 miliardi delle vecchie lire nel 2005).
      Inoltre, il Trattato di pace proibiva la compensazione del debito bellico italiano con i beni dei cittadini italiani nei territori ceduti.
      In base all'articolo 79, l'ex Jugoslavia poteva sequestrare solo i beni italiani privati, parastatali e statali siti nell'antico territorio jugoslavo, sino alla concorrenza di 125 milioni di dollari, cifra a cui ammontavano le riparazioni belliche che l'Italia doveva pagare alla ex Jugoslavia.
      Al contrario, in violazione dei citati punti del Trattato di pace, con l'Accordo italo-jugoslavo del 18 dicembre 1954 (reso esecutivo ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 marzo 1955, n. 210) tutti i beni dei cittadini italiani (anche quelli siti nei territori ceduti) vennero inclusi nel pagamento delle riparazioni belliche e inoltre, sempre con tale Accordo (articolo 2, paragrafo 3), il Governo italiano concordò che tutti i beni italiani (fino a quel momento) non soggetti alla misura restrittiva sulla proprietà, e cioè i cosiddetti «beni liberi», dovevano essere assoggettati al trattamento cui sottostavano quelli jugoslavi.
      In tale modo, alla millenaria proprietà degli abitanti italiani autoctoni venne tolta la difesa, cioè la particolare posizione giuridica riconosciutale dal Trattato di pace.
      La cessione della particolare posizione giuridica dei beni italiani nei territori ceduti - assicurata dal Trattato di pace - non ha avuto, finora, alcuna contropartita per i loro proprietari.
      Ai proprietari dei beni italiani siti nei territori ceduti, liquidati così dal Governo italiano, è derivato solamente un «teorico» diritto soggettivo perfetto all'indennizzo, cioè un diritto che i beni siano indennizzati integralmente - al loro valore reale - dal Governo italiano (in tale senso Corte suprema di cassazione, sezione riunite civili, n. 1549 del 18 settembre 1970).
      Finora, invece, gli esuli hanno ricevuto solo delle briciole di indennizzo.
      Le suesposte considerazioni sono riferibili anche ai beni abbandonati nella zona B. Qui il Governo italiano ha avuto un comportamento palesemente contraddittorio. Infatti, nell'introduzione dei vari articoli del citato Trattato di Osimo si parla di rispetto dei diritti fondamentali della libertà, di lealtà al principio della protezione, la più ampia possibile, dei cittadini appartenenti ai gruppi etnici, ispirandosi anche ai princìpi della Carta delle Nazioni
 

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Unite, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, dei Patti universali dei diritti dell'uomo, eccetera.
      Invece, con lo stesso Trattato di Osimo il Governo italiano ha dato una copertura di legittimità a tutti questi espropri abusivi.
      È vero che l'articolo 4 del Trattato di Osimo prevedeva un indennizzo «equo ed accettabile dalle due Parti» per i beni italiani espropriati nella zona B e anche l'eventuale restituzione di una parte degli stessi. Ma tutto ciò è rimasto lettera morta, tant'è vero che, dopo trent'anni dalla firma del Trattato, questi beni non sono stati né indennizzati né restituiti.
      La presente proposta di legge, quindi, sarà utile anche per offrire dei dati di riferimento per l'indennizzo totale «equo ed accettabile» dei beni italiani nazionalizzati «abusivamente» nella zona B e mai restituiti, dato che evidentemente non erano a disposizione della Commissione che nel 1983 aveva stipulato con la controparte Jugoslavia un irrisorio indennizzo globale di soli 110 milioni di dollari, vale a dire circa 330 lire al metro quadro di terreno con sopra quanto edificato, cioè compresi alberghi, case, fabbriche, cantieri, eccetera!
      A ulteriore chiarimento di quanto sopra esposto, è utile ricordare che con il Memorandum di Londra del 1954 l'Italia ha rinunciato, a favore dell'ex Jugoslavia, a 85 miliardi di lire attinenti ai beni dei territori ceduti, il valore dei quali, secondo la valutazione dell'Ufficio tecnico erariale, ammontava complessivamente a 130 miliardi di lire, per cui veniva posta a disposizione degli esuli la sola differenza dei restanti 45 miliardi.
      Il Governo italiano, pertanto, aveva deciso di usare l'indennizzo spettante agli esuli, nella misura di 85 miliardi di lire, per ottenere il nulla osta jugoslavo all'ingresso a Trieste delle truppe italiane.
      Lo Stato italiano, quindi, per restituire il denaro a suo tempo diversamente impiegato, dovrebbe rendersi conto della necessità di rivalutare i detti importi per indennizzare integralmente i titolari dei beni abbandonati.
      Non si può non tenere presente in proposito che l'Italia è obbligata, in base al Trattato di pace del 1947, a indennizzare i beni confiscati e/o nazionalizzati e che una legge dello Stato italiano (quella di ratifica dell'Accordo di Osimo) espone che gli indennizzi devono essere «equi ed accettabili».
      Finora, invece, gli esuli titolari di beni hanno ricevuto degli acconti minimi, frammentari e inadeguati, nelle seguenti misure:

          a) per i beni nei territori ceduti, la prima legge n. 1325 del 1956 ha moltiplicato i valori dei beni del 1938 per 35, 20 e 7 (per i piccoli, medi e grandi);

          b) la seconda legge n. 193 del 1968 ha elevato i coefficienti a 50, 25 e 12;

          c) la terza legge n. 135 del 1985 li ha unificati a 200;

          d) per i beni dell'ex zona B, la prima legge n. 269 del 1958 ha fissato i coefficienti in 40, 20 e 7, elevati con la seconda legge n. 387 del 1963 a 50, 25 e 12, e con il decreto del Presidente della Repubblica n. 772 del 1977 a 75, 37 e 18.

      Da ultimo, la legge parificatoria n. 135 del 1985, già citata, li ha unificati a 200.
      Solo recentemente, con la legge 29 marzo 2001, n. 137, ai titolari di beni, diritti e interessi abbandonati nei territori ceduti all'ex Jugoslavia in base al Trattato di pace del 10 febbraio 1947 e all'Accordo di Osimo del 10 novembre 1975 è stato riconosciuto un ulteriore indennizzo, che prevede un coefficiente di valutazione che va da 350 (per i beni stimati sino a 100.000 lire), per scendere progressivamente a 150 (per i beni sino a 200.000 lire), a 50 (per i beni sino a 500.000 lire), a 30 (per i beni sino a 1.000.000 di lire), a 20 (per i beni sino a 5.000.000 di lire) e a 10 (per i beni oltre i 5.000.000 di lire).
      Il trattamento applicato ai giuliani (il valore dei beni nel 1938 moltiplicato per il coefficiente unico 200 con il pur sempre irrisorio coefficiente di rivalutazione stabilito

 

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dalla legge n. 137 del 2001) cittadini italiani autoctoni delle terre perdute, i quali hanno abbandonato tutto, è decisamente inferiore a quello praticato per i beni lasciati nei territori africani della ex colonia della Tunisia e dei cittadini italiani (non autoctoni): nel 1964 per i beni in Tunisia e nel 1970 per quelli in Libia, nel 1975 per quelli della nuova «Etiopia».
      A parte ciò, è doveroso rilevare che in Italia vige una normativa diversa per indennizzare i cittadini italiani che sono stati danneggiati nei loro beni immobili da eventi bellici, e ciò malgrado che il nostro Paese non sia vincolato in questo da trattati internazionali.
      Si tratta del decreto del Ministro dei lavori pubblici, annualmente indicizzato, che (con richiamo al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 10 aprile 1947, n. 261, alle leggi 25 giugno 1949, n. 409, 27 dicembre 1953, n. 968, e 13 luglio 1966, n. 610; al decreto del Ministro per i lavori pubblici 8 novembre 1965, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 317 del 21 dicembre 1965, eccetera) prevede la «Determinazione della base di commisurazione annua del contributo statale per il ripristino di edifici privati e distrutti a seguito di eventi bellici».
      L'articolo 27 della citata legge 27 dicembre 1953, n. 968, prescrive:

      «La base di commisurazione del contributo è determinata come segue:

          a) si stabilisce la spesa occorrente per il ripristino, la riparazione o la ricostruzione, secondo i prezzi vigenti nel mese precedente alla dichiarazione di guerra;

          b) (...);

          c) l'importo risultante si moltiplica per il rapporto esistente tra i prezzi al momento del ripristino, della riparazione o della ricostruzione ed i prezzi vigenti nel mese precedente alla dichiarazione di guerra» (maggio 1940).

      Infatti: «Il rapporto di cui alla lettera C dell'articolo 27 della legge 27 dicembre 1953, n. 968, relativa alla determinazione della base di commisurazione del contributo statale per il ripristino di edifici privati distrutti a seguito di eventi bellici, è stabilito, per tutto il territorio nazionale per il periodo 1o gennaio 1992-31 dicembre 1992, in 1.767» (decreto del Ministro dei lavori pubblici 18 ottobre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 277 del 25 novembre 1993).
      Per calcolare gli indennizzi dei beni abbandonati dagli esuli, tale coefficiente di rivalutazione (1.767 volte) va naturalmente aumentato in proporzione alla svalutazione della lira nei periodi dal 1938 al maggio 1940 e dal 1992 all'anno di entrata in vigore della presente proposta di legge.
      Per effetto di tali coefficienti, alla fine del 1993, il coefficiente di rivalutazione sarebbe stato di 2.300 volte.
      Come già detto, i beni dei profughi istriani, fiumani e dalmati vengono liquidati invece con coefficiente di rivalutazione di 200 (200 volte il valore dell'anno 1938), salvo il modestissimo incremento di coefficiente di rivalutazione previsto dalla tabella A allegata alla legge 29 marzo 2001, n.137.
      La presente proposta di legge deve sanare queste gravi ingiustizie verso i profughi istriani, fiumani e dalmati che con i loro beni hanno pagato i debiti di guerra dell'intera nazione italiana.
      Le pratiche giuliane di indennizzo giacenti al Ministero del tesoro nel dicembre 1987, secondo la comunicazione data a un senatore della Repubblica dall'onorevole Giuliano Amato, erano così riassumibili: per i beni nei territori ceduti: pratiche 24.271; per i beni ceduti nell'ex zona B: pratiche 10.359. Totale pratiche: 34.630.
      Per quanto riguarda, invece, le pratiche di cui alla legge n. 137 del 2001, che prevedeva, è bene ricordarlo, la necessità da parte dei profughi di confermare la richiesta di ulteriore liquidazione (e quindi con la certezza che molti non sono stati informati della novità legislativa, anche per il fatto che essendo in gran numero emigrati all'estero, non hanno avuto la possibilità di essere aggiornati) si ricorda che esse sono state pari a 12.407.

 

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      I beni, sia dichiarati nazionalizzati o confiscati che comunque sequestrati o abbandonati sono, ai fini pratici, la stessa cosa.
      Si eliminerebbe ogni possibile confusione adottando un'unica terminologia, come, ad esempio, quella di «beni italiani perduti in Jugoslavia».
      Dopo oltre sessanta anni di vane attese e di delusioni, la questione di un indennizzo equo e definitivo non può essere risolta (con una nuova «elemosina», come quella prevista dalla legge n. 137 del 2001) senza tenere conto che, per gli esuli, lo Stato italiano è obbligato dal Trattato di pace a definire, una volta per sempre, la materia.
      Non vanno dimenticate le lunghe attese, la perdita degli interessi maturati, la perdita forzata della terra natia, del lavoro, di relazioni commerciali e personali, la difficoltà incontrata per inserirsi in una società nuova e spesso ostile.
      La vicenda degli indennizzi liquidati agli esuli va poi esaminata, sotto il profilo giuridico, come responsabilità dell'Italia per violazione all'articolo 1 del Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), resa esecutiva ai sensi della legge n. 848 del 1955.
      Alla luce delle precedenti considerazioni risulta che, in contrasto con il Trattato di pace che manteneva il diritto di proprietà in capo ai cittadini italiani, lo Stato italiano, attraverso una serie di accordi con lo Stato jugoslavo e con la successiva legislazione emanata in materia, ha, di fatto, liquidato ai legittimi proprietari indennizzi veramente irrisori rispetto al valore integrale dei loro beni e alle date in cui sono avvenute le liquidazioni che si sono concluse, sotto il profilo legislativo, nel 1985 (con l'ulteriore appendice del 2001).
      A detta degli esperti un serio e definitivo indennizzo dovrebbe prevedere la moltiplicazione del valore al 1938, quantomeno per 4.000 o 5.000, al fine di arrivare a un valore corrispondente a quello che potrebbe essere quello attuale.
      Tutto ciò per dimostrare che gli esuli hanno subìto una violazione da parte dello Stato italiano ai sensi dell'articolo 1 del citato Protocollo addizionale, il quale ha riconosciuto, tra i propri princìpi, quello di proporzionalità per quanto concerne il pagamento dell'indennizzo.
      Il pagamento di un «indennizzo ragionevole» diventa così, nell'ottica della Corte europea di diritti dell'uomo, uno dei criteri per accertare il rispetto del «giusto equilibrio» che deve sussistere tra le esigenze dell'interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo.
      Il principio del «giusto equilibrio» che la Corte considera come un requisito implicito in ognuna delle diverse fattispecie contemplate dall'articolo 1 del Protocollo ha evidentemente una portata più ampia rispetto al requisito dell'indennizzo.
      Esso richiede che ogni misura di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni tenga conto della necessità di mantenere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito da ogni singola misura.
      Tant'è vero che la Corte ha affermato che è possibile che il principio di proporzionalità possa ritenersi violato anche in presenza di un indennizzo.
      Vi è poi da tenere presente un altro aspetto preso in considerazione dalla giurisprudenza della Corte e cioè il criterio attinente le modalità di pagamento, che deve essere effettuato entro un lasso di tempo ragionevole.
      In tale decisione la Corte si è posta il problema se l'articolo 1 del Protocollo ponga o meno allo Stato espropriante l'obbligo di pagare un indennizzo che sia corrisposto senza giustificato ritardo. Dato il silenzio in merito del testo dell'articolo 1, gli organi posti a garanzia del rispetto della CEDU hanno avuto occasione più volte di pronunciarsi, innanzi tutto, sulla questione di sapere se tale articolo ponga o meno, in capo agli Stati parte, l'obbligo dell'indennizzo di una espropriazione posta in essere a danno del cittadino.
      Sin dalle prime pronunce (nei casi James del 21 febbraio 1986 e Lithgow
 

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dell'8 luglio 1986) la Commissione europea dei diritti dell'uomo prima e successivamente la Corte europea dei diritti dell'uomo (il nuovo organo che ha sostituito la Commissione dal 1998) hanno assunto sul punto un atteggiamento univoco affermando - alla luce dell'articolo 1 e degli orientamenti interni degli Stati parte - che l'obbligo dell'indennizzo non possa essere escluso dalla portata dell'articolo 1, neppure allorché il privato leso sia cittadino dello Stato espropriante. Merita, peraltro, osservare che, a fondamento di tale valutazione, gli organi di Strasburgo hanno posto non già i princìpi generali del diritto internazionale cui l'articolo 1 del Protocollo fa riferimento - che sarebbero certamente rilevanti nel caso di espropriazioni per pubblica utilità realizzate a danno di proprietà straniere - bensì un criterio - quello della ragionevolezza dell'indennizzo rispetto al valore del bene espropriato - che essi hanno desunto direttamente dall'articolo 1 nonché dagli ordinamenti interni degli Stati parte.
      Ammettere la liceità di un'ablazione senza il pagamento di un indennizzo ragionevole significherebbe, infatti, cagionare al privato un pregiudizio eccessivo giustificabile soltanto in circostanze eccezionali.
      Esaminando le sentenze James, Lithgow nonché Santi Monasteri versus Grecia del 9 dicembre 1994, emerge come, ad avviso della Corte, un'ablazione non seguita dal pagamento di un indennizzo non può che essere illecita a norma dell'articolo 1 perché, altrimenti, tale articolo assicurerebbe una protezione largamente illusoria e inefficace del diritto di proprietà.
      E se è vero che l'indennizzo non deve corrispondere al pieno valore di mercato del bene, già la Commissione non aveva potuto non assumere un atteggiamento flessibile con riguardo a tale parametro. Questo atteggiamento di flessibilità ha portato a sostenere che il rispetto dell'articolo 1 è assicurato solo se l'ammontare dell'indennizzo è tale da mantenere un giusto equilibrio (just équilibre) tra l'interesse generale della collettività e l'interesse particolare del privato.
      È così che, come noto, si è pronunciata la Corte nella sentenza del caso Sporrong e Lonnroth laddove ha deciso che il rispetto del primo periodo del primo paragrafo dell'articolo 1 implica il mantenimento di un «just équilibre» tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali di ogni individuo.
      Ad avviso della Corte tale equilibrio non può ritenersi garantito qualora un dato comportamento statale cagioni all'individuo «une charge speciale ed esorbitant».
      Sempre nel caso Akkus versus Turchia, la Corte ha fatto riferimento al parametro del giusto equilibrio per giudicare se il ritardo con cui le autorità turche avevano pagato l'indennizzo addizionale dovuto alla ricorrente le avesse o meno cagionato un pregiudizio ulteriore rispetto a quello sofferto a causa dell'espropriazione. E ha - a tale fine - reputato necessario esaminare le modalità di pagamento previste dalla legislazione nazionale nonché il modo in cui queste erano state applicate nel caso di specie.
      La Corte ha chiarito che, a suo avviso, la ricorrente aveva diritto a un indennizzo dovuto senza ingiustificato ritardo e ha concordato che un indennizzo corrisposto con un ritardo di 17 mesi non poteva ritenersi tale!
      Ora, per tornare al caso degli esuli, vanno valutate le seguenti ipotesi:

          1) il pagamento dell'indennizzo che, ove corrisposto in modo integrale e nei tempi immediatamente successivi al raggiungimento degli accordi tra Italia e Jugoslavia, avrebbe potuto forse rappresentare la giusta corresponsione del valore del bene ancorché stimato al 1938, essendo intervenuto in misura ridicola e irrisoria a distanza di trenta e talora quaranta anni, ha, di fatto, dato vita a un comportamento e a una espropriazione illeciti. A questo proposito, potrebbero trovare applicazione i princìpi enunciati nella recente decisione del 30 ottobre 2003 (Belvedere Alberghiera/Italia), laddove la Corte ha accertato la violazione del diritto di proprietà tutelato dall'articolo 1 del Protocollo alla CEDU

 

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per effetto di una condotta di occupazione illegittima. Tanto che la stessa Corte ha ritenuto, in assenza della possibilità di condannare lo Stato alla restituzione integrale, di eliminare totalmente le conseguenze attraverso una equa soddisfazione che, in tale caso, deve necessariamente riflettere i valori interi e totali dei beni, ivi compreso il danno morale patito dal proprietario;

          2) sempre partendo dal presupposto che quanto liquidato ai cittadini italiani non ha certamente rappresentato un giusto indennizzo, data la irrisorietà della cifra corrisposta, si potrebbe sostenere che ai cittadini espropriati spetta il diritto al riconoscimento di una somma pari quanto meno a quella che sarebbe l'indennità di espropriazione dovuta ai sensi della legislazione nazionale. Come noto, per i fabbricati la legislazione vigente prevede il pagamento di una somma pari al valore integrale del bene mentre, per quanto concerne i terreni, si tratta di valutare se essi hanno o meno un'edificabilità legale. In tale caso il prezzo deve essere pari alla media tra il valore venale di mercato e il reddito dominicale dell'ultimo decennio mentre, nel caso di terreni agricoli, la quantificazione deve essere effettuata sulla base di apposite tabelle.

      A rafforzare il diritto dei cittadini italiani proprietari di beni immobili nei territori ceduti nell'ex zona B a vedersi corrispondere dallo Stato italiano un risarcimento serio e definitivo, laddove la Corte non ritenesse di condannare la Slovenia e la Croazia alla restituzione in natura dei beni, in conformità al trattamento riservato ai propri cittadini, depongono le seguenti recenti e fondamentali decisioni della stessa Corte:

          1) decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU, sezione I, 29 luglio 2004, Scordino/Italia). Tale sentenza è fondamentale in quanto, a prescindere dalla circostanza che la stessa è stata promossa per violazione dell'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, secondo cui ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata equamente ed entro un termine ragionevole (lamentando che, nelle more del procedimento giudiziario, era entrato in vigore l'articolo 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 che, per i terreni edificabili, aveva di fatto dimezzato l'indennità di espropriazione), ancora più netta è stata la censura espressa dalla Corte sul sistema indennitario previsto dal citato articolo 5-bis.
      La Corte, pur non mettendo in discussione che il giudice sopranazionale possa modulare l'indennizzo in caso di esproprio per pubblica utilità al fine di salvaguardare obiettivi legittimi di utilità pubblica, ha tuttavia riaffermato il principio che, in tali casi, l'articolo 1 del Protocollo non garantisce il diritto al pieno valore di mercato, vigendo piuttosto la regola del «giusto equilibrio» tra le esigenze e l'interesse generale e la tutela del diritto fondamentale di proprietà. E tuttavia, secondo la Corte, nel caso posto al suo vaglio il sistema italiano aveva prodotto un carico sproporzionato in danno al proprietario. L'importo dell'indennizzo, infatti, pur prendendo come base il valore venale del bene, finiva con il discostarsi radicalmente dallo stesso quando l'importo riconosciuto, pari circa al 50 per cento, veniva poi ulteriormente decurtato del 20 per cento per effetto dell'imposizione fiscale.
      Con la conclusione, nella fattispecie, che pur valutando che dall'espropriazione era trascorso un rilevante lasso temporale, la Corte ha ritenuto, all'unanimità, l'indennizzo corrispondente agli Scordino non ragionevole in rapporto al valore della proprietà espropriata, così sancendo la violazione dell'articolo 1 del Protocollo alla CEDU.
      In linea generale, dalla lettura della decisione rimane in ogni caso la fissazione di alcuni princìpi cardine, tra questi innanzitutto la netta distinzione tra espropriazione (che soddisfa la condizione di legalità) e che sarebbe stata legittima se un ragionevole indennizzo fosse stato versato, ed espropriazione arbitraria, per la quale il sistema indennitario non potrà che essere

 

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volto a ristorare in maniera integrale il pregiudizio offerto dal proprietario;

          2) decisione Corte europea dei diritti dell'uomo (n. 31443/96 del 22 giugno 2004 Broniowski/Polonia). Trattasi di vicenda, per molti aspetti, simile a quella che ha interessato gli esuli istriani, fiumani e dalmati. In tale caso, circa 80.000 cittadini polacchi furono costretti a lasciare nelle mani dei liberatori russi i territorio ad est del fiume Bug e che attualmente sono situati in Ucraina nella regione di Lviv.
      Anche all'epoca erano stati stipulati degli accordi tra i due Stati, in base ai quali il territorio e le case venivano trasferiti, senza alcuna riserva, all'Unione sovietica e con obbligo per la Polonia di pagare i danni di guerra. Nel medesimo trattato la Polonia si impegnava a risarcire i cittadini che avevano perduto la rispettiva proprietà. In effetti, sin dal 1946 la legislazione polacca aveva conferito una compensazione in natura, per cui gli stessi cittadini avrebbero potuto acquistare dallo Stato un bene o l'uso perpetuo di un bene, in compensazione delle proprietà abbandonate.
      Nel caso specifico del signor Broniowski, nel 1981 la madre del ricorrente aveva ricevuto approssimativamente il 2 per cento del valore dei terreni abbandonati, sotto forma di uso perpetuo di un terreno edificabile. Nel dicembre del 2002 la Corte costituzionale polacca dichiarò che le provvidenze previste dall'atto governativo del 1990, che escludeva l'esecuzione per i reclamanti di Bug river, era incostituzionale. Pur tuttavia il 12 dicembre 2002 la Polonia emanò una nuova disposizione di legge, secondo la quale coloro i quali avevano ottenuto un indennizzo dovevano ritenersi definitivamente tacitati, mentre a chi non aveva ottenuto nulla veniva attribuito il 15 per cento del valore originario con il limite di 50.000 zloti.
      La Corte europea dei diritti dell'uomo ha riconosciuto nella fattispecie la particolare situazione economica della Polonia a seguito degli eventi storici ma ha, tuttavia, preso atto che uno Stato non può esercitare il suo potere discrezionale in contrasto con i princìpi della CEDU.
      La Corte in sostanza ha affermato che la Polonia non ha adempiuto all'obbligazione derivante dall'articolo 1 del Protocollo 1 alla CEDU di assicurare «il pacifico godimento del possesso in modo appropriato e che nonostante la Polonia abbia titolo per espropriare la proprietà, deve comunque garantire la compensazione in "reasonable related" al valore secondo i princìpi stabiliti dall'articolo 1, protocollo 1 della Convenzione».
      In conclusione vi è stato uno sproporzionato ed eccessivo peso, non giustificato da un legittimo interesse della comunità.
      Ebbene, è opportuno notare le differenze sostanziali e per altri versi, invece, analoghe con quanto accaduto per gli esuli istriani, fiumani e dalmati.
      Per gli esuli istriani, fiumani e dalmati esisteva un Trattato di pace che, da un canto, prevedeva l'obbligo per lo Stato italiano di risarcire i danni di guerra alla Jugoslavia e, dall'altro, manteneva il diritto di proprietà in capo ai singoli cittadini, diritto che avrebbe dovuto rispettare soprattutto la Jugoslavia.
      Lo stesso Trattato di pace escludeva, inoltre, la possibilità di compensare in alcun modo il debito di guerra con altri diritti vantati dalla Jugoslavia nei confronti dell'Italia.
      Al contrario, il Trattato intervenuto tra Polonia e Unione Sovietica prevedeva il trasferimento a titolo gratuito del territorio e delle case dei profughi e l'obbligo per la Polonia di risarcire i danni di guerra.
      In realtà in Italia si è verificato che i danni di guerra sono stati poi pagati con i beni degli esuli, mentre ciò non è avvenuto in Polonia, dato che i danni di guerra sono stati pagati dalla intera collettività.
      Risultano, quindi, ancora più evidenti la sproporzione e il pregiudizio subiti dagli esuli che, con i loro beni, hanno pagato un debito appartenente all'intera collettività.
      Questo rende ancora più evidente e palese la sproporzione che si è venuta a determinare, poiché se la situazione economica del Paese poteva ritenersi alla fine

 

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della guerra pesante per l'intero popolo italiano, era a carico dello stesso popolo che doveva gravare il peso del debito di guerra e non certamente sui soli esuli che tale debito hanno pagato con i loro beni.
      Ma, per tornare alla legislazione interna che, come quella polacca, ha previsto un indennizzo irrisorio e quindi ha violato non solo il giusto equilibrio che deve sussistere allorquando vi è un'espropriazione per pubblica utilità con riferimento al diritto di proprietà, ma anche la «ragionevole relazione» che vi è tra l'espropriazione nell'interesse della collettività e il valore del bene che viene sottratto al cittadino, non si può non rammentare come lo stesso legislatore italiano, sia pure con una iniziativa che non è poi stata tradotta in alcuna legge, ha pacificamente indicato quanto meno in un decimo del reale valore i beni che sono stati pagati ai cittadini italiani che avevano perduto le loro case rispetto ai valori quantificati nel 1993 e, quindi, oltre dodici anni ha.
      In conclusione di quanto esposto, la presente proposta di legge stabilisce nuove disposizioni per garantire il diritto degli esuli ad un indennizzo giusto e ragionevole.
      L'articolo 1, ai fini della determinazione del coefficiente equo e definitivo di rivalutazione del prezzo e dei beni dal 1938, prevede l'applicazione del coefficiente di rivalutazione del contributo statale per il ripristino degli edifici privati, distrutti a seguito di eventi bellici che, ai sensi dell'articolo 13 della legge 13 luglio 1966, n. 610, è stabilita annualmente con decreto del Ministro dei lavori pubblici (ora Ministro delle infrastrutture e dei trasporti), in base ai dati dell'Istituto nazionale di statistica.
      L'articolo 2 fissa l'equo prezzo medio nell'anno 1938 in misura pari a 1,5 volte il valore di stima dei beni in base al quale sono stati corrisposti gli indennizzi di cui all'articolo 1. È stato infatti accertato da una commissione di esperti della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trieste che tali valori corrispondono mediamente al 65 per cento del valore effettivo.
      Gli articoli 3, 4 e 5 recano disposizioni in materia di modalità di pagamento, validità delle richieste ed esenzioni fiscali degli indennizzi.
      Con l'articolo 6 si intendono favorire i piccoli proprietari dei beni abbandonati (con valore dei beni fino a 200.000 lire nel 1938), che costituiscono l'88,74 per cento del numero delle pratiche, corrispondenti solo al 20,76 per cento del valore totale dei beni stessi, rispetto ai grandi proprietari.
      L'articolo 7, in fine, reca la copertura finanziaria.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Indennizzo definitivo).

      1. Ai titolari di beni, diritti e interessi italiani siti nei territori ceduti alla Jugoslavia in base al Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, reso esecutivo ai sensi del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 novembre 1947, n. 1430, ratificato dalla legge 25 novembre 1952, n. 3054, e nella zona B del Territorio libero di Trieste, di cui alle leggi 5 dicembre 1949, n. 1064, 31 luglio 1952, n. 1131, 29 ottobre 1954, n. 1050, al decreto del Presidente della Repubblica 17 agosto 1955, n. 946, alle leggi 8 novembre 1956, n. 1325, 18 marzo 1958, n. 269, 6 ottobre 1962, n. 1469, 2 marzo 1963, n. 387, 6 marzo 1968, n. 193, al Trattato firmato a Osimo il 10 novembre 1975, reso esecutivo ai sensi della legge 14 marzo 1977, n. 73, al decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1977, n. 772, e alle leggi 26 gennaio 1980, n. 16, 5 aprile 1985, n. 135, e 29 marzo 2001, n. 137, è corrisposto dal Ministero dell'economia e delle finanze l'indennizzo definitivo sulla base dell'equo prezzo medio dei beni nell'anno 1938 moltiplicato per il coefficiente di rivalutazione del contributo statale per il ripristino degli edifici privati distrutti da eventi bellici, ovvero per il rapporto tra i prezzi attuali e i prezzi degli edifici vigenti nel mese precedente la dichiarazione di guerra, maggio 1940, stabilito annualmente con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in base ai dati dell'Istituto nazionale di statistica, con l'incremento relativo alla svalutazione della lira nel periodo dal gennaio 1938 al maggio 1940.
      2. Gli indennizzi corrisposti sino alla data di entrata in vigore della presente legge ai sensi delle norme di cui al comma 1

 

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sono detratti dall'indennizzo definitivo di cui al medesimo comma.

Art. 2.
(Definizione del prezzo medio
di indennizzo).

      1. L'equo prezzo medio di indennizzo nell'anno 1938, di cui all'articolo 1, è fissato in misura pari a 1,5 volte il valore di stima dei beni stessi in base al quale sono stati corrisposti gli indennizzi di cui al citato articolo 1.

Art. 3.
(Modalità di pagamento degli indennizzi).

      1. Il pagamento degli indennizzi definitivi previsti dall'articolo 1 è effettuato in contanti o in titoli di Stato, su decisione del Ministero dell'economia e delle finanze.

Art. 4.
(Validità delle richieste di indennizzo).

      1. Agli effetti della presente legge sono valide le denunce e le richieste di indennizzo già presentate ai sensi delle norme citate all'articolo 1 ad esclusione delle domande confermate di cui all'articolo 2 della legge 29 marzo 2001, n. 137, nei termini ivi previsti, prorogati dall'articolo 7 del decreto-legge 23 novembre 2001, n. 411, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 dicembre 2001, n. 463.

Art. 5.
(Esenzioni fiscali degli indennizzi).

      1. Le somme riguardanti gli indennizzi definitivi di cui agli articoli 1 e 2 non sono considerate come redditi tassabili e sono esenti da qualsiasi imposta o tassa.
      2. Le somme di cui al comma 1, inoltre, non concorrono a determinare il patrimonio

 

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imponibile e le relative aliquote ai fini delle imposte.
      3. Le somme degli indennizzi già corrisposti in base alle norme citate all'articolo 1 sono esenti dalle imposte dovute per gli atti di trasferimento a titolo oneroso.

Art. 6.
(Termini di esecuzione degli indennizzi).

      1. Gli indennizzi definitivi sono erogati agli aventi diritto in base agli accertamenti già acquisiti dagli organi ministeriali ai sensi dell'articolo 4, entro e non oltre il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge per i beni con valore all'anno 1938 fino a 200.000 lire.

Art. 7.
(Copertura finanziaria).

      1. Agli oneri derivanti dall'attuazione della presente legge, pari a 3.500 milioni di euro, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2005-2007, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2005, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero.
      2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.


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