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PDL 5713

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5713



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

TREMONTI, ANGELINO ALFANO, ANTONIO LEONE, CASERO, GIANFRANCO CONTE, JANNONE, LUPI, GIOACCHINO ALFANO, AMATO, ARACU, AZZOLINI, BAIAMONTE, ANTONIO BARBIERI, BLASI, BORRIELLO, BRUNO, CALIGIURI, CAMINITI, CAMMARATA, CAPUANO, CARLUCCI, CESARO, CICALA, COSENTINO, CRIMI, CUCCU, DELL'ANNA, FALANGA, FALLICA, FLORESTA, GAZZARA, GERMANÀ, GIUDICE, GRIMALDI, LAZZARI, LEZZA, LORUSSO, MAIONE, MARINELLO, MARRAS, MASSIDDA, MILANESE, MISURACA, MORMINO, PALUMBO, PERROTTA, PITTELLI, ANTONIO RUSSO, PAOLO RUSSO, SANTULLI, SANZA, SARDELLI, SPINA DIANA, STAGNO D'ALCONTRES, TARANTINO, GIACOMO VENTURA, ALFREDO VITO

Costituzione, in forma di società per azioni,
della Banca del Mezzogiorno

Presentata il 10 marzo 2005


      

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Onorevoli Colleghi! - Il Mezzogiorno d'Italia - più di 20 milioni di abitanti - è l'unico grande «territorio» d'Europa a essere sostanzialmente «debancarizzato». Non è stato così, per secoli. E non è così, nel resto d'Europa. Dalla Scozia alla Catalogna, dalla Baviera alla Boemia ai Paesi Baschi, tutti i grandi «territori» d'Europa hanno, di diritto o di fatto, banche proprie. Vecchissime o nuovissime, grandi, medie o piccole, comunque banche autoctone. Banche che dei propri «territori» testimoniano ed esprimono, sostengono e proiettano la vitalità economica e sociale.
      È l'opposto nel Mezzogiorno. Certo molte banche sono attive nel Mezzogiorno, ma non sono banche del Mezzogiorno. Non si tratta di una differenza secondaria o finanziaria. Si tratta di una differenza primaria e sostanziale: sociale ed economica,
 

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politica e storica. Prima di essere «unificato» (nel nord), il Mezzogiorno aveva un suo proprio, se pure fortemente arretrato, sistema politico; aveva un suo proprio e invece molto evoluto sistema finanziario; era a ridosso della rivoluzione industriale. I titoli delle Due Sicilie erano trattati nelle principali piazze finanziarie d'Europa. Non solo vasti settori dell'agricoltura meridionale competevano direttamente sul mercato internazionale, ma le manifatture tessili e meccaniche, i cantieri e le ferrovie delle Due Sicilie erano un forte incubatore di sviluppo industriale.
      Poi è venuta l'«unificazione», che ha annichilito la società meridionale e di riflesso e per conseguenza ha interrotto il suo processo di sviluppo. Da un giorno all'altro, antiche e gloriose capitali sovrane furono trasformate in prefetture, senza che ci fosse, nel Mezzogiorno, il baricentro di una forte società «municipale». Un tipo di società civile - questa - che era invece presente e per compensazione sarebbe divenuta sempre più forte, nel resto del Paese.
      Eliminate le vecchie strutture politiche centrali, il Mezzogiorno si trovò invece nel vuoto: senza il suo centro; sotto un centro che per decenni sarebbe stato remoto e alieno, quando non ostile; senza una base municipale. Fu la fine del processo di sviluppo del Mezzogiorno: senza più una sua guida, sotto una guida esterna, l'economia meridionale si fermò. Le classi lavoratrici restarono sulla terra. O furono poi spinte all'emigrazione. Le classi dirigenti prima, e poi altri vasti strati di popolazione, iniziarono invece una loro speciale migrazione interna, dentro la burocrazia del nuovo Stato centrale.
      Sopravvisse tuttavia, tanto era forte, il sistema bancario meridionale, basato sui grandi istituti di Napoli, della Sicilia e della Sardegna, attivi nel Mezzogiorno, nel nord, all'estero. E su una vasta e complementare rete di banche territoriali. Poi di colpo - più o meno nell'ultimo decennio - tutto è imploso e precipitato, fino al collasso. Per cause diverse: per le radicali mutazioni intervenute nel sistema di aiuti di finanza pubblica, italiani ed europei; per l'occupazione «politica» delle banche, quasi tutta degenerata, ma da quasi tutti tollerata. E per altro ancora.
      Non è questa la sede per processare il passato, ma per guardare al futuro. L'attuale «debancarizzazione» del Mezzogiorno è tanto sintomatica quanto problematica. Essa è insieme una prova e una causa della sua crisi. In Europa c'è una doppia costante: lo sviluppo si produce e si muove essenzialmente «per territori» e tutti i «territori» hanno proprie banche.
      Perché il capitale finanziario è certo necessario per lo sviluppo ma, se anche se ne dispone in quantità sufficiente, comunque da solo non basta. È infatti il «territorio» in sé che ingloba ed esprime le conoscenze strategiche essenziali per il suo sviluppo. È solo il «territorio», con la sua popolazione, con il suo capitale umano che, usando il capitale finanziario, può produrre lo sviluppo. Non è così nel Mezzogiorno, unica terra d'Europa in cui le costanti sono diverse: la finanza pubblica è quasi per compensazione storica chiamata a sostituire da fuori quella privata e quella privata - quella che c'è - non è comunque propria del Mezzogiorno.
      Il problema non è tanto oggettivo, quanto soggettivo. Non è tanto e soltanto quanto credito si eroga ed a che prezzo. È soprattutto chi lo eroga: con quale spirito, con quale reale impegno. Non sempre, ma a volte ci si può spingere con lungimiranza oltre il gelido calcolo dei ratios. Le «leggi finanziarie» sono certo necessarie, ma da sole non sono sufficienti. A loro volta, le banche che operano nel «territorio», ma non sono del «territorio», non bastano. Nel sistema manca un altro pezzo, che non si crea e non si porta da fuori. Con promesse che creano illusioni e delusioni che portano nuove promesse. In un'eterna novena sociale. Fino a che non sarà il Mezzogiorno stesso a terminarla.
      Il Mezzogiorno non si può rassegnare ad avere un passato, ma non un futuro. Se ha un suo passato, può avere un suo futuro. Ed è tempo che smetta di guardare nella sua ombra. Sarebbe solo una tra le tantissime cose che si possono fare, cose pratiche o cose simboliche, e queste non
 

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meno importanti di quelle, ma ripartire dal Mezzogiorno per fare rinascere nel Mezzogiorno una sua banca, non è impossibile, è necessario.
      Più in dettaglio. Il sistema creditizio italiano ha attraversato una lunga fase di ristrutturazione che ne ha profondamente modificato la morfologia.
      La spinta all'efficienza e alla competitività ha ispirato l'opera di ammodernamento dell'assetto normativo, le cui carenze erano state messe a nudo anche da numerose patologie che hanno interessato banche sia del centro-nord che del Mezzogiorno.
      La lista di banche assoggettate a provvedimenti di rigore o sottoposte a procedure straordinarie di salvataggio è lunga. In molti casi lo Stato è dovuto intervenire con provvedimenti di eccezionale portata, adoperando denaro pubblico per tutelare gli interessi dei risparmiatori e la stabilità del sistema.
      L'utilizzo del così detto «decreto Sindona» ha consentito di porre argine alle crisi di banche tanto del nord (si pensi alla Banca privata e al Banco ambrosiano), quanto del sud (si pensi al Banco di Napoli e alla Sicilcassa).
      Tuttavia, dove il tessuto economico era più solido, il sistema bancario ha saputo fornire una risposta «locale» pronta e adeguata; nel Mezzogiorno, invece, il ritardo nello sviluppo economico, associato a una perdurante recessione, si è tradotto, verso la metà degli anni '90, nel crollo dell'intero sistema creditizio locale.
      Ne è derivata la necessità di fare ricorso a interventi da parte di gruppi bancari del centro e del nord per evitare impatti sistemici, per dare continuità al supporto finanziario alle imprese locali e, non da ultimo, per scongiurare la dispersione del patrimonio di relazioni, tradizioni, cultura e storia di cui erano espressione i grandi Banchi del Mezzogiorno.
      Peraltro, quello che era - e doveva rimanere - un intervento necessario, mirato e straordinario, ha nel tempo assunto le caratteristiche non di un'opera di ripristino (si intende, di condizioni di efficienza), ma di un'azione volta alla sostituzione del ceto creditizio meridionale con quello del centro-nord, portatore sì di una nuova cultura manageriale, ma estraneo alle esigenze del territorio.
      È ora il momento di valutarne le conseguenze e verificare se l'attuale fisionomia del sistema creditizio meridionale rappresenti ciò di cui il Mezzogiorno ha bisogno per ridurre il divario economico dal resto del Paese.
      Nel periodo compreso tra il 1990 e il 2001, anni in cui il credito meridionale ha voltato pagina, il numero delle banche operanti nel Mezzogiorno si è pressoché dimezzato, mentre nelle restanti regioni la riduzione è stata del 20 per cento. Ciò in ragione del fatto che alla normale crescita dimensionale attraverso aggregazioni, fenomeno che ha interessato l'intero sistema, si è associata nel sud una tendenza alla «debancarizzazione», resa ancora più evidente dall'ingresso di banche del nord nella compagine azionaria delle principali banche meridionali. Nello stesso lasso temporale si sono infatti perfezionate ben 87 operazioni di incorporazione o di acquisizione del controllo di banche meridionali da parte di banche del centro-nord, operazioni che, da un punto di vista dimensionale, hanno interessato oltre la metà dei fondi intermediati nelle regioni del Mezzogiorno.
      Se è così - ed è così - appare difficile sostenere che nel Mezzogiorno sia cresciuto il grado di concorrenza tra banche!
      Questa valutazione trova riscontro impietoso nella lettura dei dati relativi all'offerta di credito: solo il 14 per cento del totale dei prestiti erogati dalle banche italiane è diretto a imprese del Mezzogiorno che, ricordiamo, con circa 20 milioni di abitanti, rappresenta il 35 per cento della popolazione nazionale. Se osserviamo questo dato, che di per sé esprime il distacco dal resto dell'Italia in termini di vitalità imprenditoriale e di ricchezza, è ben magra consolazione rilevare che la percentuale del risparmio raccolto e investito nelle altre regioni è recentemente passata dal 25 per cento al 15 per cento, dato comunque indicativo di una persistente limitatezza dell'offerta di
 

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credito. Quello che è invece evidente è che esistono economicamente e finanziariamente due Italie che divergono.
      Questa divergenza diventa ancora più tangibile quando consideriamo il differente costo del credito che grava sugli imprenditori del sud rispetto a quelli del centro-nord.
      In un recente studio della Banca d'Italia si legge che il costo del credito nel Mezzogiorno rimane superiore rispetto al centro-nord. Secondo questa ricerca, il differenziale di tasso sarebbe mediamente dell'1,6 per cento, ovvero, tenendo conto di alcuni correttivi basati sulla diversa tipologia dei prenditori, dello 0,9 per cento. Tale differenziale (che tradotto in euro vuol dire pressappoco da 1,2 a 2,2 miliardi di euro in più all'anno) troverebbe una giustificazione economica nella maggiore rischiosità del credito nel Mezzogiorno, espressa dalla più elevata incidenza delle sofferenze sugli impieghi.
      Ma c'è di più: se invece di ragionare per dati medi, facciamo una verifica a livello disaggregato - e citiamo i dati riportati in una ricerca dell'Istituto Guglielmo Tagliacarte di Unioncamere - ci accorgiamo che quel dato medio indicato dalla Banca d'Italia in realtà nasconde fenomeni che non possono che suscitare allarme. Infatti, la verità è che nel Mezzogiorno stesso esistono enormi differenze tra i tassi applicati tra una provincia e l'altra; a Napoli e a Palermo il tasso di interesse a breve (che è quello più indicativo) era nel giugno del 2001 del 7,8 per cento contro il 5,79 per cento di Milano, ma a Vibo Valentia, nello stesso periodo, il tasso a breve era del 9,9, più di quattro punti percentuali rispetto a quello di Milano!
      A noi sembra evidente che l'extracosto che grava su tutte le imprese del Mezzogiorno e che contribuisce a frenarne lo sviluppo sia il frutto di due anomalie.
      La prima: sappiamo che esiste una correlazione negativa tra prodotto interno lordo (PIL) e incidenza delle sofferenze; nelle aree dove il PIL pro capite è più alto, si registra infatti la percentuale delle sofferenze sugli impieghi più bassa e, viceversa, più una regione è povera, più alta è la percentuale di insolvenze e, di conseguenza, più caro è il credito. Si tratta della classica e inesorabile «causazione circolare cumulativa» che non può che innescare una spirale perversa, che mortifica le ambizioni e la voglia di riscatto di una larga parte del nostro Paese. Liquidare questo fenomeno asserendo che il differenziale di tasso è economicamente giustificato dalla maggiore rischiosità degli impieghi nel Mezzogiorno può essere accettabile sotto il profilo della gelida analisi numerica, ma non può lasciare indifferente una classe politica che abbia a cuore le sorti del nostro Paese.
      La seconda anomalia può essere espressa con un quesito: può una banca estranea al tessuto economico locale interpretare le esigenze del territorio, elaborare correttamente le informazioni locali e applicare prezzi commisurati alla reale rischiosità del singolo imprenditore, senza cioè «spalmare» indistintamente su tutti i clienti l'extracosto correlato alla maggiore incidenza delle sofferenze sugli impieghi?
      Noi riteniamo che solo un ceto bancario radicato nel territorio ed espressione della classe imprenditoriale locale sia in grado di attuare una politica selettiva del credito volta a incoraggiare le imprese meritevoli, facendo da volano per l'avvio di un circolo virtuoso che rilanci lo sviluppo del territorio stesso.
      Avvertiamo quindi il dovere di farci carico di un'iniziativa volta alla restituzione al sud di una «dorsale» bancaria che polarizzi e rilanci le capacità imprenditoriali del Mezzogiorno stesso. Non pensiamo a una controriforma, ma a una banca che nasca per iniziativa pubblica e sia finalizzata allo sviluppo del territorio, che sia al contempo ispirata e conforme all'assetto normativo e istituzionale attuale, destinata fin da subito ad accogliere nella compagine azionaria il ceto imprenditoriale locale e ad interpretarne le istanze.
      È su queste basi che auspichiamo nasca la «Banca del Mezzogiorno».
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. Con l'obiettivo di sostenere lo sviluppo economico del Mezzogiorno è costituita, in forma di società per azioni, la Banca del Mezzogiorno, di seguito denominata «Banca».
      2. In armonia con la normativa comunitaria e con il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze sono disciplinati:

          a) lo statuto della Banca, ispirato ai princìpi già contenuti negli statuti dei banchi meridionali e insulari;

          b) il capitale della Banca, in maggioranza privato e aperto, secondo le ordinarie procedure e con criteri di trasparenza, all'azionariato popolare diffuso, con previsione di un privilegio patrimoniale per i vecchi soci dei banchi meridionali. Stato, regioni, province, comuni, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, altri enti e organismi hanno la funzione di soci fondatori. Per la parte pubblica, la sottoscrizione di capitale può essere direttamente o indirettamente operata attraverso la Cassa depositi e prestiti spa;

          c) le modalità per provvedere, attraverso trasparenti offerte pubbliche, all'acquisizione di marchi e di denominazione, entro i limiti delle necessità operative della stessa Banca, di rami di azienda già appartenuti ai banchi meridionali e insulari;

          d) le modalità di accesso della Banca ai fondi e ai finanziamenti internazionali, in particolare con riferimento alle risorse rese disponibili da organismi sopranazionali per lo sviluppo delle aree geografiche sottoutilizzate.


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