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PDL 5397

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5397



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato ONNIS

Modifiche all'articolo 333 del codice di procedura penale, in materia di utilizzabilità delle denunce anonime per finalità investigative

Presentata il 3 novembre 2004


      

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Onorevoli Colleghi! - Nel processo penale, i documenti che contengono dichiarazioni anonime, in quanto provenienti da autore ignoto, «non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati», secondo quanto dispone l'articolo 240 del codice di procedura penale, «salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato».
      Con analogo orientamento, ma ricorrendo a una differente e - almeno apparentemente - meno drastica elaborazione letterale, l'articolo 141 del codice di procedura penale previgente vietava che tali documenti anonimi venissero uniti agli atti del procedimento e precisava che di essi non poteva farsi «alcun uso processuale».
      La formulazione dell'articolo 240 del codice in vigore sembra dunque aver voluto precludere l'ingresso e l'uso dell'anonimo nel procedimento penale in modo più ampio e più rigido rispetto al passato, perché non limita più tale divieto all'uso «processuale» del documento e, per contro, efficacemente sottolinea che esso non è «in alcun modo» utilizzabile.
      Il comma 3 dell'articolo 333 dello stesso codice prende poi più precisamente in considerazione le «denunce anonime», che costituiscono, evidentemente, una particolare categoria dei documenti recanti dichiarazioni anonime, prescrivendo, al riguardo, che di esse «non può essere fatto alcun uso, salvo quanto disposto dall'articolo 240».
      La norma appena citata si inserisce nel titolo II («Notizia di reato») del libro V («Indagini preliminari e udienza preliminare») del codice di rito; pertanto, sia il tenore letterale dell'articolo 333, comma 3, citato, sia la sua collocazione sistematica, rendono manifesta la volontà del legislatore, che ha inteso impedire anche l'uso delle denunce anonime quale primo atto delle indagini preliminari.
      Si è peraltro correttamente osservato che il divieto in questione «colpisce gli usi
 

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processuali» dell'anonimo, ovvero, come da altri sostenuto, «concerne unicamente l'uso (...) ai fini del procedimento penale», precludendo innanzi tutto al pubblico ministero di ordinare l'iscrizione nel registro delle notizie di reato, in base a quanto dichiarato dall'ignoto esponente (articolo 335 del codice di procedura penale e articolo 5 del regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale, di cui al decreto del Ministro di grazia e giustizia 30 settembre 1989, n. 334, ove si dispone che tali documenti anonimi siano annotati in un apposito registro).
      Le norme vigenti sicuramente escludono, dunque, che gli anonimi possano essere in qualunque modo utilizzati nell'ambito del procedimento penale; nulla si dispone, tuttavia, a proposito dell'uso definito «preprocessuale» di tali denunce, cui, nella prassi, gli inquirenti spesso attingono, rintracciandovi gli spunti per avviare accertamenti finalizzati all'acquisizione di un'eventuale notizia di reato.
      Si è notato, al riguardo, che l'articolo 330 del codice di procedura penale consente al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria di prendere notizia dei reati «di propria iniziativa», senza attendere, dunque, l'impulso di una fonte esterna; pertanto, si argomenta, «non esiste (...) un controllo sulle matrici mentali dei remoti passi investigativi»: l'idea di indagare a proposito di un determinato fatto, ovvero nei confronti di una o più persone, può avere qualunque origine, dalla logica alla fantasia, e quindi ben può essere suscitata anche dal contenuto di un esposto anonimo. Tale ineccepibile affermazione dovrebbe condurre a equiparare in tutto l'attività investigativa suggerita dall'anonimo a quella svolta, prima e in vista dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato, per esclusiva iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria; nell'uno e nell'altro caso, infatti, si tratta di attività compiute al fine di acquisire una notitia criminis che, allo stato, manca.
      In altri termini, il potere-dovere riconosciuto agli inquirenti, a seguito della ricezione di un esposto anonimo, sarebbe soltanto quello di compiere «i necessari atti preliminari di verifica conoscitiva, al fine di acquisire, eventualmente, una valida notitia criminis» (Cassazione, 21 settembre 2001, Bottiglieri).
      Nella pratica, peraltro, i princìpi appena sintetizzati, elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, vengono spesso disattesi, a causa - deve ritenersi - dell'assenza di precise indicazioni normative circa la rilevanza «preprocessuale» delle denunce anonime.
      Si registrano, così, i più diversi orientamenti, presso i vari organi di investigazione, sia a proposito della scelta di accantonare subito la denuncia anonima, ovvero di approfondirne i contenuti e di verificarne la fondatezza, sia, poi, a proposito del modo di procedere, nel corso di tali accertamenti.
      Attualmente, infatti, la stessa denuncia anonima potrà avere o non avere un seguito investigativo, in base alla valutazione personale, assolutamente discrezionale e, perciò, incontrollabile del magistrato o dell'ufficiale di polizia giudiziaria chiamato a valutarla, a prescindere dalla precisione e dalla verosimiglianza dell'esposto, come pure dalla gravità dei fatti denunciati.
      Quando poi si decide di assecondare l'impulso investigativo offerto dall'anonimo, è incerto l'ambito entro il quale gli inquirenti possono legittimamente operare, con l'obiettivo di acquisire una valida notizia di reato, direttamente utilizzabile nel procedimento.
      Infatti, da un lato si è espressamente chiarito che «una denuncia anonima (...) non può essere considerata quale notizia di reato; sulla sua scorta possono essere soltanto compiuti accertamenti volti a verificarne la fondatezza, purché non si risolvano in atti che rechino pregiudizio ai diritti del cittadino» (Cassazione, 8 marzo 1995, Ceroni).
      Per tale più restrittiva impostazione, le attività investigative legittimamente esperibili in relazione al contenuto di una denuncia anonima sarebbero dunque solo quelle non invasive, quali, ad esempio, l'audizione di persone che appaiono in grado di riferire circostanze utili, l'osservazione e il controllo
 

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da parte della polizia giudiziaria, l'acquisizione di documenti (in questo senso, Cassazione, 30 giugno 1995, Catastini, ove infatti si ha cura di precisare che «l'esibizione di documenti da parte di terzi» può essere funzionale anche all'«acquisizione di una notitia criminis»).
      Tuttavia, in senso opposto, si è affermato che «l'autorità giudiziaria (...) non potrà mai servirsi delle verità emergenti dall'anonimo, il quale, però, potrà essere l'occasione perché si indaghi, si ricerchi, si ricorra a mezzi di prova o a mezzi di ricerca della prova, quali ad esempio, i sequestri e le perquisizioni. Se i sequestri e le perquisizioni o altro avranno fatto emergere la verità, quest'ultima non sarà meno vera sol perché rinvenuta, attraverso legittimi strumenti - il che significa che sono questi e non lo scritto anonimo la fonte della verità - utilizzati muovendo da uno scritto anonimo» (Cassazione, 6 aprile 1993, Kila; vedasi anche Cassazione, 5 maggio 1994, Mazzeo).
      Simili conclusioni non potrebbero essere condivise, in quanto giungono a legittimare qualunque iniziativa di indagine, anche se derivata da una fonte anonima; esse, inoltre, per quanto siano state avversate da altre decisioni (Cassazione, 18 giugno 1997, Sirca), contribuiscono all'incertezza che, come si è evidenziato, domina il tema dell'uso «preprocessuale» degli esposti anonimi.
      Con la presente iniziativa si propone, dunque, di integrare il contenuto dell'articolo 333 del codice di procedura penale, introducendo tre nuovi commi (3-bis, 3-ter e 3-quater), che intervengono sulle principali questioni pratiche e interpretative individuate.
      Innanzi tutto, non si è ritenuto di dover introdurre un divieto di indagare in merito al contenuto delle denunce anonime.
      Si considera, infatti, come nella prassi, e soprattutto in particolari contesti socio-culturali, sia assai frequente il ricorso alla segnalazione anonima: talvolta, effettivamente, essa è priva di qualunque riscontro nella realtà e sembra ispirata dall'unico intento di diffamare o di calunniare le persone contro le quali si rivolge; in altri casi, però, la scelta di denunciare un fatto penalmente rilevante senza manifestare la propria identità dipende dalla consapevolezza dei rischi (o, comunque, degli inconvenienti) cui ci si esporrebbe seguendo le ordinarie modalità di denuncia.
      Si pensi a un fatto accaduto all'interno di piccole comunità, ovvero in ambiti sottoposti al costante, capillare controllo della malavita, ove sarebbe eccessivamente compromettente il pur minimo contatto diretto con le Forze dell'ordine o con la magistratura inquirente.
      In tutti questi casi, la denuncia anonima, se circostanziata e aderente alla verità, offre un contributo decisivo all'individuazione dei reati e dei responsabili, tanto che sarebbe impropria la decisione di accantonarla, solo perché, appunto, proveniente da una fonte almeno inizialmente non identificata.
      D'altro canto, l'eventuale divieto di indagare in merito al contenuto degli anonimi sembrerebbe non potersi armonizzare con il potere-dovere di prendere notizie dei reati di propria iniziativa, riconosciuto, dall'articolo 330 del codice di procedura penale, al pubblico ministero e alla polizia giudiziaria. Dato che gli inquirenti dispongono di tale potestà, che peraltro non merita di essere eliminata, a nulla varrebbe precludere lo svolgimento di accertamenti originati dalle denunce anonime, che, in ogni caso, continuerebbero a offrire soltanto l'occasione, l'idea per l'esercizio di una legittima prerogativa.
      Senza dire che sarebbe facile svuotare quel divieto di qualunque rilievo pratico, accantonando, formalmente, la segnalazione anonima, per avviare quanto prima, sui medesimi contenuti dell'esposto, accertamenti di iniziativa che nessuno sarebbe in grado di ricondurre alla fonte anonima.
      I commi 3-bis e 3-ter - che si introducono al testo vigente dell'articolo 333 del codice di procedura penale - dispongono, pertanto, che gli inquirenti, giudicata precisa e verosimile la segnalazione anonima loro sottoposta, intraprendono, sollecitamente, tutte le iniziative utili a verificarne la fondatezza, con l'esclusione degli atti cui il difensore ha diritto di assistere.
 

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      In questo modo, si auspica che le denunce anonime prive di qualunque spunto per le indagini, vaghe, magari perché evidentemente animate soltanto da intenti diffamatori, siano senz'altro trascurate dalla magistratura e dalle Forze di polizia, che potranno più utilmente concentrarsi su diverse, più proficue attività. Gli sforzi investigativi sarebbero dunque giustificati solo dalla precisione e dalla verosimiglianza della dichiarazione anonima, che, nella valutazione degli uffici preposti alle indagini, promette di dare origine a una vera e propria notizia di reato.
      L'espresso divieto di compiere atti cui il difensore ha diritto di assistere, durante tale fase di accertamenti «preprocessuali», dovrebbe eliminare le oscillazioni interpretative che su questo delicatissimo punto si sono finora registrate, accogliendo la tesi più garantista, già oggi preferita dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti.
      All'esito di tali accertamenti, secondo il comma 3-quater, che dovrebbe completare il testo del più volte citato articolo 333, dovrà poi disporsi l'iscrizione nel registro delle notizie di reato (articolo 335 del codice di procedura penale) o in quello degli atti non costituenti notizia di reato (modello 45), secondo che, ovviamente, sia emersa o non sia emersa una notitia criminis; in ogni caso, nei fascicoli così formati non potrebbe inserirsi l'esposto anonimo all'origine delle indagini.
      Tale ultima precisazione vuole evitare che la denuncia anonima, acquisita agli atti, possa ricevere qualunque ulteriore rilevanza (anche indiretta) nel procedimento, in contrasto con la previsione degli articoli 240 e 333, sopra citati. Del resto, le ragioni di trasparenza sono comunque salvaguardate, perché, richiedendolo, l'interessato potrà visionare l'anonimo, custodito, per almeno cinque anni, nell'apposito fascicolo (articolo 5 del citato regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale).
      Sembra poi utile prevedere espressamente che, in caso di ritenuta infruttuosità di quegli accertamenti preliminari, i relativi esiti siano iscritti al modello 45 e in tale modo conservati; infatti, se così non si disponesse, ben potrebbe accadere, come infatti si verifica nella prassi, che gli atti compiuti sulla scorta dell'anonimo, rimasti privi di concreto riscontro investigativo, trovino posto nello stesso fascicolo che ospita l'anonimo, e vadano quindi distrutti, decorsi cinque anni, insieme alla segnalazione anonima (articolo 5 del citato regolamento).
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. All'articolo 333 del codice di procedura penale, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

      «3-bis. Sulle denunce anonime ritenute specifiche e verosimili, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria compiono senza ritardo i necessari accertamenti, al fine di verificarne la fondatezza.
      3-ter. Nel corso degli accertamenti avviati in seguito alle denunce anonime a norma del comma 3-bis, prima dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato non possono essere compiuti gli atti cui il difensore ha diritto di assistere.
      3-quater. All'esito degli accertamenti eseguiti a norma del comma 3-bis, il pubblico ministero ordina l'iscrizione nel registro delle notizie di reato ovvero nel registro degli atti non costituenti notizia di reato, escludendo comunque il documento anonimo inizialmente valutato».    


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