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PDL 1032-A

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 1032-A



 

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RELAZIONE DELLA XI COMMISSIONE PERMANENTE
(LAVORO PUBBLICO E PRIVATO)

presentata alla Presidenza il 22 aprile 2004

(Relatore: CAMPA, per la maggioranza)

sulla

PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa dei deputati

BERTINOTTI, GIORDANO, ALFONSO GIANNI, DEIANA, TITTI DE SIMONE, MASCIA, MANTOVANI, RUSSO SPENA, PISAPIA, VALPIANA, VENDOLA

Istituzione di un nuovo meccanismo di indicizzazione
automatico delle retribuzioni da lavoro dipendente

Presentata il 22 giugno 2001
 

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Onorevoli Colleghi, La proposta di legge n. 1032 delinea i connotati di un meccanismo di adeguamento automatico delle retribuzioni che tenga conto degli eventuali spostamenti tra inflazione programmata ed inflazione reale. Esso si configura, dunque, come una riproposizione - ancorché in chiave aggiornata sui più recenti indirizzi in materia di relazioni sindacali - del cosiddetto sistema della scala mobile, basato sull'indennità di contingenza.
      Il proposto meccanismo di indicizzazione automatica delle retribuzioni da lavoro dipendente, sia pure discostandosi dal tradizionale meccanismo della scala mobile, reintroduce un automatismo con cadenza annuale.
      È evidente - o è comunque ragionevole ritenere - che attraverso un immediato recupero dell'eventuale differenziale tra inflazione programmata ed inflazione reale, si determinerebbero negativi effetti inflazionistici. Deve essere ben presente che per i ceti economicamente più deboli il pericolo maggiore viene proprio dall'inflazione, che aggredisce e divora il potere di acquisto dei salari. Se a questo fenomeno si unisce la recessione, com'è avvenuto negli anni '70, si scatena la stagflazione, che allargò drammaticamente la soglia di povertà. Considerato il grave momento di recessione internazionale, diventa necessario vigilare con ferrea severità per evitare che improvvisate politiche, di stampo populista più che popolare, facciano scatenare di nuovo la temuta stagflazione.
      Va ricordato che la correlazione dell'indennità di contingenza al meccanismo della scala mobile venne istituita con accordo confederale nel 1946: il sistema era basato su un meccanismo che rifletteva l'andamento del costo della vita in funzione delle variazioni dei prezzi di particolari beni determinati contrattualmente ed inseriti nel cosiddetto paniere. Quando il valore globale dei prezzi del paniere aumentava oltre una certa percentuale a seguito delle variazioni di prezzo rilevate trimestralmente (ed in seguito semestralmente) da una commissione sindacale istituita presso l'ISTAT, automaticamente si assisteva all'aumento del valore di base per gli incrementi retributivi.
      Già a partire dagli anni '70, il meccanismo entrò in una crisi irreversibile e per alcuni aspetti scontata: si assistette, infatti, ad una vera e propria spirale di crescita dell'inflazione e all'appiattimento delle retribuzioni per le quali venne unificato l'importo del punto di contingenza.
      Con l'entrata nello SME, imprenditori ed economisti cominciarono a criticare la scala mobile, che spingeva in alto il costo del lavoro e generava inflazione. Il 14 febbraio 1984, il Governo fissò un tetto massimo oltre il quale i salari non potevano aumentare, indipendentemente dal tasso di inflazione reale. Nel giugno 1985, per iniziativa della CGIL e del PCI, il decreto-legge per il taglio della scala mobile venne sottoposto a referendum abrogativo: il 54 per cento degli italiani si dichiarò contrario all'abrogazione del decreto.
      Il protocollo di intesa tra Governo e sindacati del luglio 1992, prima, e l'accordo siglato nel luglio del 1993, poi, hanno introdotto contenuti innovativi in materia contrattuale e delle relazioni sindacali tenendo conto dell'ormai radicalmente mutato contesto politico, sociale ed istituzionale. Con tale accordo, la scala mobile fu definitivamente soppressa e si
 

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convenne che gli eventuali aumenti dei prezzi sarebbero stati coperti in sede di contrattazione nazionale tenendo conto dell'inflazione programmata e non di quella reale; la contrattazione aziendale integrativa, o di secondo livello, avrebbe potuto prevedere aumenti al di là di quelli previsti dalla contrattazione nazionale, tenuto conto dei risultati conseguiti dalla azienda. Si tratta di un sistema che dal 1993 in poi ha fatto registrare risultati positivi, se valutato sotto il profilo della sostenibilità dal punto di vista economico, fondamentale nel mutato contesto comunitario. Nel 1992, infatti, gli Stati membri dell'Unione europea sottoscrivono il Trattato di Maastricht, con il quale si impegnano ad istituire una unione economica e monetaria con una moneta unica e stabile; il trattato ha stabilito precisi criteri per l'ammissione degli Stati all'Unione economica e monetaria che anche successivamente all'entrata nell'UEM - come previsto anche nel patto di stabilità e crescita, siglato a Dublino nel 1996 - essi hanno l'obbligo di rispettare. Tra i parametri di Maastricht grande importanza assume il rispetto della stabilità dei prezzi. Per questo non si può che guardare con inquietudine alla riproposizione di un meccanismo che ha dato prova di instaurare una situazione inflazionistica, maggiormente dopo la definitiva adozione della moneta unica.
      Guardando al futuro, occorre chiedersi come intervenire. Non c'è dubbio che il problema della difesa del reddito, soprattutto dei ceti più deboli, e del suo adeguamento alle esigenze della vita ha sempre avuto la priorità assoluta nel programma di questo Governo, le cui politiche di modernizzazione, attraverso profonde riforme e ingenti mobilitazioni finanziarie per avviare il più vasto e complesso piano di grandi opere che sia mai stato pensato nella storia del paese, hanno come risultato finale lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse da destinare ai ceti più deboli. Lo sviluppo, infatti, assieme alla creazione di nuovi posti di lavoro, innesca un processo di mercato che migliora la produttività e crea le condizioni per nuovi modelli contrattuali, attraverso i quali si può giungere agli adeguamenti salariali senza il pericolo inflazionistico. In altre parole, i redditi dei ceti deboli possono essere difesi solo da un'azione in cui le parti sociali siano protagoniste della verifica dei limiti di azione, secondo le prospettive di riforma della contrattazione già delineate nel Libro bianco sulla riforma del mercato del lavoro. Appaiono invece da respingere scorciatoie legislative, come quella presente nella proposta in esame, che tende a comprimere l'autonomia delle parti sociali.
      Diviene quindi importante raccogliere alcune delle sollecitazioni emerse nel corso dell'esame della proposta di legge n. 1032, nonché nel dibattito in corso nel paese sulle retribuzioni. Sono soprattutto condivisibili alcuni dei rilievi critici formulati nei confronti degli effetti prodotti sulle retribuzioni dalla concertazione nel corso degli anni '90. È sotto gli occhi di tutti che si è verificato un impoverimento dei salari rispetto all'inflazione, che ha agito diversamente a seconda delle condizioni geografiche e merceologiche. Dagli anni '90, la struttura della contrattazione collettiva in Italia è rimasta fortemente centralizzata, imperniata sul contratto nazionale di categoria. Un certo grado di coordinamento è stato garantito, quanto meno potenzialmente, dal predominio del livello confederale. Infatti, l'Accordo del 1993 ha trasformato il contratto collettivo nazionale di lavoro in contratto biennale per la parte economica e quadriennale per la parte normativa, introducendo importanti principi generali di governo dei salari nominali. Il riferimento all'inflazione programmata svolge, infatti, un'importante funzione di coordinamento tra i diversi settori. Il principio di non automatico recupero dell'inflazione passata - dovendosi tenere conto delle eventuali origini esterne al sistema produttivo, nonché delle condizioni economiche generali - contrasta il rischio di spirali inflazionistiche.
      Il contratto di secondo livello, che avrebbe dovuto consentire possibili differenziazioni salariali, stabilendo uno stretto legame tra retribuzione e risultati dell'impresa, non ha trovato quella maggiore
 

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diffusione che si intendeva ottenere. Esso essendo non sistematico e non universale, e rimanendo circoscritto alle imprese più grandi, è rimasto più instabile nel tempo. Il contratto aziendale prevedeva una specializzazione tematica ed un orientamento verso meccanismi di ripartizione degli utili. Tali meccanismi, peraltro, possono contribuire ad un ulteriore passo in avanti verso relazioni industriali non conflittuali, attribuendo maggiore spazio e rilievo alla quota di salario variabile, che dovrebbe assumere quantitativamente un ruolo maggiore.
      Tuttavia, l'obiettivo di una maggiore decentralizzazione della contrattazione, tale da permettere un'effettiva redistribuzione dei guadagni di produttività, è stato solo parzialmente raggiunto. La distinzione dei ruoli dei due livelli di contrattazione, nazionale ed aziendale, è stata importante per potenziare la componente variabile del salario, ma non ha, di fatto, introdotto modifiche sostanziali nei meccanismi di formazione dei differenziali salariali «esterni», cioè quelli fra imprese, fra settori, fra aree territoriali. Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto, dunque, caratteristiche di centralizzazione che si sono rivelate eccessive e inadatte ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai diversi disequilibri del mercato.
      Come rilevato nel Libro bianco sul mercato del lavoro, il sistema di determinazione del salario in Italia favorisce il permanere di una struttura delle retribuzioni relativamente poco articolata. Inoltre, è da ricordare l'assenza di un regime di salario minimo legale. Tale funzione, infatti, è esercitata dai contratti collettivi nazionali di settore. Rispetto ad altri paesi, questa funzione è però svolta con minore efficacia, in termini di prevenzione di abusi, visto che i Ccnl hanno livelli salariali, in termini relativi rispetto alla retribuzione media effettiva, piuttosto elevati. Il livello dei minimi sanciti dai Ccnl corrisponde tra i due terzi e i tre quarti del salario medio effettivo, ben al di sopra del 50 per cento circa garantito dai salari minimi legali nella maggior parte degli altri paesi europei che hanno questo strumento. La flessibilità della parte variabile del salario ha quindi trovato un limite nei livelli salariali fissati dai contratti nazionali, i quali hanno determinato una struttura delle retribuzioni compressa, inidonea a realizzare un sistema di differenziazione dei salari in relazione ai fattori delle singole produzioni e alle condizioni presenti nelle diverse realtà territoriali.
      In conclusione, il meccanismo di correlazione tra le retribuzioni da lavoro e l'andamento dei prezzi che è fonte di grave rischio inflazionistico è stato superato vent'anni fa per volere popolare, attraverso un memorabile referendum. Occorre quindi un piano complessivo di interventi che coniughi sviluppo e compatibilità economiche e finanziarie. Occorre, insomma, difendere il potere di acquisto dei redditi, falcidiati non solo dalla più lunga crisi economica degli ultimi tempi, ma dalla politica monetaria che ha introdotto l'Euro in un momento in cui non era possibile ridurre la spesa pubblica. Ecco perché l'attuale Governo Berlusconi ha indirizzato ogni sforzo non solo al contenimento del debito pubblico, riuscendo dove altri importanti paesi come la Francia e la Germania hanno fallito, ma all'aumento della produttività attraverso la riduzione delle tasse che spingono a maggiori investimenti e alla lievitazione dei consumi.
      La Commissione lavoro ha pertanto ritenuto insuscettibile di positive modifiche l'articolato presente nella proposta di legge, di cui propone la reiezione per le ragioni di merito fin qui esposte e anche in considerazione dell'impatto finanziario da essa provocato, pari a 1.559 milioni di euro per l'anno 2004, 3.117 milioni di euro per l'anno 2005 e 4.674 milioni di euro per l'anno 2006. Di tali oneri, come risulta dal parere contrario espresso dalla Commissione bilancio, non si fornisce alcuna valida formula di copertura.

Cesare CAMPA, Relatore per la maggioranza

 

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PARERE DELLA V COMMISSIONE PERMANENTE
(Bilancio, tesoro e programmazione)

        Sul testo del provvedimento:

        considerato che:

            la relazione tecnica, trasmessa dal Governo in data 18 febbraio 2004, quantifica rispettivamente in 1.559 milioni di euro per l'anno 2004, in 3.117 milioni di euro per l'anno 2005 e in 4.674 milioni di euro per l'anno 2006 gli oneri derivanti dal provvedimento;

            a fronte di tali oneri, il comma 3 dell'articolo 1 rinvia alla legge finanziaria il compito di provvedere alla relativa copertura, richiamando, a tal fine, l'articolo 11, comma 5, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni;

            la modalità di copertura prevista non appare conforme alla vigente disciplina contabile in quanto l'articolo 11, comma 5, concerne la copertura, nell'ambito della legge finanziaria, di nuovi o maggiori oneri che siano recati dalla medesima legge finanziaria e ad essa non può farsi ricorso per la copertura di oneri derivanti dall'attuazione di precedenti provvedimenti legislativi;

            la natura degli oneri derivanti dal provvedimento, in quanto derivanti dal riconoscimento di benefici retributivi, non consente la loro delimitazione nell'ambito di un tetto di spesa, per cui si porrebbe l'esigenza di introdurre apposita clausola di salvaguardia, peraltro non prevista nel testo del provvedimento;

        esprime

PARERE CONTRARIO
 

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TESTO
della proposta di legge
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TESTO
della Commissione
Art. 1.
      La Commissione propone la reiezione della proposta di legge.

      1. Il Presidente del Consiglio dei ministri, con proprio decreto da emanare entro il 30 settembre di ciascun anno, procede alla ricognizione della percentuale pari alla differenza tra il tasso d'inflazione programmata previsto dal Documento di programmazione economico-finanziaria per il medesimo anno e la variazione media dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati rilevata dall'Istituto nazionale di statistica per i dodici mesi precedenti la suddetta data.

    

      2. I datori di lavoro pubblici e privati corrispondono ai propri dipendenti, in occasione del periodo di paga relativo al mese di gennaio, una somma determinata applicando alla retribuzione di cui all'articolo 27 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1955, n. 797, e successive modificazioni, corrisposta nell'anno solare precedente, la percentuale determinata dal decreto di cui al comma 1 del presente articolo.
      3. Con legge finanziaria si provvede a quantificare l'eventuale onere determinato dalla presente legge e alla relativa copertura finanziaria ai sensi dell'articolo 11, comma 5, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni.


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