Commissione parlamentare per l'infanzia

 Indagine conoscitiva su adozioni e affidamento
 

DOCUMENTO CONCLUSIVO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

 

 

PREMESSA

 

La Commissione parlamentare per l’infanzia ha deliberato, il 15 maggio 2003, di avviare un’indagine conoscitiva in materia di adozioni e affidamento, ritenendo opportuno approfondire la conoscenza di tale complessa materia, sia in considerazione della necessità di procedere ad un primo bilancio, dopo la profonda innovazione normativa intervenuta particolarmente nel campo delle adozioni internazionali, sia per la situazione dei minori in stato di abbandono nel nostro paese, visto anche l’avvicinarsi del dicembre 2006, data prevista dalla legge per la definitiva chiusura dei nostri istituti.

Inoltre, alla Commissione erano pervenute nel tempo molteplici sollecitazioni ad occuparsi della materia da parte di vari soggetti della società (aspiranti genitori adottivi, enti autorizzati all’adozione nei paesi stranieri, soggetti del volontariato, ecc.) che segnalavano difficoltà o carenze nella concreta e positiva attuazione delle norme riguardanti i meccanismi dell’adozione internazionale.

Non c’è dubbio, infatti, che la materia e le sue implicazioni costituiscano problematiche già trattate da norme diverse e spesso regolate da canali non sempre in dialogo fra loro e che la ratifica della Convenzione dell’Aja per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale abbia mutato profondamente la realtà italiana, storicamente ricca di esperienze di solidarietà verso i minori in difficoltà e che negli anni aveva visto proliferare (senza regole precise) associazioni, enti, singoli che si occupavano, con un ruolo di intermediazione, di questa realtà. È chiaro, quindi, che nei primi anni di attuazione delle nuove norme si sia dovuta superare una lunga fase di “rodaggio”; tuttavia, oggi appare necessario capire se è necessario intervenire con ulteriori modifiche legislative per garantire il diritto primario di ogni bambino ad avere una famiglia.

In particolare, poiché le segnalazioni pervenute alla Commissione parlamentare per l’infanzia ponevano in rilievo alcune carenze emerse dall’attuazione della legge n. 149 del 2001 (che ha riformulato le precedenti leggi n. 184 del 1983 e n. 476 del 1998) e del relativo regolamento di attuazione, la Commissione, in attuazione dei compiti di indirizzo e di controllo ad essa assegnati, ha provveduto da un lato a fornire al Governo alcune indicazioni attraverso un documento d’indirizzo (vedi risoluzioni 8-00038 e 7-00023, con identico testo, approvate il 26 marzo 2003), dall’altro ha inteso svolgere con l’indagine conoscitiva un ampio lavoro, durato circa un anno e mezzo, ascoltando numerosi soggetti ed effettuando varie missioni.

Le audizioni svolte hanno riguardato la presidente della Commissione per le adozioni internazionali e il presidente del Comitato per i minori stranieri, un rilevante numero di enti autorizzati alle adozioni internazionali[1], alcune associazioni che si occupano dei soggiorni in Italia per motivi sanitari, nati con i “bambini di Chernobyl”, i presidenti di vari tribunali per i minori, nonché i rappresentanti del Governo competenti per la materia trattata. Di grande utilità si sono rivelate le missioni svolte da delegazioni della Commissione in Romania, in Russia e in Ucraina, che hanno consentito un contatto diretto con le Autorità di quei paesi, nonché con i rappresentanti italiani ivi operanti. Due missioni sono state effettuate anche presso la Commissione europea, a Bruxelles, per approfondire la delicata questione delle adozioni internazionali dalla Romania.

 

1. CENNI SULLA NORMATIVA VIGENTE

 

1.1. L’affidamento

 

L’istituto dell’affidamento ha la finalità di far accogliere temporaneamente il minore ad un’altra famiglia, per reinserirlo nella famiglia originaria quando questa giunga a superare le proprie difficoltà: si intende fornire al minore in difficoltà il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno, in attesa di un miglioramento della situazione di difficoltà della sua famiglia d’origine. L’affidamento pertanto mira a dare garanzie e tutele al minore senza provocarne il completo distacco dal nucleo familiare d’origine e l’impianto normativo fornisce strumenti duttili in grado di realizzare una efficace protezione del minore.

Il minore può essere affidato sia ad una famiglia – preferibilmente con figli minori – sia a una persona singola. Qualora non sia possibile l’affidamento, è previsto l’inserimento in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato che abbia sede nel luogo più vicino a quello in cui risiede il nucleo familiare di provenienza. Peraltro, la legge n. 149/2001 prevede – introducendo un importante elemento di innovazione – la chiusura degli istituti per minori entro il 31 dicembre 2006, in modo che in futuro si privilegino l’affidamento in una famiglia o in una comunità di tipo familiare.

 

1.2. L’adozione

 

La normativa sulle adozioni e l’affidamento si basa in primo luogo sulla legge 4 maggio 1983, n. 184, che ha riorganizzato la materia.

Negli ultimi anni si è avvertita la necessità di modificare le norme, adattandole alle nuove esigenze sociali e familiari e adeguandole agli interventi della Corte costituzionale riguardo all’età degli adottanti (sentenze nn. 303/96 e 283/99). Ciò è avvenuto principalmente con la legge 28 marzo 2001 n.149 (“Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile”), che ha ridisegnato la normativa con l’obiettivo di dare organicità e sistematicità alla materia.

I principali profili innovativi sono evidenziati già nel nuovo titolo della legge 184/1983, “Diritto del minore ad una famiglia”, che ha sostituito quello precedente che era “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”: si tratta di un’innovazione non meramente di forma, che indica il senso unitario e la prospettiva comune che il legislatore ha dato a tutti gli istituti che vi sono disciplinati: dal sostegno alla famiglia biologica, all’affidamento familiare, all’adozione nazionale ed a quella internazionale, tutti collegati tra loro da un unico fine, il superiore interesse del minore, attuando il suo diritto alla famiglia.

Il principio fondamentale è che il minore ha diritto di crescere e di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Le condizioni di povertà dei genitori non rappresentano di per sé un ostacolo all’esercizio di tale diritto – si prevedono infatti interventi per rimuovere le cause economiche, personali e sociali che impediscono alla famiglia di svolgere i propri compiti – e gli istituti dell’affidamento e dell’adozione si applicano solo quando, nonostante gli interventi di sostegno, la famiglia non sia in grado di provvedere convenientemente alla crescita e all’educazione del minore.

Le coppie aspiranti, secondo il testo del 1983, dovevano essere sposate da almeno tre anni; la legge n. 149/2001 ha previsto invece che possano essere sposate anche da un tempo più breve, purché siano unite in stabile e continuativa convivenza (sommando il periodo antecedente e quello successivo al matrimonio) da almeno tre anni. Altre significative novità riguardano il limite massimo del divario di età tra adottante ed adottato, portato a 45 anni (in precedenza era di 40)[2].

 

1.3. L’adozione internazionale

 

Introdotto nell’ordinamento italiano con la legge n. 184/1983, l’istituto dell’adozione internazionale è stato successivamente modificato in seguito all’adesione dell’Italia alla Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale fatta all’Aja il 29 maggio 1993, che ha reso necessaria un’ampia revisione della normativa.

La Convenzione dell’Aja ha risposto all’esigenza di garantire uniformità e trasparenza nelle procedure, nonché alla necessità di assicurare un’efficace collaborazione tra gli Stati nel campo delle adozioni, garantendo la realizzazione del superiore interesse del minore.

La Convenzione ha pertanto sancito alcuni principi comuni, volti a garantire che le adozioni internazionali abbiano come obiettivo l’interesse superiore del minore, a realizzare tra gli Stati contraenti un sistema di cooperazione e ad assicurare il riconoscimento negli Stati contraenti delle adozioni realizzate in conformità alla stessa Convenzione.

In ogni Paese la Convenzione prevede la creazione di un’autorità centrale col compito di controllare il corretto svolgimento delle procedure di adozione e di porsi in relazione con le altre autorità centrali scambiando informazioni, valutando le singole domande, accertando la presenza dei requisiti legittimanti l’adozione e autorizzando l’ingresso del minore nel Paese dei futuri genitori. La Convenzione prevede altresì che vi siano organismi abilitati che collaborino con l’autorità centrale, ossia enti in possesso di rigorosi e specifici requisiti, autorizzati dalla stessa autorità a seguire le procedure di adozione e a fornire la necessaria assistenza agli aspiranti genitori.

La Convenzione inoltre stabilisce la regola generale secondo la quale è lo Stato in cui si trova il minore a dichiarare l’adozione conforme alla Convenzione, a seguito della quale si conseguono gli effetti giuridici: la creazione del legame di filiazione tra i genitori adottivi e il minore ed il venir meno di quello preesistente.

La normativa in materia di adozioni internazionali è stata innovata dalla legge 31 dicembre 1998, n. 476 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L'Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, in tema di adozione di minori stranieri”.

Nel coordinare il nuovo sistema internazionale alla legge n. 184/1983, modificandola per adeguarla ai nuovi principi, sono state introdotte due innovazioni principali: l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, della Commissione per le adozioni internazionali (CAI) – con funzioni di controllo delle procedure e degli operatori in Italia e di coordinamento e promozione sotto il profilo internazionale – e la previsione del ricorso obbligatorio, nell'espletamento delle procedure di adozione internazionale, a enti autorizzati dalla Commissione stessa sulla base di parametri di competenza, serietà e moralità; tali enti hanno così assunto un ruolo centrale nel sistema delle adozioni internazionali. Si è trattato perciò di una cospicua innovazione nel campo delle adozioni internazionali, che ha posto la protezione del minore al centro della normativa[3].

Si rimanda all’appendice per l’approfondimento sulla normativa vigente in materia di affidamento, adozione nazionale ed internazionale.

 

1.4. L’evoluzione conseguente alle recenti riforme

 

È opportuno svolgere una riflessione sull’evoluzione determinata dalla nuova normativa e, in particolare, sui rapporti diversi che si sono istituiti tra adozione internazionale e adozione nazionale. Le due riforme hanno finora camminato in modo separato: occorre quindi chiedersi se la logica della separatezza debba perpetuarsi o se non si debba prospettare un diverso modo di attuarle, secondo una prospettiva unitaria.

Tra le cause che hanno determinato la separatezza tra le due adozioni, può essere indicata anzitutto la scelta di effettuare due distinte riforme rispettivamente con la legge 31 marzo 1998 n. 476 e con la legge 28 marzo 2001 n. 149, anziché un unico intervento complessivo. Inoltre, mentre la disciplina dell’adozione internazionale, pur realizzata anch’essa in fasi successive (emanazione del regolamento che ha indicato le modalità di costituzione della Commissione per le adozioni internazionali, con decreto del Presidente della Repubblica 1 dicembre 1999 n. 492; pubblicazione dell’albo degli enti autorizzati in base al disposto dell’articolo 6 di detto regolamento; infine, completa entrata in vigore il 15 novembre 2000) è ora totalmente definita, quella dell’adozione nazionale è invece ancora incompleta, poiché la parte relativa all’introduzione delle garanzie di difesa per la famiglia biologica del bambino dichiarato adottabile non è ancora entrata in vigore e si è in attesa dell’approvazione dell’apposita legge[4] diretta a disciplinare la difesa d'ufficio in questi procedimenti. Non si può inoltre dimenticare che il numero di minori dichiarati adottabili in Italia è decisamente esiguo e ciò fa sì che le adozioni nazionali siano molto meno numerose di quelle internazionali.

Si rilevano inoltre significative diversità operative tra le due adozioni, sia per quanto riguarda i compiti socio-assistenziali, sia per quanto concerne quelli attribuiti alle regioni.

Per quanto riguarda infatti l’attività istruttoria da espletare, mentre per la domanda di adozione nazionale è rimasta in sostanza immodificata, la previsione normativa in tema di adozione internazionale è molto più ricca: è infatti previsto che prima dell'indagine istruttoria sulle coppie i servizi socio-assistenziali svolgano attività d'informazione sull'adozione internazionale, sulle relative procedure, sugli enti autorizzati e sulle altre forme di solidarietà nei confronti dei minori in difficoltà ed effettuino la preparazione degli aspiranti all'adozione, in collaborazione con gli enti suddetti.

Circa i compiti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, la legge prevede che debbano vigilare sul funzionamento delle strutture e dei servizi che, sul territorio, operano per l’adozione internazionale, al fine di garantire livelli adeguati d’intervento, e che debbano altresì promuovere la definizione di protocolli operativi e convenzioni tra enti autorizzati e servizi, nonché forme stabili di collegamento tra gli stessi e gli organi giudiziari minorili.

Tutto ciò sta portando nelle realtà locali ad una organizzazione separata e più qualificata dell’intervento sulle adozioni internazionali rispetto agli altri interventi sociali, come è documentato dai protocolli d’intesa sottoscritti in varie regioni e dalle successive organizzazioni dei servizi in specifiche équipes.

Vanno invece emergendo linee culturali che tendono a sottolineare più le cose che uniscono che non quelle che separano le due adozioni e a verificare se l’individuazione di aree culturali ed operative comuni possa poi tradursi in applicabilità all’adozione internazionale di istituti esistenti nell’adozione nazionale e viceversa. Non c’è dubbio, infatti, che i principi di fondo dell’adozione siano comuni ad entrambi i modelli in esame, a partire dal principio fondamentale secondo il quale ogni attività deve essere ispirata all’esigenza di tutelare il superiore interesse del minore. Quest’ultimo principio è alla base di entrambe le adozioni e dovrebbe stemperare, per quanto possibile, le divergenze culturali e operative in precedenza evidenziate, nonché favorire il superamento della separatezza anche a livelli operativi.

Occorre quindi operare in favore di tale superamento, soprattutto per quanto riguarda la gestione della doppia domanda: è un dato ormai evidente che un gran numero di aspiranti adottanti propone entrambe le domande, per l’adozione nazionale e per quella internazionale (secondo il Centro nazionale di documentazione ed analisi per l’infanzia e l’adolescenza in alcune realtà, quali la Toscana, la percentuale di “doppie” domande raggiunge il 70%). Continuare a tenere distinte le prassi istruttorie dell’adozione internazionale e di quella nazionale significa, quindi, costringere gli adottanti a rivolgersi a servizi diversi per ciascuna delle domande proposte, con doppio dispendio di tempo e di energie; comporta, nella maggior parte dei casi, inoltre l’aumento del personale dei servizi sociali chiamato ad occuparsi delle adozioni.

Prima ancora di procedere a modifiche della normativa, quindi, è necessario riconsiderare quella vigente, esaminandola secondo il profilo che consenta di giungere al risultato di superare la separatezza segnalata. In questa prospettiva si può, ad esempio, operare una rilettura dell’articolo 39 bis della legge 184/1983, che attribuisce alle regioni il compito di concorrere “a sviluppare una rete di servizi in grado di svolgere i compiti previsti dalla presente legge”; tale disposizione è stata finora intesa nel senso che il riferimento alla “presente legge” riguardasse l’applicazione della legge 476/1998 e quindi solo l’adozione internazionale, ma se, invece, la si interpreta nel senso più corretto e più completo, intendendola con riferimento all’intera legge 184/1983, allora la situazione cambia e l’impegno delle regioni diventa diretto a favorire il funzionamento di strutture e servizi non solo per l’adozione internazionale, ma anche per quella nazionale.

 

1.5. Alcuni elementi sulla normativa in alcuni paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito, Spagna)

 

a) Francia

Nell'ordinamento francese la disciplina generale in materia di adozioni è contenuta principalmente nel Codice civile e nel Codice dell'azione sociale e delle famiglie. Riforme legislative sono state adottate di recente ai fini dell’adeguamento delle procedure alla Convenzione dell’Aja.

L’ordinamento francese conosce tre tipi di adozione: l’adoption plénière (nella quale i legami tra il bambino e la famiglia d’origine vengono definitivamente interrotti), l’adoption simple (non rompe i legami di filiazione con la famiglia d’origine ma trasferisce l’autorità parentale alla famiglia adottiva) e l’adoption internationale (per i bambini adottati dall’estero e con la quale bisogna armonizzare le norme sull’adozione francesi con quelle del paese originario del bambino adottato).

Per quanto riguarda la prima tipologia, l’adozione può essere richiesta da coniugi, non separati, sposati da più di due anni o entrambi di età superiore a 28 anni, o da celibi di età superiore a 28 anni (il limite d’età non è richiesto in caso di adozione del figlio del coniuge). La legge francese non fissa né limiti d’età massimi per chi vuole adottare un bambino, né differenza d’età tra chi adotta e l’adottato. La domanda d’adozione può essere rivolta alla Direction de l’action sociale de l’enfance et de la santè (DASES) o ad un ente autorizzato per l’adozione (per un bambino francese o straniero). In ogni caso è necessario il benestare preventivo de l’Aide Sociale a l’Enfance (Servizio d’aiuto sociale all’infanzia) che entro nove mesi deve verificare l’esistenza, nella coppia richiedente, dei requisiti necessari per l’adozione. Il parere positivo viene accordato per cinque anni, mentre la candidatura all’adozione deve essere rinnovata ogni anno.

Una volta ottenuto il parere positivo da parte della DASES i tempi di attesa per ottenere un bambino variano, in media, dai due ai quattro anni circa. Infine il bambino viene accolto provvisoriamente nella sua nuova famiglia. Il procedimento definitivo d’adozione potrà essere emesso dopo minimo sei mesi dall’accoglimento del bambino. Il tribunale di primo grado dipartimentale, verificato il rispetto delle condizioni di legge e la conformità agli interessi del minore dell'adozione, pronuncia l’adozione definitiva, che da quel momento produce effetti ed è irrevocabile.

L’adozione semplice è, invece, permessa senza limiti di età da parte dell’adottante. La procedura è simile a quella prevista per la definitiva mentre ne sono differenti gli effetti. L’adozione semplice può essere revocata, se sussistano motivazioni gravi, e con la revoca cessano, per il futuro, tutti gli effetti dell’adozione stessa.

Per l’adozione internazionale, si prevede che le condizioni dell’adozione sono regolate dalla legge nazionale dell’adottante ed hanno gli effetti previsti dalla legge francese, ma l’adozione di un minore straniero non può essere pronunciata se la legge del suo paese di nascita proibisce questa istituzione, salvo che il minore non sia nato e risieda abitualmente in Francia.

Inoltre, si segnala che dal 2002 le persone fisiche non possono più servire da intermediari per l’adozione, attività che può essere svolta solo da persone giuridiche di diritto privato autorizzate dai presidenti dei Consigli generali dipartimentali. Gli enti autorizzati debbono ottenere un permesso speciale del ministro degli affari esteri per esercitare la loro attività nei confronti di minori stranieri. Inoltre, l’Autorità centrale per l’adozione – composta da rappresentanti dello Stato e dei consigli generali, dai rappresentanti degli organi preposti per le adozioni e delle famiglie adottive – ha il compito di dare un orientamento e coordinare l’azione delle amministrazioni e della autorità competenti in materia di adozione internazionale.

La legislazione francese, infine, estende alle famiglie che adottano un bambino i sussidi familiari e i congedi previsti in caso di nascita di un figlio.

 

b) Germania

La normativa che disciplina l’adozione è contenuta principalmente nel Codice civile (Bürgerliches Gesetzbuch – BGB).

Per poter adottare un minore è richiesta la piena capacità giuridica e un’età minima di 25 anni. Alle persone non coniugate è consentito adottare un bambino individualmente, mentre le coppie sposate possono adottare solo congiuntamente. In tal caso è sufficiente che uno dei due coniugi abbia almeno 25 anni e l’altro almeno 21 anni. L’età minima è ridotta a 21 anni anche per coloro che intendono adottare il proprio figlio naturale o il figlio del proprio coniuge. Le persone che vivono in una unione omosessuale non possono adottare congiuntamente, così come previsto per le convivenze di persone non unite dal vincolo matrimoniale. La legge non richiede una determinata differenza di età tra adottante e adottato, né prescrive una durata minima del matrimonio per l’adozione da parte di coppie sposate.

Per quanto riguarda la procedura, si richiede: il consenso di entrambi i genitori naturali - che non può essere sottoposto né a termini né a condizioni ed è irrevocabile - nonché il consenso del bambino, che prima del compimento dei 14 anni è espresso dal rappresentante legale del minore; la presentazione, da parte degli adottanti, di una domanda di adozione presso il giudice tutelare, che pronuncia l’adozione al termine di un adeguato periodo di affidamento, la cui durata è varia a seconda dell’età del bambino, previa presentazione, da parte dell’Ufficio regionale della gioventù, di un parere vincolante circa la sussistenza dei requisiti e delle condizioni per l’adozione.

Con la pronuncia dell’adozione, il bambino acquista lo status giuridico di figlio biologico dei genitori adottivi, mentre si estinguono i legami di parentela con la sua famiglia di origine. Il bambino mantiene il diritto fondamentale, costituzionalmente rilevante, a conoscere le sue origini, ma non può avvalersi di questo diritto se la sua richiesta rischia di mettere in pericolo l’unità della famiglia adottiva o quella di un’altra coppia.

È possibile l’annullamento ex officio dell’adozione da parte del giudice tutelare, durante la minore età dell’adottato, solo per gravi motivi giustificati dal benessere di quest’ultimo.

Per quanto riguarda le adozioni internazionali, la ratifica della Convenzione dell’Aja ha modificato in larga misura questa materia. In base alla nuova normativa, chi desidera effettuare un’adozione internazionale deve rivolgersi, con una richiesta di consulenza, al Servizio centrale di adozione del competente Ufficio regionale della gioventù oppure ad un servizio di adozione privato specializzato nell’adozione internazionale e abilitato dal suddetto Ufficio regionale.

Se la consulenza ha esito positivo, gli aspiranti all’adozione optano per un paese d’origine del bambino da adottare e si sottopongono a una indagine attitudinale. L’organismo straniero sottopone al servizio di adozione tedesco un’offerta relativa a un determinato bambino, e nel caso in cui venga accettata si completa il procedimento di adozione oppure si affida il bambino per un periodo di prova.

Se il procedimento di adozione non viene completato nello Stato di origine del bambino, l’adozione è pronunciata da una corte tedesca in base al diritto nazionale al termine del periodo di prova.

Se invece l’adozione è stata effettuata nello Stato di origine del bambino e tale Stato è contraente della Convenzione dell’Aja, non è necessaria una pronuncia del giudice tutelare tedesco, mentre, se è stata effettuata in uno Stato che non è parte della Convenzione, deve essere obbligatoriamente riconosciuta dal giudice tutelare tedesco.

L’attuazione della Convenzione in Germania non ha invece interessato o modificato la struttura amministrativa delle adozioni in ambito nazionale, limitandosi ad introdurre un Ufficio centrale di coordinamento a livello federale.

Le autorità responsabili, quali definite dalla Convenzione sono, in Germania, a livello federale, l’Ufficio centrale per le adozioni internazionali, costituito nell’ambito della Procura generale dello Stato presso l’Alta corte federale, e a livello regionale i già citati Servizi per le adozioni degli Uffici regionali della gioventù. L’Ufficio centrale federale ha il compito di fungere da punto di contatto per le autorità competenti degli Stati stranieri. Non svolge quindi funzioni di intermediario di adozione, mentre cura la tenuta di una banca dati centrale in cui vengono registrate le adozioni internazionali.

Le procedure per l’adozione internazionale vengono affidate anche ad intermediari privati, soggetti ad una abilitazione e ad una vigilanza da parte dello Stato.

 

c) Regno Unito

La disciplina dell'adozione vigente nel Regno Unito, ha subito recenti modifiche a seguito dell'approvazione, nel 2002, dell'Adoption and Children Act;.

Il generale impianto organizzativo si fonda sull'istituzione, presso i singoli enti territoriali, di adoption agencies - componenti, nel loro insieme, l'Adoption Services nazionale – che: valutano, mediante propri gruppi di esperti la idoneità degli adottanti; svolgono compiti di natura amministrativa ed assistenziale; assicurano il sostegno ai minori e agli adottanti durante il procedimento di adozione; assistono - una volta espletato il procedimento - i minori ed i genitori adottivi.

Nell’ordinamento inglese figurano, poi, le "registered adoption societies", organizzazioni private, su base volontaristica o a carattere d'impresa e soggette alla previa autorizzazione ministeriale, le quali, se in possesso dei requisiti prescritti, sono abilitate alla prestazione di servizi correlati alla procedura di adozione.

Possono adottare un bambino sia singoli sia coppie, sposate o no. È comunque riconosciuto in capo agli adottati il diritto a conoscere le proprie origini attraverso il libero accesso ai propri dati contenuti nei registri delle nascite e delle adozioni.

La legge introduce, infine, un nuovo istituto a tutela del minore, denominato special guardianship, e destinato ad operare qualora l'adozione non si ritenga come l'opzione migliore e non sia però egualmente opportuno, nell'interesse del minore, il suo ricongiungimento ai genitori naturali. In tale ipotesi è consentito l’affidamento del minore ad un nuovo nucleo familiare pur essendo conservati i suoi rapporti giuridici con quello originario.

Per quanto riguarda l'adozione internazionale, si segnala che anche il Regno Unito ha proceduto alla ratifica della Convenzione dell'Aja.

 

d) Spagna

L’istituto dell’adozione è regolato in Spagna dal codice civile.

Possono procedere all’adozione sia coppie, sia persone singole. È, comunque, necessario che l’adottante abbia compiuto venticinque anni e, nel caso di adozione effettuata da ambedue i coniugi, è sufficiente che l’età prescritta sia posseduta da uno dei due; in ogni caso l’adottante dovrà possedere almeno quattordici anni più dell’adottato. Nessuno, inoltre, può essere adottato da più di una persona se non nel caso di un’adozione da parte di entrambi i coniugi. Qualora l’adottante muoia o incorra nella perdita della patria potestà, per l’adottato si rende possibile una nuova adozione.

L’adozione si costituisce attraverso una decisione del giudice, previa dichiarazione di idoneità dell’adottante rilasciata dall’autorità competente; detta autorità propone quindi il soggetto in questione per l’adozione. L’adozione richiede il consenso dell’adottante (o dei coniugi adottanti) e dell’adottando maggiore di dodici anni. Il consenso deve essere espresso in presenza del giudice. Devono inoltre acconsentire all’adozione il coniuge dell’adottante (se non separato legalmente) e i genitori dell’adottando.

Con l’adozione si estinguono tutti i vincoli giuridici esistenti tra l’adottato e la sua famiglia di origine.

L’adozione, infine, è irrevocabile. Il giudice può accordarne l’estinzione su richiesta del padre o della madre qualora questi, senza colpa, non siano intervenuti nelle forme previste dalla legge al momento dell’udienza. È però necessario che la richiesta venga effettuata entro i due anni successivi all’adozione e che l’estinzione del rapporto non abbia riflessi gravi sul minore.

L’adozione internazionale è disciplinata da un’apposita legge organica, volta a ratificare la Convenzione dell’Aja.

In particolare, si prevede che le domande debbano essere presentate alle Autorità pubbliche, che poi possono procedere alla raccolta ed all’inoltro delle domande sia direttamente, sia affidando il compito ad enti accreditati. Le autorità pubbliche competenti in materia sono i servizi per la protezione dei minori della città di residenza. Le procedure vengono poi seguite dalle Autorità centrali regionali (sono in tutto diciassette, una per ogni Comunità autonoma), che sono i servizi per la protezione dei minori delle Comunità autonome. Vi è poi l’Autorità centrale nazionale, che ha sede presso il Ministero del lavoro e degli affari sociali, alla quale è attribuito il compito di cooperare con le autorità regionali nonché con le autorità degli altri Paesi.

La domanda di adozione può essere inviata anche attraverso gli enti accreditati (Entidades Colaboradoras de Adopción Internacional - ECAIs). Tali enti devono essere autorizzati dall’autorità competente della Comunità autonoma e dall’organo competente del paese straniero in cui operano attraverso un rappresentante autorizzato. Le autorità pubbliche competenti, infatti, procedono all’accredito, al controllo, all’ispezione degli enti che ricoprono funzioni di mediazione nel relativo ambito territoriale, nonché alla messa a punto delle direttive di attuazione ad essi inviate. Infatti, perché un ente di mediazione venga accreditato è necessario che svolga la sua attività senza fini di lucro, che sia iscritto in un registro apposito e che abbia come finalità la protezione dei minori. Esso deve inoltre disporre dei mezzi materiali e del personale con preparazione multidisciplinare necessario allo sviluppo delle funzioni assegnate; la direzione dell’ente, infine, deve essere affidata a soggetti qualificati per integrità morale e per formazione specifica nel campo dell’adozione internazionale. Le autorità pubbliche si riservano di ritirare l’accredito a quegli enti che non rispettino le condizioni in base alle quali ottennero la concessione o che nella loro azione si pongano in contrasto con l’ordinamento giuridico.

A loro volta gli enti accreditati devono fornire informazioni e consulenza in materia di adozione internazionale, devono intervenire nella fase di inoltro delle domande di adozione indirizzate alle autorità competenti sia spagnole che straniere, infine devono assicurare assistenza ed appoggio ai richiedenti nelle formalità che essi devono affrontare tanto in Spagna quanto all’estero.

Gli enti pubblici competenti tengono un registro delle domande di coloro che si rivolgono agli enti accreditati.

 

 

2. LA SITUAZIONE ATTUALE

 

2.1. Alcuni dati statistici

 

Per quanto riguarda le adozioni nazionali, sono noti alcuni dati a cura del Ministero della giustizia, trasmessi alla Commissione parlamentare per l’infanzia dal Centro di documentazione e di analisi per l’infanzia e l’adolescenza. Nel 2002 vi sono state 929 dichiarazioni di adottabilità di minori (per il 59% minori con genitori noti, per il 41% con genitori ignoti); le sentenze di adozione nazionale sono state 1.135, alle quali vanno aggiunte 651 sentenze di adozione ex articolo 44 (casi particolari) della legge 184/83 (delle quali il 65% ha riguardato il caso previsto nella lettera b del comma 1, cioè coniugi che hanno adottato minori figli dell’altro coniuge). Nel 2003 le dichiarazioni di adottabilità di minori sono state 1.080 (con le stesse percentuali dell’anno precedente: 59% minori con genitori noti, 41% minori con genitori ignoti), le sentenze di adozione nazionale 978, mentre quelle ex articolo 44 sono state 597 (delle quali il 68% relative al caso previsto dalla lettera b del comma 1).

I dati statistici sulle adozioni internazionali sono pubblicati dalla Commissione per le adozioni internazionali, che li aggiorna periodicamente; quelli più recenti sono aggiornati al 30 giugno 2004 e hanno come data di partenza il 16 novembre 2000. Altri dati sono contenuti nella prima Relazione sullo stato delle adozioni internazionali e sull’attuazione della Convenzione dell’Aja, trasmessa dal Governo al Parlamento il 27 febbraio 2004.

I decreti di idoneità trasmessi alla CAI al 31 dicembre 2003 erano 18.602; alla stessa data 6.064 coppie avevano richiesto alla CAI (a partire dal 16 novembre 2000), autorizzazioni all’ingresso in Italia di minori stranieri. Ciò indica che circa un terzo delle coppie idonee ha richiesto successivamente all’ottenimento del decreto di idoneità l’autorizzazione all’ingresso di uno o più minori per adozione. Dai dati pubblicati non è possibile invece ricavare quante coppie dichiarate idonee abbiano dato mandato ad un ente di avviare le procedure di adozione. L’assenza di tale dato non consente di verificare quale percentuale di procedure avviate vada effettivamente a buon fine e in quali tempi; né rende possibile comprendere in quali fasi dell’iter “scompaiano” i due terzi di coppie che, pur riconosciute idonee, non giungono a compiere un’adozione.

Le coppie idonee all’adozione di minori stranieri che hanno richiesto alla CAI l’autorizzazione all’ingresso di minori stranieri sono state 1.843 nel 2001, 1.530 nel 2002, 2.312 nel 2003 e 1.348 nella prima metà del 2004. Le regioni con il tasso medio annuo più elevato di richieste di autorizzazione all’ingresso di minori stranieri (calcolato rispetto alla popolazione di abitanti in età tra i 30 e i 59 anni) risultano il Molise, la Liguria, l’Umbria, la Toscana e il Veneto; quelle col tasso meno elevato la Basilicata, la Sardegna, la Valle d’Aosta, la Campania e la Sicilia. Il 94,2% delle coppie richiedenti l’autorizzazione alla CAI ha ottenuto il decreto d’idoneità dal tribunale per i minorenni, il 5,8% dalla corte d’appello.

L’età dei genitori che hanno richiesto alla CAI l’autorizzazione all’ingresso di minori stranieri è prevalentemente compresa tra i 35 e i 44 anni (il 64,7% dei mariti e il 61,4% delle mogli rientrano in tale fascia) alla data del decreto di idoneità; al di sotto dei 35 anni si collocano invece il 12,2 % dei mariti e il 24% delle mogli, mentre hanno più di 45 anni il 23,1% dei mariti e il 14,6% delle mogli[5]. L’età media ha visto un lieve ma costante incremento, mantenendosi sopra i 40 anni per i mariti (dai 40,7 del 2001 ai 41,9 del primo semestre 2004) e poco al di sotto per le mogli (dai 38,5 del 2001 ai 39,5 del primo semestre 2004). L’89% delle coppie richiedenti l’autorizzazione all’ingresso di minori stranieri è senza figli, mentre il 10,3% ha già uno o più figli. L’84,33% delle coppie ha chiesto l’autorizzazione all’ingresso di un solo minore, mentre il 15,67% ha chiesto l’autorizzazione per due o più minori. È quindi evidente che l’adozione risponde prevalentemente ad un desiderio di genitorialità che per varie ragioni non si è potuto realizzare diversamente.

Le autorizzazioni concesse sono state in continuo aumento: 1.797 nel 2001, 2.225 nel 2002, 2.770 nel 2003, 1.611 nel primo semestre del 2004. Complessivamente, dal 16 novembre 2000 al 30 giugno 2004, l’autorizzazione all’ingresso di minori è stata concessa in 8.749 casi e negata in 4. Il dato farebbe, quindi, presumere un corretto svolgimento delle procedure di adozione. Quasi la metà dei minori autorizzati all’ingresso a scopo adottivo hanno da uno a quattro anni di età (il 48,7%), mentre il 32,8% hanno tra i cinque e i nove anni, l’11,6% oltre i dieci anni e non mancano quelli che hanno meno di un anno (6,9%). I maschi (56,4%) prevalgono complessivamente sulle femmine (43,6%); tale rapporto si inverte solo per la fascia d’età oltre i dieci anni, nella quale le femmine sono il 58,2% a fronte del 41,8% dei maschi.

Per quanto riguarda la provenienza, nel periodo considerato prevalgono le adozioni da Paesi che non hanno ratificato la Convenzione dell’Aja, ma appare una tendenza all’aumento delle adozioni dai Paesi che l’hanno ratificata; nel primo semestre del 2004, anzi, per la prima volta, queste ultime hanno superato la metà del totale (51,1%), mentre negli anni precedenti erano in percentuale considerevolmente inferiore (34,4% nel 2001, 27,1% nel 2002 e 44, 2% nel 2003). Gli Stati che hanno ratificato la Convenzione dell’Aja erano 46 al 31 luglio 2004; alla stessa data la Convenzione risultava inoltre in vigore in altri 15 Paesi che, pur non facendo parte della Conferenza dell’Aja sul diritto internazionale privato, hanno aderito alla Convenzione stessa; accanto a tali 61 Paesi occorre ricordare che ve ne sono 6 che hanno firmato, ma non ancora ratificato la Convenzione: tra essi gli Stati Uniti d’America (firmatari fin dal 1994), la Federazione Russa e la Cina.

I minori autorizzati all’ingresso per adozione provengono da 54 Paesi, ma quattro di questi ultimi costituiscono il luogo di provenienza di oltre metà dei minori: Ucraina (22,53%), Russia (11,83%), Colombia (9,14%) e Bulgaria (8,68%); da altri quattro Paesi proviene un ulteriore quarto del totale (così che complessivamente tre quarti dei minori vengono da otto Paesi): Bielorussia (8,18%), Brasile (6,90%), Polonia (5,31%) e India (5,04%). Vi sono invece Paesi dai quali proviene solo un minore (8 Stati), oppure due (7 Stati) o tre (5 Stati). Considerando il continente di provenienza, risulta che quasi i due terzi dei minori adottati sono di provenienza europea (63,6%), mentre il 21,9% vengono dall’America, il 10,6% dall’Asia e il 3,9% dall’Africa. Questi ultimi dati non vanno letti semplicemente come indicatori di una preferenza per bambini con caratteristiche etniche “europee” o di una scarsa propensione ad adottare bambini di colore: occorre infatti considerare che le procedure di adozione in Paesi europei risultano generalmente meno costose e più semplici (anche riguardo al periodo di permanenza dei genitori adottivi nel Paese straniero); è possibile, tuttavia, che anche preoccupazioni relative alle possibili difficoltà di inserimento di bambini provenienti da culture molto lontane concorrano a determinare la scelta del Paese dal quale adottare. È tuttavia interessante confrontare i dati sulla provenienza con quelli della Francia e della Spagna; l’anno più recente per il quale sia possibile tale raffronto è il 2001, nel quale in Italia vi furono 1.843 richieste di autorizzazione all’ingresso di minori stranieri a scopo adottivo, e nei due paesi citati, rispettivamente, 3.094 e 3.428 adozioni internazionali. Le percentuali secondo il continente di provenienza risultano le seguenti: in Italia il 61% dall’Europa, il 22% dall’America, il 12% dall’Asia e il 5% dall’Africa; in Francia il 32% dall’America, il 28% dall’Europa, il 26% dall’Africa e il 14% dall’Asia; in Spagna il 46% dall’Europa, il 32% dall’Asia, il 21% dall’America e l’1% dall’Africa.

L’età media degli adottati varia in modo rilevante a seconda della provenienza. Considerando solo i Paesi dai quali provengono oltre venti minori (cioè un numero tale da offrire un campione significativo per calcolare l’età media), si osserva che l’età media più elevata (11,35 anni) concerne la Bielorussia, seguita da Cile (8,87 anni), Lituania (6,72 anni), Polonia (6,71 anni), Albania (6,42 anni) e Brasile (6,21 anni); l’età media più bassa riguarda invece il Vietnam (0,72 anni), il Messico (2,18 anni), lo Sri Lanka (2,40 anni), la Cambogia (2,51 anni) e la Bolivia (2,64 anni).

L’autorizzazione all’ingresso in Italia è concessa ormai quasi esclusivamente per minori per le cui procedure di adozione è stato utilizzato un ente autorizzato, giungendo al 99,5% nel primo semestre del 2004 (mentre nel 2001 tale percentuale era ancora al 78,4%); nel complesso, oltre la metà dei casi senza utilizzo di ente ha riguardato adozioni dalla Bielorussia. Il numero di adozioni portate a buon fine annualmente da ogni ente autorizzato è molto variabile: da una o anche nessuna in taluni casi, fino a oltre cento. Il numero di Paesi nei quali ciascun ente opera è anch’esso variabile: alcuni curano adozioni solo da uno o due Paesi, mentre numerosi sono attivi in un numero maggiore di Stati; pochissimi effettuano procedure di adozione in dieci o più Paesi. Gli enti autorizzati sono attualmente 72[6].

Non sono disponibili statistiche complete e aggiornate sulle adozioni non riuscite. L’unico dato pubblicato riguarda i minori ospitati nelle strutture residenziali a causa del fallimento di un’adozione internazionale nel quadriennio 1998-2001: 164 nell’intero periodo, con un’età media di circa 13 anni e una prevalenza femminile (55%); quanto alla provenienza, al primo posto risultavano i bambini brasiliani (44 su 164). L’incidenza di restituzione rispetto alle adozioni internazionali decretate sarebbe così dell’1,7%, ma occorre notare che i dati si riferiscono soltanto ai minori ospitati in strutture e non comprendono quelli in affidamento familiare. È interessante rilevare come, secondo gli stessi dati, l’incidenza di fallimenti risulti più alta per le adozioni nazionali (167 minori in strutture, con un’incidenza di restituzione del 3%) rispetto a quelle internazionali. Infine, è necessario sottolineare che in circa un terzo dei casi i minori dopo la permanenza in una struttura sono rientrati nella famiglia adottiva: pertanto si è trattato in realtà di difficoltà transitorie, non di “fallimenti” definitivi dell’adozione.

 

2.2. Il ruolo dei servizi sociali

 

Con la riforma sulle adozioni internazionali il ruolo dei servizi socio assistenziali è cambiato significativamente: al centralismo giudiziario[7] è succeduto un sistema integrato dove una pluralità di soggetti, tribunale per i minorenni, servizi, enti autorizzati, Commissione per le adozioni internazionali, devono collaborare ed integrarsi per dare luogo ad un complesso procedimento che accompagni ogni coppia, che ha dato la propria disponibilità ad accogliere un minore straniero, per l’intero iter adozionale.

A tutt’oggi tale integrazione, su molta parte del territorio nazionale, non si è realizzata; il legislatore, infatti, pur stabilendo le competenze di ciascuno dei molteplici soggetti coinvolti nell’iter adozionale, non ha previsto gli anelli di congiunzione tra le stesse, faticosamente ricondotte ai diversi interpreti, favorendone la frammentazione.

I servizi socio-assistenziali degli enti locali singoli od associati, anche avvalendosi, per quanto di competenza, delle aziende sanitarie locali e ospedaliere, con l’articolo 29-bis, comma 4, della legge 476/98, si vedono attribuita una propria competenza a svolgere le attività di osservazione della coppia e contemporaneamente di aiuto alla stessa, mentre la valutazione dell’idoneità rimane di competenza del tribunale per i minorenni, il quale svolge tale funzione supportato da una relazione psico-sociale molto approfondita sotto il profilo psicologico.[8]

Anche dopo che ciascuna adozione si è perfezionata il ruolo dei Servizi ha una sua importanza. Anzi, specialmente nei primi tempi, la loro presenza è indispensabile per aiutare i nuovi genitori adottivi e il bambino ad affrontare e superare i problemi che possono presentarsi nella fase di inserimento. Inoltre, la maggior parte dei paesi di origine chiede almeno per un anno periodiche relazioni sulle condizioni del bambino e sul livello di integrazione nella nuova famiglia. È quindi indispensabile che i Servizi seguano la famiglia almeno nel primo anno (sull’argomento, vedi il capitolo 4.2.4. relativo alle relazioni post-adoptionem).

Per garantire una maggiore tutela del minore straniero, il legislatore italiano, in attuazione dei principi affermati dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 e della Convenzione dall’Aja del 1993 ha previsto che gli adottanti devono possedere una serie di requisiti che vanno precedentemente accertati. La stessa Convenzione dell’Aja prevede, inoltre, che l’idoneità degli aspiranti genitori adottivi venga definita tenendo conto della realtà del bambino, della sua esperienza, delle sue esigenze concrete e delle sue possibilità future di integrazione e di sviluppo nel nuovo contesto di vita. Per poter procedere ad un abbinamento adeguato, viene così richiesto un profilo psico-sociologico degli aspiranti genitori adottivi che comprenda, oltre alla loro idoneità e capacità ad adottare, anche, a norma dell’articolo 15 della stessa Convenzione “la loro storia personale, la loro anamnesi familiare e sanitaria, il contesto sociale in cui sono inseriti i motivi dell’adozione, le loro capacità di affrontare l’adozione internazionale”. Altresì è previsto nella Convenzione, articolo 5, che “gli aspiranti genitori adottivi abbiano usufruito di una consulenza adeguata”.

I servizi locali demandati a svolgere le indagini suddescritte operano secondo un’organizzazione territoriale predisposta dalle relative Regioni, che dovrebbero prevedere il coinvolgimento di operatori sociali ed operatori sanitari, nell’ambito di standard definiti, in attività di formazione e di definizione di protocolli operativi con le autorità competenti per la valutazione delle coppie aspiranti all’adozione. Tale previsione ad oggi non ha avuto una congrua attuazione, essendo mancata nella maggior parte delle regioni l’organizzazione di momenti di formazione, di aggiornamento, di confronto sulla materia delle adozioni, né tanto meno si è favorito il confronto e lo scambio con gli altri soggetti implicati nell’ambito, quali il tribunale per i minorenni e/o gli enti autorizzati. Il quadro che ne deriva è caratterizzato da una assoluta diversificazione dello svolgimento della procedura nei diversi ambiti territoriali, creando un forte disorientamento tra i diversi operatori e le coppie aspiranti all’adozione.

A livello nazionale e regionale è, infatti, avvertita la necessità di una formazione omogenea, che faciliti le attività dei servizi di cui all’articolo 29-bis, comma 4, che rispetti standard qualitativi e criteri di documentazione comparabili e condivisi nella valutazione della disponibilità dei coniugi aspiranti all’adozione e nella consulenza, per la fase di inserimento del minore nella famiglia adottiva e alla valutazione dell’andamento dell’affidamento preadottivo, in modo da favorire al massimo il rapporto con le autorità giudiziarie e garantire su tutto il territorio risposte adeguate ai bisogni dei minori e delle famiglie.

Ciò dovrebbe essere realizzato con l’organizzazione di momenti formativi e di costante aggiornamento degli operatori pubblici sociali e sanitari, a livello nazionale e regionale, con la opportuna partecipazione degli enti autorizzati e delle autorità giudiziarie competenti, al fine di aumentare le conoscenze specifiche necessarie all’operatività dei servizi.

È opportuno evidenziare, per meglio comprendere l’attuale situazione degli operatori dei servizi, che non sempre è stata dedicata da parte degli amministratori all’area dell’adozione una sufficiente attenzione e che gli organici del personale addetto al sociale non di rado risultano sottodimensionati. Ciò ha reso molto difficile in alcune aree geografiche l’applicazione della procedura adozionale prevista dalla norma.

Altra importante problematica prodotta dalla frammentarietà dei servizi e dal sovraccarico di compiti ad essi affidato è quella relativa ai ritardi sugli invii al tribunale per i minorenni delle relazioni psico-sociali rispetto alla scadenza prevista (quattro mesi dalla trasmissione ai servizi della dichiarazione di disponibilità della coppia aspirante all’adozione). Le medesime difficoltà riguardano, altresì, l’area giudiziaria che è investita della procedura adozionale: accade, infatti, che le relazioni vengano disposte in tempi ottimali e poi rimangano a lungo ferme in attesa di valutazione da parte di giudici sotto organico.

Nello stato di fatto appena delineato, con elementi di criticità nell’organizzazione funzionale dell’apparato dei servizi, risulta difficile immaginare come possano trovare attuazione le disposizioni normative contenute nella legge 476/98, che prevedono nelle diverse fasi della procedura adozionale la collaborazione tra servizi ed enti autorizzati.

L’articolo 29-bis, comma 4, lettere a e b, prevede una prima collaborazione nella fase di informazione e di preparazione della coppia che dà la propria disponibilità all’adozione internazionale; mentre gli articoli 31, comma 3, lettera m, e 34, comma 2, prevedono una successiva collaborazione nel sostegno del nucleo adottivo dopo che il minore ha fatto ingresso in Italia. Anche in questo caso la praticabilità effettiva delle attività descritte trova non pochi ostacoli, se si considera, tra l’altro, il differente grado di presenza dei servizi sul territorio rispetto alle risorse dell’ente autorizzato, al quale nei fatti viene in larga parte demandata la formazione e l’accompagnamento delle coppie nell’iter adozionale.

Accade, pertanto, che le coppie nelle diverse regioni d’Italia non sono assoggettate ad un medesimo iter di valutazione, e solamente in alcuni casi possono contare su una attenta disponibilità di una équipe che li introduca ed accompagni durante il difficile percorso adozionale, fornendo loro una specifica informazione ed una idonea formazione.

In via generale si può dire che in tutto il territorio l’istruttoria per la valutazione della coppia viene svolta in parte ad opera dei servizi ed in parte nel tribunale per i minorenni a mezzo di colloqui con giudici onorari. Destinatari delle richieste d’indagine sono per lo più consultori familiari; solo in alcuni territori sono state costituite delle équipe specifiche che si occupano in modo mirato di adozioni, come accade ad esempio a Roma con i cosiddetti Gil. In altre città si è dato luogo ad altri modelli organizzativi: a Firenze l’attività dei servizi sociali è integrata da quelle delle unità operative delle ASL; a Potenza le richieste trovano risposte in relazioni sociali dei servizi comunali e sono poi completate con una relazione psicologica curata da un professionista che gli enti locali hanno distaccato presso il tribunale per i minorenni. Nella prospettiva di favorire la collaborazione ed il coordinamento tra i diversi soggetti coinvolti nell’ambito delle adozioni in alcune regioni sono stati stilati dei protocolli d’intesa in materia di adozioni internazionali, mentre altre si accingono a farlo. Sicuramente questo aspetto meriterebbe un ulteriore approfondimento, legato alle diverse realtà regionali, che la Commissione parlamentare per l’infanzia intende affrontare a breve. In particolare, appare utile che in tutto il territorio nazionale siano presenti équipe professionalmente formate e preparate in tema di adozioni, che possano costituire il punto di riferimento principale per le famiglie adottanti e per i tribunali dei minori.

 

2.3. Il ruolo degli enti autorizzati alle adozioni internazionali

 

La legge 476/1998 prevede, come detto, che gli aspiranti all’adozione, muniti di decreto d’idoneità “devono conferire incarico a curare la procedura di adozione ad uno degli enti autorizzati di cui all’articolo 39 ter” .

Detti enti devono, pertanto, essere assoggettati ad autorizzazione ed inseriti in un albo istituito con il regolamento previsto dall’articolo 7 della legge 476/1998 ed approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 1 dicembre 1999 n. 492, contenente norme per la costituzione, l’organizzazione ed il funzionamento della Commissione per le adozioni internazionali[9].

È interessante evidenziare che la legge impone delle regole più drastiche e garantiste di quelle dettate dalla stessa Convenzione dell’Aja, a cominciare dal fatto che prevede l’obbligatorietà dell’intermediazione degli enti per tutte le adozioni internazionali, sia che provengano da paesi aderenti sia da paesi non aderenti alla Convenzione. Inoltre la stessa legge ha introdotto in via aggiuntiva alcuni requisiti, quali quello relativo all’impegno dell’ente autorizzato a “partecipare ad attività di promozione dei diritti dell’infanzia e di attuazione del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale nei paesi di provenienza dei minori” (articolo 39 ter, lett. f); quello di non avere fini di lucro (articolo 39 ter, lett. d) e, infine, quello dell’obbligo di imparzialità dell’ente, al quale è fatto divieto di avere ed operare “pregiudiziali discriminazioni” di tipo ideologico e religioso nei confronti degli aspiranti adottanti.

Da ciò si evince chiaramente l’intento del legislatore di disciplinare rigorosamente l’operato degli enti autorizzati, anche in considerazione del fatto che questi organismi, sia pur privati, sono chiamati a svolgere funzioni pubbliche.

Espressione primaria di tali funzioni è in primis l’incarico che la coppia aspirante all’adozione conferisce all’ente autorizzato di seguirli nella pratica adozionale che essi hanno deciso di voler intraprendere in un paese estero. Tale incarico, che deve essere dato entro il termine di decadenza di un anno dalla comunicazione del decreto di idoneità da parte del tribunale per i minorenni alla coppia, si sostanzia in un rapporto di diritto privato, in un contratto, avente per oggetto il compimento di atti giuridici, e più precisamente in un mandato. Mandato, peraltro, assolutamente speciale rispetto alla figura del diritto comune, in quanto l’ente non ha la possibilità di rifiutarlo, anche quando abbia dei validi motivi per dubitare dell’idoneità riconosciuta alla coppia. Quest’ultima, infatti, con il decreto di idoneità acquisisce un diritto soggettivo di dare luogo ad una procedura adozionale, diritto che si può realizzare, vista l’obbligatorietà che il legislatore italiano ha voluto prevedere, unicamente attraverso il conferimento di incarico ad un ente.

Evidenziato l’aspetto della natura contrattuale dell’incarico descritto, è altrettanto importante chiarire che l’obbligazione contratta dall’ente verso la coppia non è di risultato, ma di mezzi. L’ente autorizzato non può garantire agli aspiranti all’adozione il risultato sicuro di un’adozione per due ordini di motivi: in primo luogo perché la volontà di porre in essere un’adozione dipende solo ed esclusivamente dalla sovrana volontà dello Stato di origine, ed in secondo luogo perché l’ente prima di ogni altro compito ha quello di garantire il minore. Quest’ultimo aspetto è così rilevante che è prevista la possibilità allo stesso ente di non approvare un abbinamento con un minore straniero, qualora abbia motivo di non condividerla.

Ciò rilevato ed evidenziato, è assolutamente auspicabile, ed ovviamente necessario, che da parte dell’ente autorizzato ci sia l’assunzione di un obbligo di buona fede nella rappresentazione della realtà dell’adozione internazionale in ogni suo aspetto, attraverso lo svolgimento della funzione di informazione e formazione, sia nella fase precontrattuale che in quelle successive, in modo da rendere la coppia aspirante all’adozione adeguatamente consapevole di ciò che dovranno affrontare nello specifico del paese estero in cui ciascun ente opera e, quindi, in grado di intraprendere la migliore scelta dell’intermediario con cui condividere il percorso adozionale, mediante il conferimento del mandato.

È proprio attraverso una corretta informazione che l’ente tutela l’interesse del minore, e contestualmente, offre un corretto servizio alla coppia aspirante all’adozione[10].

Gli enti autorizzati, pertanto, nell’impostazione di ogni procedura di adozione nei vari paesi esteri, tenendo conto delle diverse necessità derivanti dai vigenti sistemi normativi che regolamentano le adozioni, pongono in essere tutta una serie di attività ad essi peculiari.

Nello svolgimento delle proprie funzioni gli enti debbono, altresì, porre in essere nei Paesi esteri, progetti di solidarietà e di prevenzione dell’abbandono, preferibilmente attraverso azioni di cooperazione allo sviluppo. Questa è in realtà una funzione molto importante che gli enti sono chiamati a svolgere, al fine di migliorare le condizioni di disagio dei paesi esteri; anzi, in un’ottica di collaborazione internazionale dev’essere debellata ogni causa di abbandono minorile.

Altro aspetto che caratterizza l’operatività di ogni ente, e ne delinea, in linea di massima, le dimensioni è la competenza territoriale. Ciascun ente, infatti, in ambito nazionale può essere stato autorizzato ad operare o sull’intero territorio o solamente su una delle tre macroaree (nord, centro, sud). Tale competenza viene determinata dal fatto che l’ente dimostri di avere una sede operativa, consistente in un’adeguata struttura organizzativa, in ciascuna delle macroaree. Pertanto, qualora un ente abbia una o più sedi operative al nord, al centro ed al sud, od almeno due sedi ubicate in diverse macro-aree, adeguatamente strutturate, avrà, conseguentemente, una competenza su tutto il territorio nazionale. Se invece le sedi sono presenti solo su una macroarea, la competenza è limitata ad essa, ferma restando la possibilità di deroga che la CAI può concedere su richiesta della coppia aspirante all’adozione. Tale sistema di attribuzione di competenza è la risultante del processo di deregionalizzazione messo in atto con la delibera n. 77 del 17 luglio 2002 della Commissione per la adozioni internazionali. Prima di tale delibera, infatti, la competenza di ciascun ente autorizzato era limitata alle sole regioni in cui aveva strutturata una sede, mentre la competenza sull’intero territorio era concessa solamente agli enti che dimostravano di avere una organizzazione capillare su tutto il territorio.

L’allargamento della competenza su aree geografiche più estese, deliberato dalla CAI in attuazione di un preciso indirizzo del Parlamento, ha soddisfatto la continua richiesta da parte delle coppie aspiranti all’adozione di poter avere una più ampia scelta tra gli enti autorizzati in un territorio più esteso.

La tipologia degli enti viene definita, pertanto, dalla propria identità sociale e dalla propria dimensione, elementi che direttamente scaturiscono dalle origini o dalla ragione sociale di ciascuno di essi. È interessante in tal senso descrivere la diversa genesi dei molteplici enti autorizzati esistenti:

·  Un primo tipo, quello più numeroso, è rappresentato dagli enti costituiti da gruppi di famiglie adottive che sulla scorta dei contatti e delle conoscenze frutto della loro personale esperienza, hanno voluto rendersi interpreti dell’attività di intermediazione nelle procedure adozionali all’estero.

·   Altri sono stati costituiti da congregazioni religiose, o da religiosi individualmente, che in contatto con missionari dello stesso ordine religioso di appartenenza o di altri ordini religiosi presenti nei diversi paesi del mondo, a completamento dell’opera di aiuto praticata dagli stessi in quei paesi, hanno cominciato a praticare adozioni di bambini in stato di abbandono, che versavano in gravi difficoltà.

·  Altri, ancora, sono nati come associazioni o comunità aventi lo scopo di portare a vario titolo aiuti e soccorsi nei paesi più disagiati nel mondo, colpiti dalla povertà, da calamità naturali o da guerre, dove i più vulnerabili sono i bambini, verso i quali si sono sviluppate spesso iniziative di adozione a distanza o di vere e proprie pratiche di adozione.

·  Alcuni enti trovano la loro origine, invece, in associazioni culturali che nello svolgimento delle proprie iniziative in paesi esteri disagiati si sono trovati in contatto con la realtà dell’infanzia abbandonata, per la quale si sono adoperati e si sono fatti carico di iniziative di solidarietà in un primo momento e, successivamente, favoriti da alcuni contatti con operatori e con le istituzioni di tali paesi, hanno iniziato a porre in essere procedure di adozione;

·  Vi è poi un’agenzia regionale per le adozioni internazionali, istituita presso la regione Piemonte con la legge regionale n. 30 del 16 novembre 2001, come previsto nell’articolo 39-bis, comma 2 della legge n. 184/1983, così come modificata dalla legge n. 476/1998. Detta agenzia regionale, iscritta all’albo degli enti autorizzati, ha i medesimi compiti di intermediazione e certificazione che la legge attribuisce agli enti autorizzati di natura privata, realizzando così, nel campo delle adozioni internazionali, nella regione Piemonte, un arricchimento di soggetti attivi, dando agli aspiranti genitori adottivi un più ampio ventaglio di scelta. Tale esperienza è stata avviata di recente, ed è perciò da considerarsi ancora in via di sperimentazione.

La diversa origine dei molteplici enti caratterizza e differenzia ciascuno di essi nella gestione e nella operatività particolare, ma è il caso di ricordare che tutti gli enti nello svolgimento delle loro funzioni dovrebbero avere un denominatore comune nella tutela dell’infanzia abbandonata, ricercando ogni possibile forma di collaborazione ed evitando ogni rischio di concorrenza.

La Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene che la molteplicità di tipologie degli enti sopra descritte faccia parte del nostro patrimonio culturale e sia pertanto da mantenere e anzi da valorizzare.

Per quanto riguarda i requisiti previsti per gli enti, essi hanno senz’altro contribuito a qualificare le competenze dei componenti degli enti stessi, aumentandone le capacità professionali e gestionali. Vero è che l’aumento di figure professionali imposte dalla legge – quali professionisti in campo giuridico, sociale e psicologico – ha determinato una parziale trasformazione di parte degli enti – soprattutto le piccole strutture di carattere missionario, religiose o laiche, o le associazioni di solidarietà inizialmente costituite da gruppi di genitori adottivi – da associazioni di volontariato in enti strutturati, una sorta di “agenzie di servizi”. La trasformazione imposta dalla legge ha dunque indirettamente favorito gli enti di grandi dimensioni, accentuando la difficoltà delle piccole strutture a porsi rapidamente in regola con i nuovi requisiti. Tale difficoltà non è stata colmata, al tempo stesso, dalla capacità degli enti di dimensioni ridotte di farsi promotori di forme di coordinamento ed integrazione.

Una maggiore richiesta di “professionalizzazione”, seppure ineccepibile in linea di principio, può quindi, come rovescio della medaglia, incidere negativamente sui costi di gestione degli enti, comportando di conseguenza un aumento della partecipazione economica richiesta alle famiglie, e potrebbe inoltre rischiare di disperdere la cultura della solidarietà e dell’accoglienza, che è alla base del cammino delle coppie verso l’adozione e di cui è costituito il ricco panorama degli enti autorizzati italiani. Ente professionale, maggiorazione dei costi, rischio di affievolimento della cultura della solidarietà e della predisposizione ad accogliere un bambino come portatore di una sua specifica storia e soggettività, rischiano inoltre di creare nelle coppie l’idea che qualsiasi richiesta rivolta agli enti debba essere da questi comunque soddisfatta.

Restano infine da esaminare i problemi connessi agli enti autorizzati ed alla necessità sia di una uniformità di comportamento dei medesimi, sia di una maggiore conoscenza dell’andamento delle procedure relative alle adozioni all’estero nei riguardi degli aspiranti adottanti.

La questione riguarda la fase successiva al decreto d’idoneità all’adozione internazionale, della quale, dopo che la coppia abbia attribuito ad un ente autorizzato l’incarico di svolgere all’estero la procedura dell’adozione, si sa ben poco quanto all’attività compiuta per giungere alla definizione della procedura, se non che vi sono lunghe attese per lo più prive di un’adeguata motivazione.

È bene perciò riassumere i termini noti del problema per porre le premesse per i necessari ritocchi normativi:

a) Il primo punto riguarda l’esigenze di un più rigoroso controllo da parte della CAI sull’attività degli enti autorizzati.

b) D’altro canto, è altrettanto noto che il decreto d’idoneità ha efficacia per tutta la durata della procedura, che deve essere promossa dagli interessati entro un anno dalla comunicazione del provvedimento giudiziario. Questo vuol dire che, trascorso un anno dal provvedimento, i coniugi aspiranti all’adozione non possono lasciare l’ente a cui si sono rivolti e conferire l’incarico ad un altro ente, se non rifacendo la procedura per la dichiarazione d’idoneità presso il tribunale per i minorenni competente e ottenendo una nuova dichiarazione d’idoneità. Ora la ragione per cui i coniugi talora intendono cambiare ente autorizzato può essere la più varia e andare dalla difficoltà di rapporti interpersonali con gli operatori dell’ente incaricato fino all’aspirazione a rivolgersi per l’adozione ad un Paese straniero diverso da quello inizialmente scelto e presso cui l’ente autorizzato non sia accreditato.

c) Vi è poi da aggiungere che l’efficacia del decreto d’idoneità ha la durata di un anno se la coppia non ha conferito l’incarico. È invece efficace per tutta la durata della procedura quando l’incarico sia stato conferito ed a questa efficacia la legge non pone alcun limite. In astratto, sarebbe quindi possibile che una coppia ottenga l’adozione internazionale dieci anni dopo il conferimento dell’incarico (e quindi dieci anni dopo la data di pronunzia del decreto d’idoneità), senza che alcuna verifica di tale idoneità il tribunale abbia mai effettuato. E questo vuol dire che l’ente autorizzato incaricato diviene in questo periodo spesso non breve il garante del perpetuarsi dell’idoneità all’adozione internazionale della coppia.

d) Ma di tanto, l’ente autorizzato incaricato non è chiamato dalla legge a rendere alcun conto. In particolare, non è tenuto a riferire a nessuno quale attività esso abbia svolto per ciascuna coppia dopo il conferimento dell’incarico, né perché una procedura si definisca dopo pochi mesi e un’altra dopo anni. Né risulta che, pur avendo con la coppia un protratto e continuo rapporto di conoscenza privilegiato, l’ente autorizzato incaricato richieda talora al tribunale per i minorenni competente di procedere alla revoca del decreto d’idoneità per cause sopravvenute che incidono in modo rilevante sul giudizio d’idoneità, come prevede l’articolo 30 della legge 184/83.

Alla luce dei rilievi proposti è possibile avanzare qualche proposta di riforma della procedura attuale, prevedendo a) che alla scadenza di ogni anno dal momento in cui la coppia abbia conferito l’incarico, l’ente autorizzato trasmetta alla Commissione per le adozioni internazionali e al competente tribunale per i minorenni una relazione che informi sulle attività effettuate in relazione alla procedura iniziata e sui relativi esiti, segnalando ogni utile elemento di aggiornamento sulla situazione della coppia. Tale periodica trasmissione servirà alla CAI come ulteriore elemento di controllo sull’attività dell’ente autorizzato e di verifica dell’osservanza delle linee guida date dalla Commissione stessa; servirà anche al tribunale per verificare se vi siano cause sopravvenute che possano comportare la revoca del decreto d’idoneità in precedenza pronunciato; b) che il decreto d’idoneità all’adozione internazionale perda efficacia alla scadenza non di un anno ma di un triennio dalla data della pronunzia del provvedimento; c) che pur restando fermo il dovere per le coppie di promuovere, a pena d’inefficacia dell’idoneità, la procedura per l’adozione all’estero entro un anno dal provvedimento, anche per consentire all’ente un congruo periodo di tempo per espletare la sua attività, deve essere consentito ai coniugi di sostituire liberamente l’ente inizialmente preferito con un altro senza che ciò incida sul decreto d’idoneità la cui efficacia resterà sempre valida per un triennio.

 

 

2.4. Le missioni effettuate dalla Commissione parlamentare

 

Come si è detto in premessa, la Commissione parlamentare per l’infanzia ha ritenuto necessario svolgere alcune missioni, rivolgendo una particolare attenzione ai Paesi dell’Est europeo, dai quali, probabilmente per ragioni di maggiore vicinanza geografica e culturale, proviene il maggior numero di bambini adottati. Secondo infatti quanto si legge nella prima Relazione sullo stato delle adozioni internazionali trasmessa al Parlamento ai sensi dell’articolo 39, comma 4, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, i bambini adottati nel 2002 dall’Ucraina costituivano il 28,5% del totale e dalla Russia il 5%; successivamente la percentuale relativa alla Russia è considerevolmente aumentata, così che attualmente questi sono i Paesi da cui proviene il maggior numero di bambini adottati.

La Commissione ha quindi ritenuto importante svolgere una missione in questi due paesi e, per ragioni diverse, anche in Romania.

Per quanto concerne l’Ucraina e la Russia, si tratta di Paesi che non hanno ancora ratificato la Convenzione dell’Aja. Ciò significa che ove la legislazione interna del Paese non è compatibile con la nostra, si possono creare anomalie tutt’altro che secondarie. In Ucraina, ad esempio, la legislazione non riconosce alcun ruolo agli enti autorizzati, ed anzi vieta ogni forma di intermediazione nelle procedure di adozione. Questo comporta che l’abbinamento tra il bambino e la coppia avviene in loco, tramite un contatto diretto tra l’Autorità ucraina e gli aspiranti genitori adottivi mentre, in base alla legislazione italiana, gli enti autorizzati sono gli unici preposti, una volta eliminato il cosiddetto “fai da te”, ad avviare e gestire le procedure di adozione (cfr. il capitolo 3.3.).

La Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene che debba svolgersi un’opportuna riflessione su questo punto, eventualmente pensando ad una modifica legislativa, affinché in situazioni come quella esistente in Ucraina ed in casi analoghi vi sia una forma di intervento diretto della CAI per procedere all’abbinamento e al completamento della procedura di adozione (cfr. le proposte contenute nel capitolo 3.3.); tale intervento servirebbe ad evitare il rischio che si effettuino speculazioni sui bambini o si perpetuino forme di “fai da te”. A tale riguardo potrebbe essere opportuno, pur senza riaprire il “canale privato” delle adozioni, prendere tuttavia in considerazione – eventualmente con un intervento diretto della CAI – la possibilità di concludere le procedure di adozione senza prevedere un ruolo obbligatorio degli enti autorizzati, come nei fatti sta avvenendo per l’Ucraina.

L’intervento dell’ente autorizzato tramite un suo rappresentante appare infatti sul piano sostanziale una fictio, che nella realtà dei fatti si riduce non di rado ad un mero accompagnamento della coppia convocata dall’Autorità ucraina. Ove quindi la legislazione del Paese che ha sottoscritto ma non ratificato, o addirittura neanche sottoscritto, la Convenzione dell’Aja risulti incompatibile con la nostra, in merito al profilo del ruolo degli enti autorizzati (l’Ucraina non è l’unico caso), sembrerebbe opportuno (senza per questo escludere la ratifica della Convenzione dell’Aja, che deve rimanere la soluzione preferibile) procedere urgentemente alla conclusione di accordi bilaterali o protocolli di intesa che codifichino e diano maggiori garanzie rispetto a prassi che rischiano altrimenti di variare da caso a caso e di non dare alcuna certezza di trasparenza. Sul piano della legislazione nazionale, Per quanto concerne la legislazione russa, essa invece, oltre ad essere perfettamente compatibile con la nostra sotto il profilo del ruolo e dell’attività degli enti autorizzati è anzi più rigorosa, al punto da far passare tutti gli enti stranieri da un nuovo vaglio e successivo accredito rilasciato e verificato ogni anno dalle preposte autorità. È inoltre richiesta ai referenti degli enti nella Federazione russa una serie di requisiti e condizioni di operatività, tra cui l’essere dotati di un ufficio di rappresentanza, gestito da un responsabile di nazionalità russa assunta con regolare contratto di lavoro. Scopo della missione svolta da una delegazione della Commissione è stato quindi proprio quello di approfondire lo stato della legislazione a tutela dell’infanzia, con particolare riferimento alle procedure di ratifica della Convenzione dell’Aja, e di conoscere meglio le problematiche concernenti le procedure di adozione, in considerazione del gran numero di coppie che, come si è detto, decidono di adottare bambini da questo Paese. A questo fine, la Commissione ha realizzato vari incontri con parlamentari ed autorità preposte per facilitare, nell’ambito di un’attività di diplomazia parlamentare, un accordo bilaterale con la Federazione russa.

A tale riguardo, infatti, la Commissione parlamentare per l’infanzia era venuta a conoscenza di una riunione tecnica svoltasi a Mosca nel dicembre del 2003 – alla quale avevano partecipato rappresentanti degli enti italiani autorizzati alle adozioni, della CAI italiana e dell’Autorità centrale russa – nell’ambito della quale erano stati mossi alcuni rilievi critici sull’operato degli enti autorizzati, tali da far rischiare ad almeno 3 dei 13 enti autorizzati la perdita dell’accreditamento per l’anno successivo. Ben più preoccupante e penalizzante per gli enti italiani era tuttavia apparso il provvedimento di sospensione, emanato dalla CAI subito dopo la predetta riunione, nei confronti di otto enti autorizzati, ma non ancora accreditati, alcuni dei quali avevano peraltro già preso in carico un numero non indifferente di coppie (delibera della CAI n. 161 del 17 dicembre 2003). Tale sospensione è infatti apparsa come un atto unilaterale della CAI, senza che, pur in presenza di alcuni rilievi critici espressi dalle Autorità russe nel corso della predetta riunione, vi fosse stata alcuna richiesta di sospendere l’autorizzazione ad alcuno dei 13 enti operanti nella Federazione russa. La Commissione parlamentare per l’infanzia ha quindi, nell’ambito dei poteri di controllo che la legge istitutiva 451/97 le attribuisce, segnalato l’accaduto al ministro per le pari opportunità cui compete l’indirizzo politico in materia di adozioni internazionali, al fine di valutare la revoca del provvedimento di sospensione, e ha, inoltre, sollecitato, al fine di una maggiore tutela delle coppie, l’adozione di un provvedimento che impedisse agli enti non ancora accreditati nel Paese straniero, di prendere in carico coppie aspiranti all’adozione in quel Paese. Tale atto è stato effettivamente adottato (delibera della CAI n. 11 del 16 marzo 2004).

La Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene, inoltre, che le coppie debbano essere messe in condizione di conoscere con maggiore chiarezza e trasparenza la situazione dei Paesi dai quali scelgono di adottare, ad esempio individuando meccanismi di controllo sull’operato degli enti, affinché vi sia immediata conoscibilità del numero di richieste di adozione, della presenza e della consistenza di un’eventuale lista di attesa, del numero di adozioni portate a buon fine dall’ente stesso. Se infatti è vero che l’attività degli enti autorizzati non può considerarsi un’obbligazione di risultato è altrettanto vero che le coppie devono poter conoscere con chiarezza e in anticipo la situazione a cui vanno incontro e non trovarsi a metà di un percorso senza sapere se poter andare avanti o dover tornare indietro.

La Commissione ritiene anche che vi sia necessità di un maggiore impegno e coinvolgimento delle nostre ambasciate all’estero con la finalità di concludere, in piena collaborazione ed intesa con la CAI e con le rispettive Autorità del Paese, accordi bilaterali o protocolli d’intesa tali da porre al riparo le coppie aspiranti adottive da inconvenienti come quelli sopra richiamati e tali soprattutto da garantire – fin quando i Paesi dai quali provengono i bambini da adottare non abbiano completato le procedure di ratifica della Convenzione dell’Aja o addirittura non abbiano ancora firmato la Convenzione – la massima garanzia e trasparenza delle procedure di adozione.

Ben diversa è invece la situazione della Romania.

La Commissione ha, infatti, deciso di svolgere una missione (il 3 e 4 dicembre 2003) essendo pervenute molte sollecitazioni, confermate, peraltro, da quanto affermato dalla presidente della CAI nel corso di un’audizione svolta dinanzi alla Commissione stessa l’11 novembre 2003, in merito al forte disagio causato dal protrarsi di una moratoria sulle adozioni internazionali decisa dal Governo romeno, entrata in vigore nel dicembre 2001. Tale provvedimento, originariamente valido per un solo anno, è stato più volte prorogato, con conseguenze assai negative sia per i bambini romeni che per le coppie adottanti, soprattutto quelle per le quali era già avvenuto l’abbinamento e che non avevano potuto, a causa della moratoria, completare l’adozione. Le ragioni della moratoria si possono sintetizzare nella esigenza, posta con decisione sia nell’ambito del Parlamento europeo che della Commissione europea, volta a far sì che la Romania, in vista dell’entrata nell’Unione europea prevista per il 2007, adottasse una legislazione compatibile con gli interessi dei bambini e con gli obblighi internazionali assunti. La moratoria è stata tuttavia prorogata ben cinque volte senza che tale legislazione fosse portata a compimento dal Parlamento romeno con le gravi conseguenze di cui si è detto. A tale riguardo, da ultimo, anche il Parlamento europeo, nella risoluzione (approvata l’11 marzo 2004) sui progressi realizzati dalla Romania in vista dell’adesione, ha riconosciuto “il diritto delle famiglie interessate dalla moratoria di ricevere una risposta alle loro richieste” e ha ritenuto “che la mancata risposta entro 3 anni costituisca una violazione dei più basilari diritti umani”.

Il Parlamento romeno ha tuttavia approvato, il 15 giugno 2004, una nuova normativa sulle adozioni internazionali (legge n. 273/2004) che le rende pressoché impossibili. L’articolo 39 della citata legge, infatti, subordinando l’adottabilità di bambini residenti in Romania da parte di soggetti residenti all’estero alla condizione che l’adottante sia nonno del bambino, priva di contenuti e di concreta attuazione l’istituto dell’adozione internazionale.

La Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene che la nuova legge romena sia, per diversi aspetti, in contrasto con le convenzioni internazionali – tra le quali non può essere dimenticata la Convenzione dell’Aja sull’adozione internazionale, ratificata dalla Romania fin dal 1994 – e, in particolare, con l’articolo 21 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e con l’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nel raccogliere informazioni sulle ragioni che hanno spinto il governo romeno ad adottare tale nuova normativa, è risultato ancora una volta, come già per la prima moratoria posta in essere nel 2001, un ruolo molto incisivo della Commissione europea, che ha incoraggiato un orientamento fortemente restrittivo.

Una delegazione della Commissione parlamentare per l’infanzia ha, quindi, svolto due successive missioni a Bruxelles, una prima volta per incontrare i funzionari della Commissione europea responsabili del settore, una seconda volta lo stesso Presidente della Commissione europea. A conclusione di tali successivi approfondimenti, la Commissione parlamentare per l’infanzia ha potuto riscontrare, nell’ambito della Commissione europea, un approccio restrittivo rispetto alle adozioni internazionali, dettato soprattutto da ragioni legate alla necessità di trasparenza e alla carenza di strumenti contro i casi di corruzione; da tale atteggiamento è derivato un conseguente comportamento da parte delle autorità romene con un innegabile danno – secondo la Commissione – per le migliaia di bambini presenti negli istituti e per le famiglie il cui abbinamento era già stato effettuato o in lista di attesa per ottenere l’adozione. La Commissione parlamentare per l’infanzia non condivide questa impostazione ed intende operare affinché nell’ambito del Parlamento europeo recentemente e della Commissione europea che entrerà in carica il 1° novembre 2004 ed in ogni altra sede competente possano assumersi più idonee determinazioni.

 

 

3. LA COMMISSIONE PER LE ADOZIONI INTERNAZIONALI. COMPOSIZIONE, MODALITÀ DI FUNZIONAMENTO E COMPETENZE: ALCUNE RIFLESSIONI E PROPOSTE

 

3.1. Compiti e funzioni

 

La Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta all’Aja il 29 maggio 1993, ha imposto una sostanziale revisione della legislazione italiana. Essa ha infatti dettato alcuni principi comuni volti a garantire che le adozioni internazionali siano realizzate nell’interesse superiore del minore ed ha stabilito un sistema di cooperazione tra gli Stati membri assicurando il reciproco riconoscimento delle adozioni realizzate in conformità con essa.

Tra i punti fondamentali della Convenzione, all’articolo 6, vi è la creazione in ogni paese contraente di una “Autorità centrale”, che ha il compito di controllare il corretto svolgimento delle procedure di adozione internazionale, ponendosi in relazione con le Autorità centrali degli altri paesi, di valutare le singole domande, di verificare la sussistenza dei requisiti richiesti e di autorizzare l’ingresso del minore. La Convenzione, inoltre, prevede che organismi abilitati collaborino con detta Autorità, vale a dire enti in possesso di rigorosi e specifici requisiti, autorizzati dall’Autorità stessa ad eseguire le procedure di adozione ed a fornire assistenza agli aspiranti genitori adottivi.

L’Italia ha ratificato la Convenzione, come già detto, tramite la legge n. 476 del 1998, che ha riscritto l’intera disciplina in materia di adozioni internazionali sostituendo ed integrando il Capo I titolo III della legge 4 maggio 1983, n. 184. La ratifica della Convenzione ha comportato la creazione della Commissione per le adozioni internazionali, quale Autorità centrale del nostro paese e la previsione del ricorso obbligatorio da parte degli aspiranti genitori adottivi a specifici enti autorizzati elencati in un Albo a cura della CAI stessa.

 

3.2. Una breve analisi.

 

Nel corso dell’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare per l’infanzia, l’11 novembre 2003, la presidente della CAI ha evidenziato il lavoro che quest’ultima ha svolto per la promozione di accordi bilaterali e protocolli d’intesa con i paesi esteri. Tale attività ha permesso di risolvere positivamente alcune situazioni (è il caso del Vietnam, ad esempio) mentre per altri casi permane ancora il blocco effettivo delle adozioni e le attività intraprese non hanno ancora portato a soluzioni risolutive (per esempio Romania e Moldavia).

La presidente della CAI, nel corso dell’audizione citata, ha illustrato anche il lavoro nel campo della cooperazione internazionale: in particolare per la promozione di progetti per la formazione ed il miglioramento della qualità professionale degli operatori in loco, al fine di favorire la formazione di professionisti in grado di eseguire tutte le procedure relative all’accertamento dei requisiti dello stato di adottabilità dei minori.

L’attività relativa alle relazioni internazionali si affianca all’impegno della Commissione per esaminare le richieste di autorizzazione degli enti ad operare, alla tenuta del relativo Albo, alla fase di controllo dei documenti per il rilascio dell’autorizzazione all’ingresso e soggiorno dei bambini stranieri nella fase conclusiva dell’iter adottivo. Si tratta di un lavoro cospicuo che impegna la CAI in maniera permanente a fronte di una esigua dotazione di personale e di risorse. In tale contesto si colloca l’intendimento del Ministro per le pari opportunità – cui il Presidente del Consiglio dei ministri con proprio decreto del 14 febbraio 2002 ha conferito la delega ad esercitare le funzioni di indirizzo politico nella materia delle adozioni dei minori stranieri – di operare una revisione del regolamento della CAI (DPR 492/1999), espresso nell’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare per l’infanzia il 22 gennaio 2003.

Rimane centrale, comunque, il complesso problema del rapporto della CAI con gli enti, sia nel senso di una maggiore collaborazione, che ne favorisca l’operatività, sia sul piano della vigilanza.

 

3.3. Alcune proposte di riforma

 

La diversificazione dei settori di intervento, cui la CAI deve dedicarsi, impone una profonda revisione della sua composizione: aumento del personale in organico e diversa strutturazione della Commissione costituiscono le questioni centrali. La CAI dovrebbe quindi essere potenziata per poter realizzare al meglio le funzioni attribuitele dalle legge, ma anche per essere posta in grado di ampliare e approfondire funzioni e settori di intervento.

A tale scopo si propongono prioritariamente tre questioni attorno alle quali potrebbe ruotare l’intero processo di ristrutturazione della Commissione:

a)           riorganizzazione interna, con la formazione di appositi uffici diretti da un responsabile delegato dal presidente;

b)           potere/dovere per il presidente di delegare parte delle funzioni attribuitegli;

c)           ripensamento della composizione della CAI, che dovrebbe essere costituita esclusivamente da funzionari della Pubblica Amministrazione distaccati a tempo pieno.

A tal fine potrebbero essere individuati quattro settori di intervento; una sorta di dipartimenti, con compiti e tematiche precise, cui potrebbero eventualmente ispirarsi le ipotesi di riorganizzazione della CAI, da realizzarsi a fronte di adeguato trasferimento di risorse finanziarie e potenziamento del personale in carico, sia dei componenti, sia del personale tecnico ed amministrativo.

1) Controllo enti e procedure iter adottivo. Occorrerebbe dedicare competenze e risorse specifiche per le attività relative al rapporto con gli enti e alle procedure inerenti all’iter adozionale. Si dovrebbe altresì realizzare una vigilanza più puntuale sull’operato degli enti, intervenendo tempestivamente in caso di disfunzioni, e svolgere contestualmente un’attività di supporto agli stessi.

2) Informazione alle coppie e promozione della cultura della solidarietà. Tramite la creazione di un’apposita articolazione interna la CAI potrebbe intensificare le azioni di informazione alle coppie aspiranti all’adozione, attraverso la predisposizione di strumenti di informazione di carattere generale, che dovranno essere diffusi – oltre che mediante il sito internet della Commissione stessa – attraverso i tribunali per i minorenni e i servizi socio assistenziali degli enti locali agli aspiranti adottanti. Tali strumenti potranno garantire l’uniformità delle informazioni e dovranno comprendere, tra l’altro, notizie sull’effettiva operatività dei singoli enti nei diversi Paesi. Si propone anche la creazione di una linea telefonica permanente, un “numero verde” cui gli aspiranti genitori adottivi potranno rivolgersi per la richiesta di informazioni di immediata utilità. Approfondire l’aspetto della comunicazione è elemento essenziale anche al fine di contribuire alla diffusione della cultura dell’accoglienza. Potenziare l’organizzazione di conferenze e seminari su temi specifici, infine, potrebbe essere di aiuto per affrontare le problematiche legate all’inserimento dei bambini nel nostro paese.

3) Rapporti internazionali e iter adottivo con i paesi che non hanno ratificato la Convenzione dell’Aja. Uno specifico dipartimento dovrebbe curare e favorire i rapporti internazionali, anche attraverso la promozione di accordi bilaterali e protocolli d’intesa, in piena collaborazione con il Ministero degli affari esteri e con le ambasciate italiane.

L’introduzione del sistema che obbliga gli aspiranti genitori adottivi a rivolgersi ad un ente autorizzato ha avuto l’indubbio merito di porre fine al cosiddetto sistema “fai da te” nel campo delle adozioni internazionali. Problemi rilevanti si pongono, però, con quei paesi che non hanno ancora ratificato la Convenzione dell’Aja e nei quali l’abbinamento avviene senza la collaborazione degli enti autorizzati. D’altra parte, vi è anche il caso di paesi dove, al momento, non opera alcun ente autorizzato. In questi casi, si potrebbero esaminare e approfondire due possibili soluzioni. La prima vedrebbe un intervento diretto della CAI (eventualità prevista dall’articolo 9 della Convenzione), tramite proprio personale, limitatamente ad un periodo transitorio, in attesa che si pervenga alla definizione di un accordo o intesa tra gli Stati, che rimane l’obiettivo prioritario. Tale ipotesi potrebbe essere studiata per quei paesi dove sono in corso contatti ed in cui si è in una fase per così dire prodromica alla possibilità di un accordo. La seconda per i paesi dove non si registra la presenza di enti autorizzati italiani: in attesa che qualcuno di questi vi stabilisca la propria attività, la CAI potrebbe o agire direttamente, se le condizioni lo consentano, o delegare ad un ente anche se non operativo in quel Paese o autorizzare direttamente le coppie. Tale ultima ipotesi potrebbe essere concessa, in via residuale, solo dopo attenta verifica da parte della Commissione del canale utilizzato dalla coppia e del procedimento seguito, ove questo naturalmente risulti agevole e possibile, anche avvalendosi del personale delle nostre ambasciate. Due ipotesi, quella di paesi che non riconoscono l’attività degli enti e quella ove non si registra la presenza di questi ultimi, che hanno bisogno di verifiche puntuali ed approfondite anche per evitare che possano divenire canali per allargare le “maglie” del controllo e della vigilanza.

4) Organizzazione e controllo dell’affidamento internazionale

Un altro versante dell’attività, infine, dovrebbe essere organizzato per la gestione dell’affidamento internazionale. Fattispecie, quest’ultima, che la Commissione auspica possa essere praticata quanto prima per intervenire a favore di quella ampia fascia di infanzia in stato di semiabbandono permanente o abbandonata che per motivi diversi non trova una immediata soluzione alla propria situazione di abbandono (bambini non adottabili o grandicelli di età) (cfr. il capitolo 4.5.2.).

A tal fine potrebbe essere istituito un dipartimento, che dovrebbe collaborare con specifici enti autorizzati all’affidamento internazionale, iscritti in un apposito albo per la definizione di progetti di risanamento sanitario, istruzione o formazione professionale rivolti ai minori stranieri, affinché, accolti da famiglie italiane che possiedono idonei requisiti possano essere aiutati ed inseriti nel contesto sociale a loro più appropriato e sfuggire alle problematiche dell’istituzionalizzazione.

Il risultato dell’attività dei singoli dipartimenti dovrebbe costituire parte integrante della relazione biennale al Parlamento ai sensi dell’articolo 39, comma 4 della legge n. 476/1998.

 

 

4. NODI PROBLEMATICI E POSSIBILI SOLUZIONI

 

4.1. L’adozione nazionale

 

La disciplina delle adozioni nazionali, contenuta nella legge 4 maggio 1983, n. 184, è stata negli ultimi anni oggetto, come si è detto, di sensibili modifiche. Con l’approvazione della legge 28 marzo 2001, n. 149, si è voluto adeguare la previgente normativa, che ormai mostrava evidenti problemi applicativi, in ordine alla sua lacunosità, in alcuni casi alla sua difficile interpretazione[11]. La ratio ispiratrice della riforma è contenuta nel nuovo articolo 1 della legge n. 184 ove può leggersi che il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia. Le condizioni di povertà dei genitori non rappresentano di per sé un ostacolo all’esercizio di tale diritto, tanto è vero che si prevedono interventi di sostegno e di aiuto in favore della famiglia. L’ente locale, in particolare, nei limiti delle proprie competenze e risorse, interviene con misure specifiche atte a rimuovere le cause economiche, personali e sociali che impediscono alla famiglia di svolgere i propri compiti. Solo allorquando, nonostante gli interventi descritti, la famiglia non sia in grado di provvedere convenientemente alla crescita e all’educazione del minore, si applicano gli istituti dell’affidamento e dell’adozione.

 

4.1.1. La deistituzionalizzazione e il semiabbandono permanente: la proposta di adozione aperta e l’esperienza dell’adozione “mite”

 

Alla deistituzionalizzazione dei minori, anche in vista della scadenza del 31 dicembre 2006 (prevista dalla legge 149/2001) per la chiusura degli istituti, la Commissione parlamentare per l’infanzia ha dedicato un capitolo della relazione annuale al Parlamento, approvata il 27 luglio 2004 (Relazione sull’attuazione della legge 28 agosto 1997, n. 285, recante “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”). Secondo i dati ivi esposti, i minori in istituto sono circa 3.000. Il numero complessivo dei minori “fuori dalla famiglia”, tuttavia, dovrebbe aggirarsi attorno ai 30.000, poiché occorre aggiungere i circa 10.000 in affidamento familiare (l’ultimo dato noto, risalente al 1999, era di 10.200) e i 15.000-20.000 (secondo le stime) accolti in comunità familiari ed educative (i dati si riferiscono alle attività di ricerca del Centro nazionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza).

Il nostro sistema legislativo prevede tre diversi percorsi per un bambino in difficoltà familiari:

a)     in caso di difficoltà modeste, soprattutto se la famiglia collabora, o comunque non si oppone, è previsto un sostegno dei servizi sociali, i quali aiutando in vario modo sia la famiglia, sia il bambino, fanno sì che il minore possa continuare a vivere nel proprio nucleo familiare;

b)     in caso di difficoltà rilevanti, ma temporanee e quindi considerate superabili in tempi sufficientemente brevi, il bambino può essere dato in affidamento familiare, o temporaneamente collocato presso case famiglia o istituti, per un periodo della durata massima di due anni;

c) in caso di difficoltà gravi, in cui la famiglia pone in essere maltrattamenti rilevanti, o abbandona materialmente e moralmente il minore, e nel caso in cui la situazione risulta essere irreversibile, il bambino viene dichiarato adottabile e dato in adozione.

Questa impostazione del nostro sistema trascura completamente il caso, che invece, purtroppo, è assai frequente: quello designato nella terminologia della giustizia minorile come “semiabbandono permanente”. Si fa riferimento alle situazioni nelle quali la famiglia del minore è più o meno insufficiente rispetto ai suoi bisogni, ma ha un ruolo attivo e positivo, che non è opportuno venga cancellato totalmente; nello stesso tempo, non vi è alcuna ragionevole possibilità di prevedere un miglioramento delle capacità della famiglia, tale da renderla idonea a svolgere il suo compito educativo in modo sufficiente, magari con un aiuto esterno curato dai servizi.

Queste situazioni, di carenza della famiglia solo parziale, ma permanente, non sono contemplate dalla legge. La recente riforma dell’adozione nazionale, entrata in vigore nel 2001, non ha preso in considerazione questo problema.

I giudici e gli operatori sociali, che si trovano a farvi fronte ogni giorno, cercano in qualche modo di risolverle con gli strumenti messi a loro disposizione dalla legge.

Ora è noto, purtroppo, che la quasi totalità dei bambini istituzionalizzati ed una parte non modesta di quelli che sono in affidamento familiare sono in tale situazione di semiabbandono permanente e, quindi, non possono essere dichiarati adottabili, in quanto, per lo più, non vi sono gli estremi giuridici per dichiarare lo stato di abbandono, ma, d’altro canto, le possibilità di rientro in famiglia sono praticamente nulle. La condizione di vita alla quale sono destinati questi bambini è, pertanto, di grave privazione sia materiale, sia morale, senza avere la possibilità di essere aiutati.

I soggetti coinvolti nel settore delle adozioni cercano di ipotizzare delle strade percorribili affinché tali problematiche possano essere affrontate: in alcuni casi la giurisprudenza ha proceduto all’adozione cosiddetta “aperta”, vale a dire ad una adozione che ha le caratteristiche di quella legittima, con l’eccezione del mantenimento di rapporti con la famiglia di origine.

Tale tipo di adozione viene da taluni ricondotta a quella già prevista e disciplinata dall’articolo 44 della legge 184/83; quest’ultimo, però, prevede solamente alcune ipotesi specifiche che possono essere ricondotte alle condizioni di semiabbandono permanente, non prevedendo, invece, gli altri diversi casi ad esso riconducibili. D’altro canto, qualche volta è accaduto che i giudici – a beneficio di minori la cui condizione era particolarmente delicata – abbiano proceduto a delle adozioni a norma dell’articolo 44 per casi di semiabbandono permanente allo stesso non pienamente riconducibili. Si tratta, evidentemente, di un impiego improprio della norma, e soprattutto, di una modalità che può non presentare sufficienti garanzie per tutte le persone coinvolte nella vicenda.

Alla luce, pertanto delle valutazioni appena svolte, ed in considerazione della rilevante importanza che il sistema normativo italiano attribuisce alla famiglia ed alla necessità di tutelare la sua unità, la Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene importante proporre un ulteriore modello di adozione, specificamente pensato per i soli casi di semiabbandono permanente.

Il modello normativo dell’adozione aperta sul quale si propone una riflessione potrebbe essere così costruito:

a) Suo presupposto necessario potrebbe essere una dichiarazione giudiziale di semiabbandono permanente, pronunziata a seguito di accertamento di una situazione d’insufficienza permanente della famiglia d’origine, insufficienza tuttavia parziale, in quanto non giustifica la totale interruzione dei rapporti del minore con la famiglia.

b) La dichiarazione giudiziale di semiabbandono permanente dovrebbe essere emessa dal giudice a conclusione di un procedimento simile a quello utilizzato per l’accertamento dell’abbandono e la dichiarazione di adottabilità.

c) Dichiarato lo stato di semiabbandono permanente, il giudice potrebbe procedere all’affidamento preadottivo ad una famiglia che presenti i requisiti indicati dall’articolo 6 della legge 184/1983. Nel provvedimento di affidamento preadottivo il giudice dovrebbe stabilire le regole necessarie a governare le relazioni tra bambino, famiglia della preadozione e famiglia di origine, precisando i soggetti (genitori o anche altri) che hanno il diritto-dovere di visitare il minore, i tempi e le modalità delle visite. Nel corso del procedimento il giudice dovrebbe procedere all’ascolto di tutti (anzitutto del minore con capacità di discernimento) e impegnarsi per quanto possibile nell’acquisizione dei consensi di tutti.

d) I poteri parentali spetterebbero agli affidatari in preadozione. Inoltre il provvedimento di affidamento preadottivo dovrebbe essere pronunziato rebus sic stantibus e potrà essere modificabile nell’interesse del minore con conseguente incremento o riduzione delle visite.

e) Concluso l’affidamento preadottivo verrebbe pronunziata l’adozione aperta, con effetto legittimante del tutto simile a quello previsto dall’attuale legislazione. L’unica differenza sarebbe costituita dalla previsione e dalla disciplina di visite minore-famiglia di origine, così come previsto durante la fase dell’affidamento preadottivo.

Nel caso in cui il tribunale giungesse a disporre la totale interruzione dei rapporti minori-famiglia di origine e questa situazione si protraesse per almeno sei mesi, gli adottanti dell’adozione aperta potrebbero richiedere nell’interesse del minore la conversione dell’adozione aperta in adozione legittimante piena.

Nella trattazione degli strumenti proponibili per la risoluzione dei casi di semiabbandono familiare suscita particolare interesse il modello attuato dal tribunale per i minorenni di Bari, denominato “adozione mite”.

Si tratta di un’adozione definibile semplice o non legittimante strutturata per i numerosi casi di semiabbandono permanente in cui la famiglia ha posto in essere nei confronti del minore un rapporto lesivo e gravemente pregiudizievole tale da configurare una situazione di abbandono rilevante per la dichiarazione di adottabilità, alla quale però non si può pervenire per espressa negazione della legge vigente. I criteri di valutazione dello stato di adottabilità di un minore previsti dalla legge 184/83 sono, infatti, molto restrittivi e rispondenti all’esigenza di tutelare primariamente la famiglia di origine, ne è testimonianza il testo riformato dell’art. 1, comma 2 della medesima legge che espressamente afferma: “Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia”.

La sperimentazione è stata posta in essere a seguito di autorizzazione del Consiglio superiore della magistratura in quei casi in cui il minore sostanzialmente abbandonato si trovi, oltre il tempo massimo previsto dalla legge, in affidamento familiare, e per il quale non è possibile un rientro nella famiglia di origine, perdurando lo stato di difficoltà. In queste ipotesi, valutato, inoltre, che tra il minore e gli affidatari si sia instaurato un solido rapporto affettivo, tale che l’allontanamento possa essere pregiudizievole al minore, si procede, con il consenso di questi ultimi, e dichiarato giudizialmente lo stato di semiabbandono permanente del minore, all’adozione “mite”. Questa adozione non interrompe il rapporto di filiazione tra minore e genitore di origine, ma ne aggiunge un secondo, quello con gli adottanti, conseguente all’adozione, cui spetta naturalmente anche la potestà genitoriale. Di tale esperienza è interessante valutarne i risultati relativi al primo anno di attività: di 56 minori deistituzionalizzati, 17 sono rientrati in famiglia, 33 sono stati collocati in affidamento familiare, per 6 si è proceduto all’adozione “mite”.

In considerazione della gravità in cui versa un gran numero di bambini in stato di semiabbandono permanente, la Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene che non possa essere rinviato troppo oltre l’avvio di una riflessione – che coinvolga anche gli esperti della materia – su nuovi strumenti e modelli, quali l’adozione aperta e quella “mite” sopra richiamate, per offrire una più vasta gamma di percorsi che tutelino l’interesse primario del minore davanti alla complessità di problemi e situazioni altrimenti non risolvibili, anche in vista della chiusura degli istituti residenziali per minori prevista dalla legge entro il 31 dicembre 2006.

 

4.1.2. Il procedimento di adottabilità: verso una maggiore terzietà del tribunale per i minorenni

 

La legge n. 149 del 28 marzo 2001, in ossequio al principio costituzionale del cosiddetto giusto processo introdotto con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione, ha strutturato il procedimento per la dichiarazione dello stato di adottabilità come procedimento di parte, assegnando al pubblico ministero un ruolo fondamentale e introducendo la difesa d’ufficio. Una innovazione incisiva e diretta a recuperare pienamente la terzietà del giudice, ma che ancora oggi non trova applicazione, per problemi di coordinamento con la legge sul patrocinio dei non abbienti ed in attesa di un compiuta disciplina sulla difesa di ufficio.

Il sistema processuale originario delineato con la legge 184/83 individuava nel tribunale per i minorenni il soggetto preposto all’apertura del procedimento per la dichiarazione di adottabilità, che si svolgeva in due fasi: la prima di carattere camerale, che attribuiva al tribunale il duplice ruolo di requirente e decidente, la seconda, eventuale, di carattere contenzioso, che si realizzava in caso di proposizione di opposizione alla dichiarazione di adottabilità.

Con la modifica dell’articolo 9, introdotta dalla legge 149/2001, viene conferita, invece, al pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni la titolarità dell’azione tesa all’accertamento dello stato di abbandono di un minore ed alla successiva declaratoria di adottabilità (funzione requirente). Azione da esercitare, una volta assunte le necessarie informazioni e valutate le segnalazioni di abbandono, mediante la proposizione di ricorso motivato dinanzi al tribunale per i minorenni. Di conseguenza, il pubblico ministero diventa nel nuovo assetto legislativo il motore del procedimento per la dichiarazione di adottabilità, definito dal tribunale per i minorenni con sentenza (funzione decidente), suscettibile di appello e ricorribile in Cassazione (ex articolo 360, comma 1, nn. 3, 4, 5 del Codice di procedura civile).

D’altro canto la distinzione tra le due funzioni appena delineate non è così netta come si auspicava: mentre, infatti, il comma 2 del citato articolo 9, prevede che il procuratore della Repubblica assuma le necessarie informazioni, il successivo comma 1 dell’articolo 10 prevede che, ulteriormente e successivamente, il tribunale svolga “più approfonditi accertamenti sulle condizioni giuridiche e di fatto del minore, sull’ambiente in cui ha vissuto e vive ai fini di verificare se sussista lo stato di abbandono”. La legge 149/2001 con la previsione contenuta nell’articolo 10 continua a cumulare in capo al tribunale per i minorenni il ruolo di inquirente e decidente.

Sarà necessario, pertanto – auspicando una modifica della norma – che, nel rispetto del principio della terzietà del giudice (articolo 111 della Costituzione), al tribunale sia attribuita come unica funzione quella decidente e che i compiti di requirente siano tutti attribuiti al pubblico ministero minorile, il quale, prima di proporre il ricorso introduttivo, dovrà acquisire le necessarie fonti di prova, in modo da procedere poi nel corso del giudizio dinnanzi al tribunale alla loro acquisizione, fatta salva la possibilità di avanzare richieste ulteriori di prove specifiche (ad esempio, consulenza tecnica), che entrambe le parti potranno chiedere al tribunale nel corso del giudizio e che lo stesso avrà facoltà di disporre d’ufficio.

In funzione di una tale definizione dei ruoli sarà, altresì, necessario delineare un nuovo sistema organizzativo dell’ufficio del Pubblico Ministero con l’introduzione di nuove figure coadiuvanti, considerato che nel suo attuale assetto non è certamente in grado di far fronte ad un impegno lavorativo così gravoso.

 

4.2. L’adozione internazionale

 

La nuova normativa che ha regolamentato l’adozione internazionale – legge n.476/1998 di ratifica della Convenzione dell’Aja del 29 maggio 1993 – costituisce lo strumento principale attraverso cui si è voluto far fronte al fenomeno, in grandissimo incremento, che vede sempre più un maggior numero di coppie aspiranti all’adozione rivolgersi nei paesi esteri.

La nuova disciplina ha imposto, evidentemente, una profonda revisione culturale ed organizzativa sia in coloro che si accingono ad adottare un bambino che viene da un paese estero, sia negli operatori giudiziari, psico-sociali e sanitari che ad oggi sono impegnati nel preparare, facilitare, seguire e decidere l’inserimento di un bambino straniero in una famiglia italiana ed al contempo un nuovo contesto sociale.

In ogni caso se da un lato è da considerarsi positiva la tendenza, ormai ampiamente dimostrata dall’elevato numero di coppie aspiranti all’adozione all’estero, all’accettazione di un bambino che non solo viene da lontano, ed è portatore di culture diverse, ma che spesso evidenzia anche caratteristiche somatiche diverse dalle proprie, dall’altro, però, non è del tutto svanito il dubbio che molte persone, forse non sufficientemente preparate, accettino l’adozione internazionale non come libera scelta conseguente ad una seria valutazione e comprensione di ciò che effettivamente implica una tale adozione, ma solo come ripiego quando diventano evidenti le scarse probabilità o possibilità di ottenere un’adozione nazionale. In questi casi i rischi di un drammatico fallimento dell’esperienza diventano rilevanti non tanto nel primo momento dell’inserimento del bambino in famiglia, quanto al momento della sua crisi adolescenziale, che i genitori non sono in grado di gestire e contenere, ed in cui è facile che riemergano i vecchi pregiudizi nei confronti del bambino che viene da lontano con un difficile vissuto alle spalle.

Di fondamentale importanza è, pertanto, che i soggetti implicati in tutto il complesso iter adozionale soffermino la propria attenzione ed approfondiscano quanto più possibile ogni passaggio relativo all’attività di informazione e formazione di ogni coppia aspirante all’adozione sui suddetti aspetti. In quanto tanti più elementi e strumenti quest’ultima avrà a propria disposizione per valutare il contesto adozionale all’estero, tanto più la sua scelta sarà consapevole e soprattutto responsabile.

Non si deve inoltre dimenticare il principio secondo cui (articolo 4 della Convenzione dell’Aja) l’adozione internazionale è possibile solo dopo che siano esperiti tutti i tentativi per consentire che il bambino possa rimanere nella sua famiglia di origine. A tal fine è auspicabile che il fenomeno del sostegno a distanza, impropriamente definito “adozione a distanza”, possa subire un sempre maggiore incremento ed al contempo un migliore inquadramento: tale attività dovrebbe essere rivolta direttamente alle famiglie, perché siano messe nella condizione di tenere con loro i bambini e, conseguentemente, sempre meno siano i minori inviati agli istituti. Gli enti chiamati a porre in essere tali iniziative, in attuazione del principio di sussidiarietà, pertanto, devono dedicare una crescente attenzione e dedizione all’esecuzione delle attività di solidarietà mirando a prevenire l’abbandono.

 

4.2.1. La dichiarazione di idoneità e la sua impugnazione

 

La legge 476/1998 prevede all’articolo 30, comma 1, che è competenza del tribunale per i minorenni pronunziare, con decreto motivato, la sussistenza od insussistenza dei requisiti per adottare, nei confronti delle coppie aspiranti all’adozione che abbiano presentato la dichiarazione di disponibilità ad accogliere un minore straniero. Il decreto è emesso sulla base delle informazioni riguardanti i coniugi contenute nella relazione psicosociale redatta dai servizi territoriali, che deve contenere anche indicazioni che favoriscano il migliore incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare.

Tale indicazione presuppone, quindi, che il tribunale per i minorenni, sulla base della disponibilità di una approfondita analisi della coppia eseguita dai servizi, si debba esprimere per l’idoneità o l’inidoneità con una motivazione che sia sufficientemente chiara ed articolata, che metta in evidenza le caratteristiche della coppia, proprio per favorire il miglior abbinamento con il minore. Di prassi, però, fino ad oggi i decreti di idoneità contengono solo poche righe che, riprendendo la lettera della legge, forniscono minimi elementi di valutazione per un abbinamento, quali: l’età del minore adottabile, la provenienza, le caratteristiche somatiche, ed il numero. Tutti elementi che descrivono il bambino che può essere proposto in abbinamento, senza alcun riferimento alle caratteristiche possedute dalla coppia. L’indicazione delle caratteristiche del minore proponibile induce a pensare che c’è una tendenza a voler accogliere i desideri degli aspiranti genitori piuttosto che a voler garantire il fondamentale diritto del minore di crescere in una famiglia, che nel migliore dei modi si adatta alle sue caratteristiche. Ciò può essere realizzato solo attraverso la descrizione della coppia, mediante l’indicazione dei più specifici dettagli sulle sue capacità ad accogliere un minore, che al meglio possano definire l’idoneità dei candidati, restringendone l’utilizzabilità, in funzione delle loro caratteristiche strutturali, organizzative, relazionali od esperienziali, ed al fine di evitare che agli stessi venga abbinato un bambino di cui non siano in grado di occuparsi adeguatamente.

Pertanto, un quadro sintetico, ma articolato, delle risultanze emerse dalla indagine dei servizi costituirebbe, quindi, non solo una ragionevole e fondata condizione delle indicazioni con cui il tribunale per i minorenni intende accompagnare l’idoneità, ma anche un utile sunto orientativo a favore degli enti autorizzati e delle autorità estere, oltre che alla stessa coppia aspirante all’adozione.

La motivazione contenuta in ciascun decreto che indica l’idoneità o l’inidoneità di una coppia aspirante deve presupporre la valutazione condivisa di una pluralità di elementi, che standardizzano una procedura e ne definiscono i criteri applicativi. Tali elementi sono:

·             La personalità dei coniugi: caratteristiche individuali, stile relazionale e storia individuale;

·             Le competenze genitoriali: essere capaci di stabilire una relazione adeguata nei confronti del minore;

·             La rete relazionale: poter contare su relazioni effettivamente soddisfacenti e gratificanti;

·             La scelta adottiva: motivazione dell’adozione, elaborazione dell’eventuale sterilità, concezione dell’adozione;

·             La preparazione all’adozione: avere adeguata consapevolezza, volontà e risorse per gestire le peculiari problematiche dell’adozione;

·             La presenza di figli: esistenza di risorse appropriate per accogliere un fratello eventualmente difficile.

La mancanza di uniformi e determinati criteri valutativi dell’idoneità della coppia comporta, quindi, un’evidente confusione soprattutto per i casi in cui tale idoneità è negata. Accade, infatti, che a causa della mancanza di regole precise di riferimento, molto spesso la corte d’appello, a seguito di reclamo proposto dalla coppia dichiarata inidonea, riformi il decreto concedendo l’idoneità, basandosi per lo più su requisiti formali, senza un’effettiva valutazione delle capacità delle capacità dei genitori richiedenti, rendendo vano tutto il percorso svolto in precedenza dai servizi e dal giudice del tribunale per i minorenni.

Inoltre, l’articolo 30, comma 2, della citata legge 184/83 prevede che il decreto d’idoneità contenga anche indicazioni per favorire il migliore incontro tra aspiranti all’adozione ed il minore da adottare. L’interpretazione di questa disposizione operata da alcuni tribunali è stata oggetto di ripetuti rilievi critici in quanto tali provvedimenti non si sono limitati a fornire indicazioni sulle modalità degli incontri (se sia, ad esempio, opportuno un tempo prolungato da dedicare ai primi incontri o se sia sufficiente un tempo limitato; se sia necessario che i primi incontri avvengano in gruppi con altri bambini oppure no, ecc.), ma sono andati ben oltre giungendo a porre indicazioni (e limitazioni) sui bambini che sarebbe opportuno affidare ai coniugi, a cui il provvedimento si riferisce. Si sono quindi date indicazioni (il cui rispetto ai sensi dell’articolo 35, comma 6, lettera a è obbligatorio ai fini della trascrizione della sentenza straniera) sull’età del bambino da adottare, ponendo per prassi impropriamente dei tetti, e si è giunti anche a fornire indicazioni sui tratti somatici del medesimo, indicando come necessario che il bambino provenisse da un Paese europeo. Indicazione, peraltro, ridondante, in quanto sarà poi la coppia a dare mandato ad un ente anche secondo l’area geografica in cui esso è operativo.

In tal modo si è spostata in sostanza la centralità dell’adozione dal bambino alla coppia ottenendo il risultato che sia il bambino ad essere “scelto” in funzione delle peculiarità (e dei bisogni) della coppia aspirante all’adozione e non viceversa, rischiando, peraltro, di apparire all’Autorità straniera come un paese selettivo per fasce di età. Tali osservazioni sono state proposte anche dalla Commissione parlamentare per l’infanzia che nelle risoluzioni n. 8–00038 (Bolognesi ed altri) e n. 7–00023 (Tredese e altri), approvate all’unanimità il 26 marzo 2003, ha chiesto l’adozione di iniziative dirette ad evitare “eventuali autonome e diversificate interpretazioni della legge da parte dei tribunali per i minorenni tramite l’inserimento del limite massimo di età del minore da adottare, non previsto dal legislatore”.

In realtà, un tale orientamento emerge già con lucidità dalla legge che nei principi generali fissati nell’articolo 1, al comma 5 recita: “Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è assicurato, senza distinzione di sesso, di etnia, di età di lingua, di religione e nel rispetto dell’identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento”.

 

4.2.2. Formazione e informazione per le coppie che intendono adottare

 

La concreta applicazione della nuova disciplina in materia di adozione internazionale, ponendo al centro il diritto del minore ad una famiglia, impone l’acquisizione di una nuova cultura dell’accoglienza da parte delle coppie aspiranti, che dovrebbe essere adeguatamente favorita da tutti i soggetti interessati: istituzioni, tribunali per i minorenni, servizi sociali ed enti autorizzati. La corretta informazione alle famiglie sulle modalità di accesso all’iter adottivo, tempi e soggetti coinvolti dalla normativa vigente, dovrebbe dunque procedere di pari passo con un processo di formazione ed educazione culturale delle coppie circa la disponibilità ad accogliere un bambino portatore di una propria soggettività e storia personale. La profonda revisione della struttura organizzativa interna della Commissione per le adozioni internazionali, proposta in questa sede (cfr. capitolo 3.3.), e la costituzione di un apposito ufficio con il compito di promuovere l’informazione e la promozione della cultura della solidarietà alle coppie aspiranti, dovrebbe prefiggersi proprio tale scopo. La CAI, nelle intenzioni della Commissione parlamentare per l’infanzia, dovrebbe intensificare gli strumenti di informazione e formazione delle coppie, sia tramite il numero verde già proposto (vedi al cap. 3.3.), il sito internet in uso, e l’utilizzo dei mass media, sia attraverso la promozione di una informazione uniforme sul territorio tramite il coinvolgimento dei tribunali per i minorenni, delle regioni e degli enti locali, nonché la partecipazione diretta degli enti autorizzati. Un’informazione che dovrebbe intensificarsi anche nella fase successiva al conseguimento del decreto di idoneità, indirizzando le coppie in maniera adeguata sui paesi di provenienza dei bambini, sui problemi inerenti all’età – possibilmente cercando di promuovere una cultura dell’accoglienza che includa anche i bambini considerati “grandicelli”.

In questo quadro, è chiaro quanto un diverso e nuovo ruolo dei servizi sociali, adeguatamente rafforzati, nella fase che segue il decreto di idoneità, debba rappresentare un obiettivo concreto, che la Commissione auspica con forza affinché il ruolo degli enti autorizzati sia accompagnato dal soggetto pubblico e il tempo di attesa delle coppie sia pieno di esperienze formative.

Questo creerebbe anche un legame positivo tra la fase antecedente all’idoneità e quella successiva e motiverebbe l’accompagnamento di formazione, nella prassi ormai obbligatorio ed interamente delegato all’ente autorizzato, riducendo anche l’incidenza sui costi per la famiglia ospitante adottiva.

 

4.2.3. I costi delle procedure per le adozioni internazionali e l’opportunità di istituire un fondo apposito

 

Uno degli aspetti più rilevanti relativi all’adozione internazionale che merita di essere esaminato ed affrontato è quello relativo ai costi, che ancora oggi sono obbiettivamente elevati soprattutto per le coppie appartenenti a ceti meno abbienti.

L’intervento posto in atto dalla Commissione per le adozioni internazionali sulla congruità dei costi relative alle pratiche di adozione internazionale sia in Italia che all’estero (direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 4 aprile 2003, concernente i tetti di spesa) ha costituito un primo passo vero la risoluzione del problema, in quanti i costi risultano ancora troppo elevati. Ai costi che gli enti autorizzati prevedono quali contributi per la quota iniziale, corsi, incontri con psicologi e altre figure professionali (lievitati anche per la maggiore qualificazione oggi richiesta dalla normativa vigente) vanno sommati i costi delle questioni procedurali all’estero, tra cui la traduzione dei documenti, le spese di viaggio e di permanenza nel paese straniero, considerando anche che il soggiorno legato all’abbinamento ed all’incontro con il bambino non è breve (la legislazione russa, ad esempio, prevede almeno due viaggi degli aspiranti genitori, prima della sentenza di adozione) e che il periodo di permanenza all’estero, per i lavoratori dipendenti, non è computato nel previsto periodo di maternità, (che per i genitori adottivi scatta il giorno di entrata del bambino nel nostro paese), ma viene considerato come aspettativa non retribuita.

D’altro canto la realtà dell’adozione internazionale, caratterizzata da complesse procedure previste dalle legislazioni estere, che comportano un valido supporto, oltre che tecnico, anche logistico, ed il fatto che i paesi esteri a cui ci si rivolge sono molto spesso lontani, non danno ampi margini per una ulteriore riduzione dei costi.

Alcuni costi potrebbero essere considerevolmente ridotti tramite accordi con i Paesi di provenienza dei minori, intesi a ridurre la durata e il numero dei periodi di permanenza all’estero richiesti agli aspiranti genitori adottivi.

La soluzione più idonea, prospettata anche in alcune proposte di legge[12], appare tuttavia l’istituzione di un fondo per il sostegno all’adozione internazionale, per rimborsare parzialmente le spese relative. Il fondo, da istituire presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, potrebbe rimborsare parzialmente (secondo limiti che la CAI dovrebbe indicare per ogni singola voce di spesa) le spese di viaggio e soggiorno e quelle sostenute all’estero dalla coppia, come prevede la proposta di legge Pisapia, oppure erogare un contribuito pari al 50% per cento delle spese sostenute dalla coppia per l’espletamento delle procedure di adozione, come prevede la proposta di legge Bolognesi. Quest’ultima prevede inoltre di reperire le somme necessarie dalla quota annualmente destinata allo Stato dell’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.

Occorrerebbe inoltre promuovere – anche con idonee campagne di sensibilizzazione – forme di sostegno dell’adozione internazionale che favoriscano un più largo coinvolgimento della collettività.

La possibilità di ridurre i costi relativi all’iter adottivo potrebbe anche prevedere forme di cooperazione tra gli enti autorizzati per alcuni servizi (si pensi alla traduzione dei documenti o alla possibilità di stipulare convenzioni per i viaggi), che consentirebbero di diminuire i costi di gestione e quindi ridurre l’onere per le coppie di aspiranti genitori adottivi. Sarebbe inoltre auspicabile la possibilità di convenzioni tra enti, regioni, province e comuni per ridurre i costi delle sedi, degli operatori e dei corsi di formazione.

Un’altra possibilità di ridurre i costi potrebbe essere costituita dall’elevazione della percentuale di deducibilità dal reddito, attualmente fissata al 50% delle spese certificate sostenute dai genitori adottivi per la procedura di adozione internazionale.

L’eventuale auspicata istituzione di enti autorizzati pubblici, facenti capo alle regioni o alle aree metropolitane, così come previsto dall’articolo 39-bis della legge 184/83 (finora esiste solo l’apposita agenzia della regione Piemonte) potrebbe inoltre contribuire a rendere meno gravosi i costi per le coppie adottanti.

 

4.2.4. Le relazioni post adoptionem: il possibile ruolo dei servizi sociali

 

Un’altra questione insoluta e gravosa per gli enti autorizzati e i servizi degli enti locali riguarda l’elaborazione delle relazioni contenenti la descrizione dell’inserimento del minore adottato all’estero nel contesto familiare e sociale italiano dopo l’avvenuta adozione, le cosiddette relazioni post-adozione, richieste dai paesi esteri per un periodo di tempo previsto e stabilito in ciascuno di essi dalle leggi locali.

La normativa vigente in materia di adozioni internazionali non prevede un obbligo specifico di tale adempimento. L’articolo 9, lettera e, della Convenzione dell’Aja, infatti, che non ha omesso di considerare la richiesta di informazioni sul post-adozione, prevede tale richiesta, non come facoltà generale dello Stato di origine del minore, ma solo in ordine ad “una particolare situazione di adozione” e, soprattutto, ne subordina la soddisfazione alla legge dello Stato di accoglienza. Nessuna pretesa, quindi, da parte dello Stato di origine del minore può essere avanzata in generale e con assolutezza; tali pretese altrimenti sarebbero fuori dalla Convenzione e non avrebbero fondamento di diritto internazionale. Né tanto meno vi è in Italia una previsione normativa al riguardo.

Il legislatore, infatti, consapevole che per effetto dell’adozione perfetta all’estero gli adottanti sono legittimi genitori del minore e che, pertanto, potrebbero legittimamente rifiutare ogni ulteriore ingerenza nella famiglia, ha dovuto prevedere che gli interventi dei servizi sociali e degli enti autorizzati possano avvenire “su richiesta degli interessati” (articolo 31, comma 3, lettera m della legge 184/83) e che nell’anno seguente l’adozione possa essere effettuato, altresì, un mero controllo dell’inserimento del minore nella nuova famiglia (articolo 34, comma 2). In conseguenza di tali previsioni normative è difficile pensare di imporre alla famiglia un’ingerenza addirittura richiesta dall’estero e per un periodo che può spingersi, secondo quanto prevede la normativa di alcuni Stati, sino alla soglia della maggiore età dell’adottato.

Questa problematica si pone, pertanto, sia con gli Stati che hanno ratificato la Convenzione dell’Aja, sia per i non ratificanti. Certamente con questi ultimi il dialogo è ancora più difficile, stante una loro naturale diffidenza a recepire le richieste provenienti dagli Stati di accoglienza.

D’altro canto, la considerazione da fare è che non si può non tener conto di siffatte richieste, soprattutto alla luce della precarietà dei rapporti con i paesi stranieri, in tale contesto di operatività. Peraltro, è condivisa l’esigenza di volersi porre nei confronti dei paesi esteri in termini positivi e di accoglienza delle loro richieste al fine di non perdere gradimento e favore.

Interprete della risoluzione di tale questione e portavoce di un determinato dialogo con gli Stati esteri è la Commissione per le adozioni internazionali, la quale, pur senza avere una competenza specifica al riguardo, ha previsto nell’Aggiornamento 2004 delle Linee guida 2003 (Deliberazione n. 172 del 17 dicembre 2003, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 16 gennaio 2004) indirizzate agli enti autorizzati, che questi ultimi invitino le coppie a sottoscrivere un’apposita dichiarazione con cui si impegnano ad inviare agli enti stessi le notizie utili per compilare le relazioni post adoptionem. Lo scopo perseguito dalla CAI è quello di garantire l’operatività del sistema delle adozioni internazionali nel nostro ordinamento, cercando di contrastare ogni squilibrio possibile e ancor di più incidenti diplomatici, che possano determinare l’effetto negativo della chiusura delle frontiere dei paesi di provenienza, come è già accaduto in passato.

A tutto ciò deve aggiungersi che i servizi locali, che spesso si trovano ad essere chiamati a collaborare nella redazione delle relazioni, non sono liberi di agire a titolo volontaristico: devono attenersi alle disposizioni dei propri organi direttivi, tenuti a gestire gli impegni in vista delle prestazioni legalmente dovute, delle capacità di carico sociale e di bilancio. Le regioni e le province autonome dovrebbero promuovere, a norma dell’articolo 39-bis, comma 1, lettera c, “protocolli operativi e convenzioni fra gli enti autorizzati ed i servizi”. Si tratta, tuttavia, di approcci locali, non di una risposta normativa astratta e generale, al quesito su ciò che si deve fare in fattispecie del genere.

In considerazione, pertanto, della complessità della questione, la Commissione parlamentare per l’infanzia auspica che in futuro venga maggiormente favorito, da parte degli enti autorizzati e dalla Commissione per le adozioni internazionali, il dialogo con i Paesi esteri finalizzato al riconoscimento reciproco delle realtà giuridiche e socio-culturali di ciascuno, nonché alla definizione di accordi bilaterali che regolamentino la materia delle relazioni post adoptionem, limitandone la richiesta, ove possibile, al primo anno successivo all’ingresso del minore in Italia.

L’unico adeguamento normativo operabile, pertanto, ad oggi, consiste nel prevedere l’obbligo di inviare una o due relazioni post-adozione al paese estero richiedente nell’anno successivo all’entrata in Italia del minore. La redazione delle relazioni dovrà essere competenza dei sevizi socio-assistenziali, i quali nello svolgimento del controllo sull’andamento dell’adozione, così come previsto dall’articolo 34, comma 2, potranno dare conto dell’inserimento del minore nel nuovo contesto familiare e sociale. Spetterà invece agli enti autorizzati inviare le relazioni al Paese estero richiedente e controllare la produzione delle stesse.

 

4.2.5. Alcune ulteriori questioni

 

A. Altro problema da esaminare è quello relativo a quale debba essere l’atto di nascita che, in caso di adozione internazionale, debba essere acquisito negli archivi dello stato civile italiano: se quello originario o quello creato nel Paese d’origine dopo l’adozione.

La questione si è posta perché sono intervenute due circolari ministeriali divergenti: la prima del Ministero della giustizia (Direzione generale degli affari civili e delle libere professioni, Ufficio I) è datata 3 luglio 2001 e porta il numero di protocollo 30 – 17 (2000) V 4380; la seconda del Ministero dell’interno è datata 2 agosto 2001 e porta il numero 00103911 – 15952. La circolare del Ministero della giustizia dispone che si formi in Italia l’atto di nascita dell’adottato straniero all’estero, previa attivazione della relativa procedura giudiziale, sia quando l’atto non sia stato formato all’estero sia in altri due casi e cioè quando i genitori adottivi siano indicati quali genitori naturali del bambino e quando la data e il luogo di nascita siano differenti dal reale. La circolare del Ministero dell’interno afferma, invece, che, se a seguito della sentenza straniera di adozione è stato formato all’estero un nuovo atto di nascita del minore adottato esso è l’unico valido per il Paese in cui l’adozione è stata pronunciata e l’unico valido ed utilizzabile anche in Italia avendo l’atto di nascita originario perduto ogni valore giuridico. Né lo Stato italiano ha alcun potere di intervento su un provvedimento straniero per valutare la veridicità o meno del suo contenuto.

L’orientamento dominante dei tribunali minorili italiani e le procedure attuate ad oggi dagli uffici di stato civile, destinatari del compito di trascrizione dell’atto di nascita nei registri dello stato civile, sono prevalentemente conformi alla circolare del Ministero dell’interno; ad una tale scelta probabilmente non è stata estranea anche la consapevolezza che, accogliendo il diverso orientamento della circolare del Ministero della giustizia, sarebbe stato necessario promuovere un numero elevato di procedure di formazione di atti di nascita relativi a minori adottati con adozione internazionale, essendo molto frequente all’estero la redazione di atti di nascita del minore adottato con l’indicazione degli adottanti quali genitori del minore con un luogo di nascita diverso da quello originario. La Commissione parlamentare per l’infanzia ritiene di poter condividere tale scelta applicativa, auspicando che venga seguita uniformemente in tutto il territorio nazionale.

Va ricordato, inoltre, che il certificato di nascita originario del minore straniero viene comunque acquisito per il tramite dell’ente autorizzato prima dalla Commissione per le adozioni internazionali e successivamente dal tribunale per i minorenni unitamente agli altri documenti per il procedimento di delibazione della sentenza straniera.

B. Altra questione che merita di essere trattata riguarda le procedure per l’ingresso in Italia del minore adottato all’estero. Alcune questure ritengono che l’ingresso in Italia del minore straniero adottato all’estero che non ha ancora cittadinanza italiana debba essere soggetto alle formalità di denuncia alla questura e che per lo stesso debba essere chiesto permesso di soggiorno per minore età o per altre cause, secondo le modalità dettate per tutti gli stranieri dal decreto del Presidente della Repubblica n. 286/1998 e successive modificazioni. Si tratta di una prassi che non convince. Infatti, il visto di ingresso per adozione è istituto diverso dai visti di ingresso regolati dall’articolo 4 del citato decreto n. 286/1998, poiché esso è concesso a tempo indeterminato e nell’intervallo fra ingresso in Italia e acquisto della cittadinanza, mentre da subito il minore straniero è equiparato al minore italiano in affidamento familiare quanto a diritti (articolo 34, comma 1, legge n. 184/83). Né ci sono ragioni di contrasto all’immigrazione o di ordine pubblico, perché i genitori adottivi debbano segnalarlo come straniero e fargli ottenere un permesso di soggiorno che è invece implicito nella concessione del visto di ingresso per l’adozione. Conferma di ciò è il fatto che i bambini stranieri che giungono in Italia con visto di adozione – poco più di duemila ogni anno – non sono compresi nel contingente annuo degli stranieri per cui è consentito l’ingresso in Italia, ma vi si aggiungono. Appare comunque utile introdurre una modifica normativa, prevedendo che l’articolo 36, comma 1, della legge 184/1983 sia integrato dalla previsione esplicita che per l’ingresso del minore adottato all’estero o affidato a scopo di adozione non debbano sono richiesti né permessi di soggiorno per minore età o per altre cause, né altra autorizzazione di polizia.

C. La normativa esistente in tema di congedi di maternità per le donne lavoratrici andrebbe estesa anche alle madri adottive ed affidatarie (cfr. proposta di legge Bolognesi, A.C. 5063). Attualmente, infatti, la legge consente alla lavoratrice di usufruire di cinque mesi di congedo retribuito (due precedenti e tre successivi al parto); se si tratta di una madre adottiva, però, il congedo retribuito si riduce ai soli tre mesi successivi all’ingresso nella famiglia del bambino adottato. Per quanto riguarda l’adozione internazionale, la madre (?) adottiva ha diritto, per il periodo di permanenza all’estero per le procedure adottive, solo ad un periodo di congedo non retribuito. Sarebbe quindi necessario estendere anche alle lavoratrici madri adottive il diritto di usufruire dei due mesi di congedo retribuito antecedenti all’ingresso nella famiglia del bambino adottato. Anche il computo dei due mesi precedenti alla nascita o all’ingresso del bambino adottato dovrebbe essere equiparato, nel senso che laddove il periodo di permanenza all’estero risulti più breve, le madri adottive dovrebbero poter usufruire nel periodo successivo all’ingresso in famiglia del bambino dei giorni non goduti nel periodo antecedente, fino a raggiungere comunque i cinque mesi di congedo, così come accade già per le madri che partoriscono in data precedente a quella ipotizzata. Anche nei casi di adozione nazionale il periodo di congedo dovrebbe essere di cinque mesi.

D. Un’altra problematica aperta è costituita dai fallimenti delle adozioni internazionali avvenuti durante il periodo di affidamento preadottivo. In questo caso, la procedura adottiva non si è perfezionata e il bambino, dichiarato nel suo Paese figlio di cittadini italiani, rimane in Italia, se non trova una nuova famiglia, senza tuttavia essere cittadino italiano. In tali casi, peraltro rari, occorrerebbe individuare soluzioni di tipo umanitario che diano ai ragazzi che vengono a trovarsi nella condizione descritta se non una famiglia, almeno una prospettiva certa di futuro nel loro paese di adozione.

E. Un ultimo problema che meriterebbe un approfondimento adeguato è quello delle coppie aspiranti adottive composte da persone di diversa nazionalità. Si tratta di una tipologia di famiglia che appare in crescita e rispetto alla quale possono crearsi problemi nell’iter adottivo.

 

 

4.3. Punti comuni all’adozione nazionale ed internazionale

 

4.3.1. Il limite di differenza di età tra adottanti e adottando: alcune riflessioni

 

Com’è noto, la riforma introdotta dalla legge 149/2001 ha ampliato i limiti della differenza massima di età tra adottanti e adottando riportandola a quarantacinque anni, come già era previsto dalla legge sull’adozione speciale del 5 giugno1967 n. 431, ed eliminando, quindi, la riduzione a quarant’anni, che era stata voluta dal primo testo della legge 4 maggio1983 n. 184.

In questa nuova disciplina l’articolo 6 della legge 149/01 ha aggiunto, inoltre, altre deroghe, in particolare il comma 6, in base al quale “Non è preclusa l’adozione quando il limite massimo di età degli adottanti sia superato da uno solo di essi in misura non superiore a dieci anni, ovvero quando essi siano genitori di figli naturali o adottivi dei quali almeno uno sia in età minore, ovvero quando l’adozione riguardi un fratello o una sorella del minore già dagli stessi adottato.”

La disposizione riportata è stata oggetto di vari dubbi interpretativi e dovrebbe essere almeno oggetto di una modificazione che ne renda più agevole la lettura, favorendone un’interpretazione uniforme: “Nel calcolo della differenza massima di età tra adottanti e adottando si deve tener conto dell’età dell’adottante più giovane, quando la differenza di età dei coniugi tra loro non superi i dieci anni.”

 

4.3.2 La conoscenza delle origini da parte dell’adottato

 

Importante rilevanza assume la disciplina relativa alla conoscenza delle origini del minore adottato nell’adozione legittimante. Tale questione, pur avendo diverse sfaccettature ed angolazioni, fonda il suo fulcro nell’acquisizione della conoscenza da parte del minore stesso della vicenda sul suo abbandono e dell’identità della sua famiglia di origine.

Il diritto di conoscere le proprie origini in capo al minore è entrato nel nostro diritto con il nuovo testo dell’articolo 28 della legge 184/83, così come modificato ed introdotto nel 2001 dalla nuova legge n. 149 di riforma dell’adozione. Tale norma è, però, di difficile applicazione e fornisce indicazioni che non possono essere applicate effettivamente, stante la sua conflittualità con altre norme, soprattutto con quelle contenute nella legge 675/96 sul trattamento dei dati personali. Ne deriva l’estrema difficoltà di applicarla in modo coerentemente rispettoso dei diritti di tutte le persone coinvolte nella vicenda, che si trovano in posizione di evidente conflitto d’interessi tra di loro.

La legge prevede un procedimento autorizzativo, regolato dall’articolo 28, comma 6, di competenza del tribunale per i minorenni, che il soggetto interessato può porre in essere al fine di vedersi garantito tale diritto all’informazione. A seguito di tale procedimento il tribunale adito può ammettere la rivelazione delle informazioni delle quali è in possesso ed autorizzare gli altri soggetti informati a fare altrettanto. La norma, però, non chiarisce in modo espresso se questo procedimento autorizzativo sia sempre necessario, qualunque sia l’età dell’adottando, in considerazione del fatto che al riguardo vi è una diversità di previsione. In linea generale sono previste unicamente due diverse specie di limiti alla possibilità di rivelare le informazioni:

1)     limiti riguardanti i motivi della richiesta, che hanno un contenuto diverso secondo l’età dell’adottato (commi 4 e 5);

2)     limiti riguardanti i genitori d’origine (comma 7), che si applicano qualunque sia l’età dell’adottato (ad esempio, il diritto della madre a non essere nominata, se così ha dichiarato al momento della nascita).

Inoltre l’articolo 28 citato disciplina soltanto informazioni concernenti l’identità dei genitori di origine, quindi solo quelle che permettono di identificarli, mentre non sono previste tutte le altre possibili informazioni relative alle origini familiari e sociali in generale, o alle condizioni sanitarie dei genitori di origine.

Si ritiene opportuno, pertanto, valutare una revisione che, innanzitutto, equipari la disciplina sul diritto alla conoscenza delle origini familiari tra gli adottati con adozione internazionale e gli adottati con adozione nazionale (articolo 37 della legge 184/83) e che agevoli la corretta interpretazione della legge, chiarendo bene a quali condizioni l’adottato possa accedere alle informazioni sulle proprie origini in considerazione dei diversi limiti di età dell’adottato e delle possibili informazioni acquisibili (articolo 28 della legge 184/83).

 

4.4. L’affidamento familiare

 

L’esperienza realizzata nei venti anni circa di applicazione dell’istituto dell’affidamento familiare ha posto in evidenza le importanti possibilità di realizzare la protezione dei minori con il superamento dell’istituzionalizzazione, che questo istituto ha avuto ed ha, ma ha anche consentito di rilevare il perpetuarsi di aree d’intervento in relazione alle quali l’affidamento familiare incontra difficoltà di realizzazione. Il discorso riguarda in particolare i minori grandicelli, quelli portatori di handicap, quelli con gravi disturbi psicologici, maltrattati o abusati e quelli che abbiano avuto precedenti affidamenti familiari falliti

Nella prospettiva di procedere alla radicale deistituzionalizzazione minorile con incremento degli affidamenti familiari e per razionalizzare la disciplina normativa attuale è necessario procedere ad alcuni interventi di riforma.

A) Per i minori difficili appartenenti alle categorie sopra indicate andrebbe introdotta la possibilità di procedere all’affidamento familiare professionale (o solidale, allargando l’esperienza che si va di recente sperimentando in alcune realtà italiane e seguendo quella che da gran tempo viene realizzata in altri Paesi).

B) Sia per i minori difficili suindicati che per gli altri (e quindi sia per gli affidamenti familiari professionali che per quelli ordinari) occorrerebbe che il servizio locale che procede all’affidamento familiare possa prevederne la realizzazione tramite l’intermediazione di una comunità familiare o di un’associazione qualificata di volontariato, che svolgano attività di sostegno e di accompagnamento del minore affidato e degli affidatari.

C) Per rispondere all’esigenza di un più efficace coordinamento tra autorità giudiziaria e servizi sociali sarebbe necessario modificare la competenza a rendere esecutivo il provvedimento di affidamento familiare consensuale, attribuendo anch’essa al tribunale per i minorenni, a cui è riconosciuta in tutti gli altri casi (affidamento giudiziario, proroga dell’affidamento familiare consensuale) e non più al giudice tutelare.

In tal modo si potrà anche realizzare sin dall’inizio un coordinamento diretto a distinguere i casi di affidamento familiare effettivi (cioè quelli che sono realmente temporanei e comportano una seria previsione che alla scadenza dell’affidamento il minore ritorni nella famiglia di origine) da quelli nei quali vi è l’alto rischio che alla scadenza il minore non rientri in famiglia (ad esempio, quelli relativi a nuclei del tutto disgregati o con genitori disturbati psichicamente e incapaci di svolgere funzioni educative adeguate, anche se legati ai figli) ed individuare sin dall’inizio quegli affidatari che sappiano dimostrare grande disponibilità umana e notevole capacità di adattamento, tale da consentire loro di essere dapprima (nel corso dei primi due anni e durante la proroga dell’affidamento) sinceramente disposti a favorire il rientro del bambino nella famiglia di origine e poi in grado, nel caso di mancato rientro del minore nella famiglia di origine alla scadenza dell’affidamento, ad accoglierlo in adozione, nelle forme di cui al cap. 4.1.1. di questa Relazione.

Si potrebbe in tal modo attenuare di molto il pericolo di famiglie affidatarie che, avendo ospitato per anni un minore, rifiutino poi - quando si crei la situazione che lo rende necessario - di procedere alla sua adozione ex articolo44 d: il prospettare una tale eventualità sin dall’inizio dell’affidamento può certamente contribuire ad attenuare il rischio del ripetersi di tali situazioni.

 

 

4.5. I soggiorni solidaristici

 

4.5.1. La situazione attuale e i possibili adeguamenti normativi

 

Il fenomeno dei soggiorni solidaristici costituisce ormai da diversi anni in Italia una delle forme di solidarietà, rivolta ai minori di paesi disagiati, maggiormente praticata. Esso, più esattamente, ha avuto inizio nei primi anni ’90 a favore dei minori residenti nell’area colpita dal disastro prodotto dalla centrale atomica di Chernobyl e si prefiggeva lo scopo di contribuire ad attenuare i danni vissuti dalle popolazioni dell’area colpita, consentendo ai bambini che vi vivevano di trascorrere alcuni mesi dell’anno in Italia per usufruire del clima mediterraneo che potesse agevolare il loro recupero.

I soggiorni solidaristici furono rivolti in un primo momento ai bambini della Bielorussia, e, comunque, provenienti dell’area cosiddetta di Chernobyl, e successivamente anche ai bambini provenienti da altri paesi dell’Europa dell’est, allargando parallelamente la prospettiva umanitaria che li favoriva: da quella finalizzata prettamente alla tutela della salute si è passati a considerare l’utilità di favorire un periodo di vacanza o di studio a favore del minore.

Il favore riconosciuto nel nostro paese a tale tipo di intervento solidaristico è cresciuto negli anni ed ha avuto una forte adesione da ogni tipologia familiare, tanto che ad oggi i ragazzi stranieri che vivono questa esperienza in Italia sono quasi quarantamila ogni anno. Un numero che è sicuramente destinato a crescere, considerato in primo luogo che sempre un maggior numero di bambini in alcuni Stati vivono in una situazione di abbandono, sia essa definitiva o di semi- abbandono permanente, in secondo luogo che da parte delle famiglie italiane è sempre più crescente l’esigenza di vivere esperienze positive e di grande coinvolgimento emotivo, tanto più se di aiuto offerto a minori istituzionalizzati o comunque in difficoltà.

I soggiorni temporanei solidaristici trovano una loro connotazione ufficiale ed un riconoscimento nell’ambito della solidarietà internazionale con l’istituzione del Comitato interministeriale per i minori stranieri (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 7 aprile 1994) ed una parziale disciplina nel decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che all’articolo 33 istituisce il Comitato per i minori stranieri proprio “al fine di vigilare sulle modalità di soggiorno dei minori stranieri temporaneamente ammessi sul territorio dello Stato e di coordinare le attività delle amministrazioni interessate”, nonché nel regolamento concernente i compiti del Comitato suddetto (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 9 dicembre 1999, n. 535), che gli attribuisce tra gli altri anche quello di deliberare “ai sensi dell’articolo 8, previa adeguata valutazione secondo criteri predeterminati, in ordine alle richieste provenienti da enti, associazioni o famiglie italiane, per l’ingresso di minori accolti nell’ambito di programmi solidaristici di accoglienza temporanea, nonché per l’affidamento temporaneo e per il rimpatrio dei medesimi”.

Nell’effettuazione dei soggiorni solidaristici vengono seguiti vari percorsi, che si possono schematizzare nel seguente modo:

A.    Permanenza con più soggiorni turistico-solidaristici;

B.    Ottenimento del visto per studio;

C.    Ottenimento del visto per cure mediche.

La durata del soggiorno varia da un minimo di una settimana ad un massimo di 90 giorni, da usufruire nei periodi di ferie estive o durante la pausa di Natale.

Pertanto, non si può non rilevare che il fenomeno dei soggiorni solidaristici esprime un’esigenza positiva, costituita dall’opportunità di organizzare e sviluppare risposte solidali ai bisogni di cura e di benessere dei minori coinvolti nell’esperienza, ponendoli al centro dell’attenzione in ambienti che altrimenti con tutta probabilità non ne sarebbero in alcun modo coinvolti.

Nel corso dell’indagine conoscitiva è emerso, tuttavia, da parte di vari soggetti auditi, anche un orientamento molto critico verso l’attuale gestione dei soggiorni solidaristici, dei quali sono stati posti in rilievo i rischi: in primo luogo quello di un aggiramento della Convenzione dell’Aja, nei casi in cui la famiglia ospitante chiede l’adozione del bambino che ha precedentemente accolto per uno o più soggiorni solidaristici. Tali preoccupazioni sono espresse anche nel “Documento sui bambini stranieri in soggiorno temporaneo” (3 maggio 2004) dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia (AIMFF), nel quale si rileva inoltre l’assenza di qualsiasi forma di integrazione tra le associazioni che curano l’attuazione dei programmi di soggiorno per minori stranieri e i servizi locali. Nello stesso documento l’AIMFF esprime l’auspicio di una razionalizzazione della materia, affinché i benefici effetti che i soggiorni temporanei possono produrre, soprattutto sulla salute dei bambini, non divengano alibi per la violazione di altri fondamentali diritti.

Occorrerebbe, quindi, dare un senso compiuto all’iniziativa, trasformando e strutturando il flusso dei soggiorni in modo più ordinato e funzionale, per evitare che i bambini, alternando lunghi periodi di istituzionalizzazione nel loro Paese ai novanta giorni colmi di affetti e cure che trascorrono in Italia, possano rischiare effetti negativi. Non vi sarebbe nulla di male, infatti nel creare una consuetudine di scambi e nell’offrire a minori non adottabili, ma bisognosi di sostegno e di cure, un percorso di socializzazione familiare e di mobilità internazionale per la realizzazione di un migliore orizzonte di vita che comprenda però un progetto di formazione, anche professionale, ed un proseguimento dell’azione intrapresa anche oltre i diciotto anni.

In questa prospettiva l’esperienza dell’affidamento internazionale di minori per soggiorni di volta in volta finalizzati a reali esigenze e inseriti in progetti credibili assumerebbe anche un notevole valore nel quadro della politica dei buoni rapporti tra i popoli, sull’esempio, ma con ben più ampio e profondo significato, della felice esperienza dei programmi “Erasmus” nell’ambito comunitario. Per questo occorrerebbe tuttavia che l’istituto non subisse i limiti imposti dalla normativa sull’immigrazione – che impedisce al diciottenne di ritornare in Italia dopo che vi ha vissuto come ospite più di 90 giorni all’anno per quattro o cinque anni di seguito – né le mire adottive abusivamente insinuabili in questo tipo di programmi.

La Commissione parlamentare per l’infanzia, alla luce delle osservazioni svolte, ritiene opportuna l’istituzione di un Albo delle associazioni preposte all’organizzazione e gestione dei soggiorni solidaristici, nonché di un sistema di monitoraggio dei nuclei familiari ospitanti, attraverso la proficua collaborazione degli enti locali.

Occorrerebbe inoltre realizzare anche un graduale coordinamento tra la materia dei soggiorni solidaristici e quella degli affidamenti familiari internazionali, di cui al paragrafo successivo.

 

4.5.2. Alcuni nuovi percorsi: l’affidamento internazionale

 

            La Commissione ritiene che l’introduzione nel nostro sistema giuridico dell’istituto dell’affidamento familiare internazionale si renda necessaria al fine di completare il sistema italiano di protezione del minore. La previsione di tale nuovo istituto dovrà naturalmente avvenire nel quadro del sistema di garanzie previsto dalla Convenzione internazionale dell’Aja, vale a dire: a) tutela dell’interesse superiore del minore; b) instaurazione di un sistema di cooperazione tra gli Stati contraenti al fine di assicurare, tramite stipula di accordi bilaterali, il rispetto di tali garanzie.

L’ipotesi di introdurre nel nostro ordinamento l’istituto dell’affidamento internazionale nasce dalla necessità di offrire un ventaglio di opportunità per i bambini in età prescolare e scolare e per i bambini cosiddetti grandicelli (adolescenti), in stato di grave disagio sociofamiliare, abbandono o semiabbandono permanente.

            Più in particolare, la possibilità di accedere all’istituto dell’affidamento internazionale potrà essere rivolta a quei minori che non siano adottabili ovvero ai minori cosiddetti “grandi”, di età superiore ai 9/10 anni, che, pur essendo in stato di adottabilità, hanno meno possibilità di trovare una famiglia disposta ad accoglierli, sia per motivi legati all’età che per trascorsi personali difficili.

            In questo senso la Commissione ritiene di formulare due distinte previsioni a seconda della condizione dei minori:

            La prima previsione sarebbe rivolta ai minori che non possiedono lo stato di adottabilità ma che si trovano in stato di semiabbandono permanente. La seconda ipotesi interessa invece i minori dichiarati adottabili, che potrebbero venire accolti in famiglie già provviste del decreto di idoneità all’adozione internazionale, disponibili al progetto di affidamento internazionale, riconosciute adatte a questo tipo di esperienza e preparate all’accoglienza dei bambini più grandi.

Il soggetto incaricato di controllare e vigilare sulle attività degli enti autorizzati all’affidamento internazionale dovrebbe essere individuato nella CAI che, nel quadro del sistema di riforma già proposto, potrebbe istituire un apposito albo. Saranno poi gli stessi enti autorizzati ad elaborare progetti limitati o prolungati nel tempo rivolti ai minori. Gi aspiranti genitori affidatari dovranno comunicare la loro disponibilità agli enti autorizzati dalla CAI all’affidamento internazionale, aderendo al progetto da essi elaborato.

Si ritiene tuttavia che nel caso dell’affidamento internazionale a progetto (prima ipotesi) anche singoli aspiranti e non solo le coppie possano accedere all’istituto dell’affidamento internazionale intendendosi, per quanto attiene ai requisiti di questi ultimi, applicare la normativa vigente sui requisiti degli affidatari, di cui all’articolo 2, comma 1, della legge 184/83.

Anche per l’affidamento internazionale, come già auspicato per i soggiorni solidaristici, è opportuno un attento monitoraggio delle persone che accoglieranno i minori stranieri.

L’introduzione nel nostro sistema giuridico dell’affidamento internazionale potrebbe inoltre rappresentare uno strumento idoneo a tener conto di quelle situazioni che escludono l’adozione legittimante: si pensi ai paesi di cultura islamica, ove è previsto l’istituto della kafala, molto simile al nostro affidamento familiare.

 

 

5. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

 

I risultati dell’indagine conoscitiva, sicuramente incompleti sotto vari aspetti, rappresentano un primo doveroso contributo che la Commissione ha inteso fornire al bilancio sulla attuazione delle nuove norme in materia di adozioni internazionali e sul quadro degli strumenti effettivi per la tutela dell’infanzia anche nell’ambito delle adozioni nazionali, anche in vista della definitiva chiusura (dicembre 2006) degli istituti residenziali per minori nel nostro paese.

I principi ispiratori sono stati quello dell’interesse superiore dei bambini, così come definito dalla Convenzione ONU di New York sui diritti del fanciullo, e quello – sancito dalla Convenzione dell’Aja - della permanenza dello stesso nella sua famiglia nello Stato d’origine, salvo che per i minori che ne sono privi, per i quali l’adozione internazionale può offrire l’opportunità di una famiglia e un futuro.

La Commissione ha cercato di esaminare problematicamente vari aspetti; ha formulato, partendo dalle esperienze concrete messe in atto, alcune proposte, e ha inoltre introdotto la riflessione su strumenti nuovi che possano offrire una maggiore flessibilità di interventi – come talvolta richiede la complessità, altrimenti non risolvibile, delle situazioni – e sulla necessità del  miglioramento delle normative esistenti in materia di adozioni e affidamento.

La Commissione ritiene che innanzi tutto vada riaffermato il valore dell’istituto dell’adozione con la cultura che lo deve accompagnare, dell’accoglienza di un bambino, con la sua storia, le sue sofferenze o assenze e privazioni; non come un surrogato della genitorialità naturale, ma come piena esperienza di una diversa forma di genitorialità; che chiede diritti, riconoscimento e molti doveri, per primo quello della consapevolezza che il figlio non è un’appendice o una proiezione dei genitori e che il problema cui occorre dare una risposta è quello di garantire la soddisfazione del diritto di tutti i bambini ad avere una famiglia.

Il documento ha analizzato gli aspetti dell’adozione nazionale e dell’adozione internazionale, nonché le questioni concernenti l’affidamento anche internazionale, tenendo conto che davanti alla complessità dei problemi occorre ragionare su diversi percorsi offrendo una gamma di proposte quali, ad esempio, l’adozione aperta o l’adozione “mite” che portino all’obiettivo finale di dare una famiglia a tutti i bambini. Si è, infatti, affrontato il tema del semiabbandono permanente, che è uno stato in cui versano molti minori attualmente negli istituti italiani sul cui futuro è doveroso interrogarsi.

Le proposte della Commissione vogliono quindi essere un contributo concreto alla riflessione che vogliamo aprire tra tutti i parlamentari e tra gli esperti e gli operatori che si occupano di queste tematiche al di fuori del Parlamento. Sull’adozione internazionale, inoltre, è parso doveroso fare un primo bilancio, seppur incompleto, sull’attuazione della nuova normativa, che ha comportato notevoli modifiche in ordine al ruolo dei soggetti che operano nel settore e alle nuove e diverse responsabilità nel campo delle adozioni internazionali (si pensi agli enti di natura privatistica ma che assumono un ruolo pubblico rilevante).

La Commissione si è inoltre posta il problema di come potenziare la CAI, anche in considerazione del gran numero di attività che la stessa deve svolgere, nonché il problema dei costi dell’adozione internazionale, con l’indicazione di alcune proposte concrete, quali l’istituzione di un fondo per rimborsare parzialmente le spese che le famiglie affrontano, l’aumento dello sgravio fiscale oltre il 50 per cento previsto per le spese sostenute dalla coppia per l’espletamento delle procedure di adozione e l’indicazione di forme di collaborazione pubblico-privato.

È stata anche sottolineata l’opportunità di incrementare l’impegno del Ministero degli Affari esteri e dell’intera rete delle rappresentanze diplomatiche italiane nella definizione di accordi bilaterali (specialmente con i Paesi che non hanno sottoscritto la Convenzione dell’Aja) anche al fine di intervenire per snellire le procedure e per accompagnare percorsi particolari. Si è poi indicata la necessità di potenziare l’intervento dei servizi sociali, presso i quali si dovrebbero costituire delle vere e proprie équipe professionalmente formate e preparate in tema di adozioni, che possano costituire il punto di riferimento principale per i tribunali dei minori e per le famiglie adottanti durante il difficile percorso adozionale e fornire uno specifico contributo formativo ed informativo, nonché l’accompagnamento nell’inserimento dei bambini successivamente all’adozione.

Parallelamente è stato esaminato il grande capitolo degli enti autorizzati, che devono poter mantenere la ricchezza dell’esperienza volontaristica e solidaristica. L’avvio di una fase che vede un sempre maggiore coordinamento tra gli enti, inoltre, sta aprendo una strategia di collaborazione e non di competizione tra gi stessi. La Commissione ritiene importante tale nuova realtà che può condurre ad ottimizzare le risorse e a un abbattimento dei costi, nonché di molti altri problemi. Anche l’utilizzo della rete di servizi già presenti sul territorio nazionale, in un intreccio maggiore di ruoli tra pubblico e privato, potrebbe essere funzionale a tale scopo.

La Commissione si è anche posta il problema dell’elevatissimo numero delle coppie che, pur in possesso dell’idoneità, non arrivano all’adozione. Ciò determina una grossa perdita di disponibilità all’accoglienza. Forse sarà opportuno prevedere forme e strumenti di monitoraggio dell’iter adottivo che rendano più trasparente il percorso dall’incarico all’ente sino all’eventuale adozione, in modo da favorire un’esatta percezione del fenomeno.

Le missioni svolte hanno evidenziato i numerosi problemi legati ai cosiddetti “casi sospesi” (adozioni bloccate in alcuni paesi) e nel corso della riflessione altri ne sono stati evidenziati, quali le problematiche legate all’adozione in Bielorussia, i casi rimasti in sospeso in Romania e i problemi emersi per la Bulgaria. Inoltre, l’intesa che nel corso del 2004 la CAI ha avviato con l’Ungheria, con l’obiettivo di portare all’adozione di bambini più grandi, attraverso un percorso di avvicinamento relazionale ai potenziali genitori adottivi, apre nuove prospettive che potranno accompagnare la riflessione della Commissione sull’affidamento internazionale.

Partendo dall’analisi sul semiabbandono permanente in cui versano molti minori anche all’estero e da esperienze quali il progetto Ungheria della CAI, la Commissione considera maturi i tempi per introdurre una proposta per l’affidamento internazionale quale ulteriore nuovo strumento per completare il ventaglio di soluzioni a favore dei diritti dell’infanzia.

La complessità dei problemi e l’evoluzione di molti casi rendono provvisorio, ancorché significativo, il bilancio tracciato e sollecitano l’assunzione di nuove responsabilità da parte della Commissione su tematiche che meritano approfondimento, quali il tema dei soggiorni solidaristici, il monitoraggio di alcune realtà estere, l’aggiornamento della legge n. 476 del 1998 sulle adozioni internazionali e lo sviluppo del dibattito sui nuovi strumenti da mettere in campo in vista della chiusura degli istituti minorili. La Commissione dovrà, al riguardo, interrogarsi sulla necessità di attivare in futuro gli strumenti di indagine, controllo e indirizzo che risultino appropriati all’esame dei fenomeni sopra richiamati.

 

 


 

APPENDICE

 

APPROFONDIMENTI SULLA NORMATIVA VIGENTE

 

1. L’affidamento

 

L’affidamento è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso dei genitori o del tutore e dopo aver sentito il minore, se ha compiuto i 12 anni; ove sia opportuno, viene ascoltato anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Ove manchi l’assenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore, provvede il tribunale dei minorenni. Il provvedimento è reso esecutivo con decreto del giudice tutelare e deve contenere le motivazioni dell’affidamento, i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri riconosciuti all’affidatario, le modalità attraverso le quali i genitori e gli altri componenti del nucleo familiare possono mantenere rapporti col minore, l’indicazione del servizio sociale al quale sono attribuite la responsabilità del programma di assistenza e la vigilanza, il periodo di presumibile durata dell’affidamento. Quest’ultimo non può superare i 24 mesi, ma è prorogabile dal tribunale dei minorenni, qualora la sospensione dell’affidamento rechi pregiudizio al minore. È previsto che il servizio sociale locale competente debba riferire al giudice tutelare (quando l’affidamento è stato disposto col consenso dei genitori o del tutore) o al tribunale dei minorenni (quando non vi sia stato il consenso dei genitori o del tutore) ogni evento di particolare rilevanza e sia tenuto a presentare una relazione semestrale sull’andamento del programma di assistenza, sulla sua presumibile ulteriore durata e sull’evoluzione delle condizioni di difficoltà del nucleo familiare di provenienza.

La normativa prevede inoltre interventi economici, anche se deboli, come l’erogazione temporanea in favore dell’affidatario degli assegni familiari e delle prestazioni previdenziali relative al minore; ed estende agli affidatari tutte le agevolazioni in tema di astensione obbligatoria o facoltativa dal lavoro, di permessi di malattia e di riposi giornalieri previsti in favore dei genitori del minore.

 

 

2. L’adozione nazionale

 

Il procedimento di adozione è strutturato in tre fasi. La prima concerne i minori e consiste nell’accertamento dello stato di abbandono, che conduce alla dichiarazione di adottabilità. La seconda riguarda i genitori adottivi e prevede la scelta dei coniugi idonei alle esigenze del minore e il successivo affidamento preadottivo. La terza è quella della verifica del periodo di affidamento, che si conclude con la sentenza di adozione o, in caso di valutazione negativa, di non luogo all’adozione.

Per quanto riguarda l’accertamento dello stato di abbandono e la dichiarazione di adottabilità, la legge prevede che la segnalazione della condizione di abbandono di un minore debba essere rivolta al procuratore della Repubblica presso il tribunale dei minorenni[13]

Sono previste garanzie per la famiglia di provenienza: nel momento in cui si avvia la procedura per la dichiarazione di adottabilità, infatti, genitori e parenti del minore sono avvertiti della facoltà di nominare un difensore di fiducia, altrimenti il giudice del tribunale dei minorenni deve provvedere alla nomina di un difensore d’ufficio. Per il minore, la legge prevede che debba essere nominato un curatore speciale che lo assista in qualità di difensore. Su tali materie, tuttavia, vige attualmente una disciplina transitoria[14], in attesa di una compiuta disciplina sulla difesa d’ufficio nei procedimenti per la dichiarazione dello stato di adottabilità.

Al tribunale dei minorenni spetta verificare se nel caso concreto si sia verificata o meno una situazione di abbandono del minore: in caso affermativo, il tribunale dichiara con sentenza in camera di consiglio lo stato di adottabilità del minore; altrimenti dispone l’archiviazione [15].

Per quanto concerne la coppia di aspiranti genitori adottivi, è previsto anzitutto che debbano presentare la loro domanda, corredata da idonea documentazione, al tribunale per i minorenni, specificando anche l’eventuale disponibilità ad adottare un minore di età superiore a cinque anni o portatore di handicap: a questi casi, infatti, viene data la precedenza nell’istruttoria delle domande.

Gli aspiranti genitori successivamente vengono sottoposti a una serie di verifiche – da concludersi secondo entro 120 giorni dalla data di presentazione della domanda, ma con la possibilità di disporre una sola proroga di altri 120 giorni – indirizzate a conoscere e valutare la capacità di educare il minore, la situazione personale ed economica, nonché le motivazioni della richiesta di adozione.

La normativa prevede espressamente che ai coniugi siano permesse più adozioni e, anzi, l’aver già adottato uno o più fratelli dell’adottando diviene un titolo preferenziale, così come l’intenzione di adottare un minore disabile.

Terminata positivamente questa fase, il tribunale per i minorenni ha il delicato compito di individuare il migliore abbinamento tra aspiranti genitori adottivi e minori dichiarati in stato di abbandono, disponendo quindi, con ordinanza, l’affidamento preadottivo per un anno, prolungabile di un altro anno nell’interesse del minore.

Al termine del periodo di affidamento il tribunale, con sentenza, dichiara l’adozione, che crea un vincolo giuridico tra genitori e figli equiparato in tutto alla filiazione legittima. L’adottato acquista il cognome paterno e, dopo la trascrizione allo stato civile, è vietato a chiunque fornire informazioni sulle origini dell’adottato; anche all’ufficiale di stato civile e all’ufficio dell’anagrafe, è vietato fornire certificati da cui risulti il rapporto di adozione. Tuttavia, la legge prevede che i genitori informino i figli della loro condizione adottiva e che questi ultimi, compiuti i 25 anni, con provvedimento del tribunale dei minorenni, possano accedere ad informazioni sui propri genitori biologici (con alcune restrizioni in casi particolari); per gravi motivi, il limite di venticinque anni può essere anticipato anche al raggiungimento della maggiore età (sull’argomento vedi il cap. 4.3.2.).

Accanto alla fattispecie generale di adozione principale la legge prevede altri casi di adozione di minore, indipendentemente dal loro stato di abbandono e dalla conseguente dichiarazione di adottabilità. Le ipotesi previste sono: a) orfano di padre e madre, che può essere adottato da persone legate al minore dal vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo; b) minore figlio, anche adottivo, del proprio coniuge; c) minore affetto da handicap e orfano di padre e di madre; d) constatata impossibilità di affidamento preadottivo. Nei casi a), c), d) l’adozione è consentita anche da parte di persone non coniugate.

La normativa prevede infine specifiche sanzioni per i casi di violazione.

 

 

 

 

 

 

3. L’adozione internazionale

 

Secondo quanto disposto dalla Convenzione dell’Aja, la legge 476/98 stabilisce che, ai fini della dichiarazione di adottabilità del minore, la normativa applicabile è quella del Paese d’origine del bambino, mentre è la legge italiana a determinare i requisiti delle persone disponibili ad adottare un minore straniero, purché siano cittadini italiani oppure risiedano in modo effettivo e continuativo in Italia.

La procedura prevede che i coniugi presentino una dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni e chiedano che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione[16].

Una volta ottenuta l’idoneità, gli aspiranti all’adozione devono conferire incarico a curare la procedura ad uno degli enti autorizzati, che svolge concretamente le pratiche di adozione, mantiene i contatti con l’autorità centrale straniera (che gli trasmette la proposta di abbinamento fra un minore adottabile e una coppia di aspiranti adottanti), fornisce alla coppia di coniugi ogni utile informazione sul minore, riceve il loro consenso all’abbinamento, dà la sua approvazione all’abbinamento stesso laddove ciò sia richiesto dalla legislazione del Paese straniero, dà comunicazione alla CAI della decisione di affidamento del minore da parte dell’autorità straniera, e richiede alla stessa CAI l’autorizzazione all’ingresso ed alla residenza permanente del minore.

La CAI, valutate le conclusioni dell’ente incaricato, dichiara che l’adozione risponde al superiore interesse del minore e ne autorizza l’ingresso e la residenza permanente in Italia con il riconoscimento dei diritti e delle forme di assistenza di cui gode il minore italiano in affidamento familiare[17].

Una volta conclusa la procedura, l’adozione può essere pronunciata secondo due distinte modalità: nel Paese straniero, prima che il minore giunga in Italia, oppure in Italia, dopo che vi è giunto[18].

In entrambi i casi il tribunale deve accertare preliminarmente che sussistano le condizioni elencate dall’articolo 4 della Convenzione dell’Aja, che il provvedimento sia stato dichiarato conforme alla Convenzione dalla CAI e che non sia contrario ai principi fondamentali del diritto italiano della famiglia e dei minori.

Vi è, poi, un’ulteriore procedura relativa all'adozione e all'affidamento preadottivo pronunciati in Paesi non aderenti alla Convenzione dell’Aja, né parti in accordi bilaterali con l'Italia. In questi casi, il tribunale dei minorenni che ha emesso il decreto di idoneità all'adozione può dichiarare efficaci nel nostro Paese tali provvedimenti solo se sia accertato lo stato di abbandono del minore o il consenso dei genitori naturali, gli adottanti abbiano conseguito il decreto di idoneità e nella procedura risultino intervenuti sia un ente autorizzato, sia la CAI. Infine, se l'adozione è pronunciata dalle autorità di un Paese straniero su istanza di cittadini italiani che dimostrino di aver soggiornato continuativamente nello stesso Paese e di avervi la residenza da almeno 2 anni, viene riconosciuta a tutti gli effetti in Italia con provvedimento del tribunale dei minorenni, purché essa risulti conforme ai principi della Convenzione.

Alla pronuncia di adozione segue la trascrizione della stessa, a seguito della quale il minore acquista la cittadinanza italiana[19].

Successivamente all’ingresso in Italia e per almeno un anno i servizi socio-assistenziali e gli enti autorizzati controllano sull’andamento dell’inserimento, segnalando le eventuali difficoltà per gli opportuni interventi.

 

 


 

[1] Nelle prime settimane dell’indagine è stato rivolto a tutti gli enti autorizzati l’invito a partecipare ad un’audizione o, altrimenti, a inviare un contributo scritto; sono stati poi auditi in quattro sedute i rappresentanti dei 21 enti che hanno accolto l’invito.

[2] Inoltre l’adozione non è preclusa: quando il limite massimo di differenza di età sia superato da uno solo degli adottanti in misura non superiore a dieci anni, quando gli adottandi hanno già altri figli ed uno degli stessi sia minore e quando l’adozione riguardi un fratello di un minore già adottato dalla stessa coppia. I limiti di differenza di età tra adottante e adottato non sono comunque assoluti, poiché possono subire delle deroghe quando il tribunale dei minorenni ritenga che dalla mancata adozione possa derivare un danno grave e non altrimenti evitabile al minore.

 

[3] La Commissione per le adozioni internazionali svolge le funzioni di Autorità centrale prevista dalla Convenzione dell’Aja ed è composta da: un presidente nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri (deve trattarsi di un magistrato avente esperienza nel settore minorile ovvero di un dirigente dello Stato con analoga esperienza); dieci rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei ministri e di vari ministeri (si tratta di: due rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei ministri; un rappresentante del Ministero del lavoro e delle politiche sociali; un rappresentante del Ministero degli affari esteri; un rappresentante del Ministero dell'interno; due rappresentanti del Ministero della giustizia; un rappresentante del Ministero della salute; un rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze; un rappresentante del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca) ; tre rappresentanti della Conferenza unificata Stato-Regioni; tre rappresentanti designati, sulla base di apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da associazioni familiari a carattere nazionale, almeno uno dei quali designato dal Forum delle associazioni familiari. Il presidente dura in carica due anni (rinnovabili una volta), mentre gli altri componenti quattro anni.

Tra i principali compiti della CAI figurano: la collaborazione con le autorità centrali degli altri Stati; la proposta di stipulare di accordi bilaterali in materia di adozione internazionale; la promozione della cooperazione fra i soggetti che operano nel campo dell'adozione internazionale e della protezione dei minori, nonché di iniziative di formazione per quanti operino nel settore; l’autorizzazione dell'ingresso e del soggiorno permanente del minore straniero adottato o affidato a scopo di adozione; la certificazione della conformità dell'adozione alle disposizioni della Convenzione. La CAI, inoltre, autorizza l’attività degli enti che effettuano concretamente la procedura di adozione, cura la tenuta del relativo albo e vigila sul loro operato.

 

[4] Il disegno di legge presentato dal Governo il 23 settembre 2003 (A.C. 4294 “Disciplina della difesa d'ufficio nei giudizi civili minorili e modifica degli articoli 336 e 337 del codice civile in materia di procedimenti davanti al tribunale per i minorenni”) è stato approvato dalla Camera il 15 luglio 2004 ed è attualmente all’esame del Senato (A.S. 3048).

 

[5] In questo caso come in tutti i successivi, salvo che sia indicato altrimenti, i dati si riferiscono all’intero periodo 16 novembre 2000 – 30 giugno 2004.

[6] Uno di tali enti autorizzati ha tuttavia cessato l’attività, mentre ad altri due la CAI ha revocato l’autorizzazione con delibera del 23 giugno 2004; il tribunale amministrativo regionale competente ha però concesso la sospensiva.

[7] L’articolo 30, abrogato, della legge 184/83 prevedeva una esclusiva competenza del tribunale per i minorenni a verificare e rendere, previe le adeguate indagini ed accertata la sussistenza dei requisiti previsti nell’articolo 6 della medesima legge, a favore delle coppie che davano la loro disponibilità all’adozione, il decreto di idoneità all’adozione internazionale, e nessun riferimento era fatto ai servizi socio-assistenziali, che di fatto venivano, quasi sempre delegati per l’espletamento delle suddette indagini.

[8] I compiti previsti dall’articolo 29-bis, comma 4, della legge 476/98, sono i seguenti:

a. Dare informazioni sull’adozione internazionale e sulle relative procedure, sul ruolo degli enti autorizzati e sulle altre forme di solidarietà nei confronti dei minori in difficoltà, attività che può essere svolta, anche in collaborazione con gli enti autorizzati;

b. Preparare le coppie aspiranti all’adozione, anche in collaborazione con gli enti autorizzati;

c. Acquisire gli elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori adottivi, sul loro ambiente sociale, sulle motivazioni che li determinano, sulla loro attitudine a farsi carico di un’adozione internazionale, sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze di più minori o di uno solo, sulle eventuali caratteristiche particolari dei minori che essi sarebbero in grado di accogliere, nonché acquisire ogni altro elemento utile per la valutazione da parte del tribunale per i minorenni della loro idoneità all’adozione.

Altresì, a norma dell’articolo 34, comma 2, della medesima legge, i servizi socio-assistenziali degli enti locali in collaborazione con gli enti autorizzati, dal momento dell’ingresso in Italia del minore e per almeno un anno, al fine di favorire una corretta integrazione familiare e sociale, sono chiamati ad assistere gli affidatari, i genitori adottivi ed il minore, qualora questi ne facciano richiesta. Di tali attività essi devono riferire al tribunale per i minorenni sull’andamento dell’inserimento, segnalando le eventuali difficoltà per gli opportuni interventi.

[9] I requisiti che gli enti devono possedere per poter essere autorizzati e, quindi, iscritti nell’apposito albo sono previsti nell’articolo 39-ter, che, riferendosi agli articoli 10 e 11 della Convenzione dell’Aja, li riprende e ne amplia il contenuto, e sono i seguenti: a) essere diretti e composti da persone con adeguata formazione e competenza nel campo della adozione internazionale, e con idonee qualità morali; b) avvalersi dell’apporto di professionisti in campo sociale, giuridico e psicologico, iscritti al relativo albo professionale, che abbiano la capacità di sostenere i coniugi prima, durante e dopo l’adozione; c) disporre di una adeguata struttura organizzativa in almeno una regione o in una provincia autonoma in Italia e delle necessarie strutture personali per operare nei paesi stranieri in cui intendono agire; d) non avere fini di lucro, assicurare una gestione contabile assolutamente trasparente, anche sui costi necessari per l’espletamento della procedura, ed una metodologia operativa corretta e verificabile; e) non avere e non operare delle pregiudiziali discriminazioni nei confronti delle persone che aspirano all’adozione, ivi comprese quelle di tipo ideologico e religioso; f) impegnarsi ad attività di promozione dei diritti dell’infanzia, preferibilmente attraverso azione di cooperazione allo sviluppo, anche in collaborazione con le organizzazioni non governative, e di attuazione del principio di sussidiarietà dell’adozione internazionale nei paesi di provenienza dei minori; g) avere sede legale nel territorio nazionale.

 

[10] L’articolo 31 della legge 476/1998 elenca le principali attività che l’ente è chiamato a svolgere a favore della coppia aspirante all’adozione, che sostanzialmente costituiscono l’oggetto del contratto tra i due soggetti; esse sono le seguenti:

1.         Informare la coppia aspirante all’adozione sulle procedure di adozione previste nei diversi Paesi esteri in cui è autorizzato per l’attività di intermediazione, e sulle concrete prospettive di adozione. Tale attività costituisce, tra le altre prestazioni previste, quella a cui dovrebbe essere dedicata la maggiore attenzione ed impegno. È proprio nella fase della informazione e quindi della formazione che la coppia acquisisce la conoscenza specifica della realtà adozionale nei diversi paesi esteri, e quindi è in grado di valutare se si sente in grado di affrontare quel determinato percorso che porterà ad accogliere un bambino con certe caratteristiche psico-fisiche e socio-culturali. Lo svolgimento di detta attività sarebbe auspicabile se fosse resa nella cosiddetta fase precontrattuale allorquando la coppia realizza la propria volontà a voler procedere per una adozione in un determinato Paese ed a certe condizioni. Ancora di più sarebbe opportuno, che l’informazione-formazione fosse resa, almeno in un primo momento in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali. Ciò allo scopo di dare la possibilità alla coppia di valutare fin dall’inizio la propria predisposizione a certe realtà, e contestualmente al servizio di poter valutare con più elementi l’idoneità della coppia all’adozione di un minore straniero. L’attuazione di tale collaborazione, come è noto, non è di facile realizzazione, dipendendo essa da una molteplicità di fattori legati talvolta alla disorganizzazione dei servizi degli enti locali, talvolta dalla mancanza di collegamenti o protocolli d’intesa per lo svolgimento dell’attività comune.

2.         Svolgere le pratiche di adozione presso le competenti autorità del paese indicato dagli aspiranti all’adozione, tra quelli per cui è stato autorizzato ad intrattenere rapporti, trasmettendo alle stesse la domanda di adozione, unitamente al decreto di idoneità ed alla relazione psico-sociale ad esso allegata, affinché le autorità straniere formulino le proposte di incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare.

3.         Raccogliere dall’Autorità straniera la proposta di incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare, curando che sia accompagnata da tutte le informazioni di carattere sanitario riguardanti il minore, nonché dalle notizie riguardanti la sua famiglia di origine e le sue esperienze di vita. Tale compito comporta molte difficoltà quando il paese straniero non ha ratificato la Convenzione dell’Aja. Non sempre è facile individuare l’Autorità competente a rilasciare dette informazioni, in quanto non vi è un riconoscimento di questa funzione. Inoltre, accade, anche, che le informazioni che vengono inoltrate per il tramite dei referenti non siano veritiere, e che, quindi, rappresentino una realtà del bambino diversa da quella reale. Molto gli enti hanno fatto e stanno facendo per indurre i soggetti stranieri, interpreti di tali comportamenti, ad un dialogo che li renda consapevoli dei risvolti di certe dinamiche spesso incardinate in schemi socio-culturali, nonostante tutto accettati e che li renda disponibili ad una collaborazione nello scambio di certi valori, per il solo ed unico interesse del minore.

4.         Trasferire tutte le informazioni e tutte le notizie riguardanti il minore agli aspiranti genitori adottivi, informandoli della proposta di incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare ed assistendoli in tutte le attività da svolgere nel paese straniero;

5.         Ricevere il consenso scritto all’incontro tra gli aspiranti all’adozione ed il minore da adottare, proposto dall’autorità straniera, da parte degli aspiranti all’adozione, ne autentica le firme e trasmette l’atto di consenso all’autorità straniera, svolgendo tutte le altre attività dalla stessa richieste;

6.         Ricevere dall’autorità straniera attestazione della sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 4 della Convenzione dell’Aja e concordare con la stessa, qualora ne sussistano i requisiti, l’opportunità di procedere all’adozione ovvero, in caso contrario, prendere atto del mancato accordo e darne immediata informazione alla Commissione per le adozioni internazionali comunicandone le ragioni; ove sia richiesto dallo stato di origine, approvare la decisione di affidare il minore o i minori ai futuri genitori adottivi;

7.         Informare immediatamente la Commissione, il tribunale per i minorenni ed i servizi dell’ente locale della decisione di affidamento alle autorità straniere e richiedere alla Commissione, trasmettendo la documentazione necessaria, l’autorizzazione all’ingresso ed alla residenza permanente del minore o dei minori in Italia;

8.         Certificare la data di inserimento del minore presso i coniugi affidatari o i genitori adottivi;

9.          Ricevere dall’autorità straniera copia degli atti e della documentazione relativi al minore per trasmetterli immediatamente al tribunale per i minorenni ed alla Commissione.

10.       Vigilare sulle modalità di trasferimento del minore in Italia e adoperarsi affinché questo avvenga in compagnia degli adottanti o dei futuri adottanti.

11.       Svolgere in collaborazione con i servizi degli enti locali attività di sostegno del nucleo adottivo fin dall’ingresso del minore in Italia su richiesta degli adottanti. L’auspicio di entrambi i soggetti è quello di riuscire a realizzare una fattiva collaborazione in tale direzione.

12.       Certificare la durata delle necessarie assenze dal lavoro, ai sensi delle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 39-quater, nel caso in cui le stesse non siano determinate da ragioni di salute del bambino, nonché la durata del periodo di permanenza all’estero nel caso di congedo non retribuito ai sensi della c) del medesimo comma 1 dell’articolo 39-quater.

13.       Certificare nell’ammontare complessivo agli effetti di quanto previsto nell’articolo 10, c. 1, lett. l-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, le spese sostenute dai genitori adottivi per l’espletamento della procedura di adozione.

 

[11] L’articolo 39 della legge n. 149/2001 prevede che dopo i primi due anni dall’entrata in vigore della legge i Ministri della giustizia e della solidarietà sociale, d’intesa con la Conferenza Stato- regioni, trasmettono al Parlamento una relazione sullo stato di attuazione della legge stessa. Il Sottosegretario per la giustizia nell’audizione dinanzi alla Commissione parlamentare per l’infanzia del 12 maggio 2004 ha annunciato che la relazione verrà inoltrata al Parlamento entro la fine del presente anno. L’articolo 40 della stessa legge n. 149/2001 dispone inoltre l’istituzione presso il Ministero della giustizia di una banca dati relativa ai minori dichiarati adottabili e ai coniugi aspiranti all’adozione nazionale e internazionale, prevedendo un termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della legge; le modalità di attuazione e di organizzazione della banca dati sono disciplinate con regolamento del Ministro della giustizia. Tale regolamento è stato emanato con decreto 24 febbraio 2004 n. 91; nella citata audizione del 12 maggio 2004 il sottosegretario per la giustizia ha comunicato che per l’avvio operativo della banca dati occorrevano ancora quattro mesi, necessari per la definizione delle regole procedurali.

 

[12] A.C. 4354 Pisapia e A.C. 4925 Bolognesi; occorre ricordare anche l’A.C 4998 Zacchera, che, a differenza dei due precedenti, prevede anzitutto che i costi dei corsi organizzati dagli enti abbiano un tetto massimo di 100 euro e siano interamente rimborsati alle coppie dallo Stato, che le procedure di adozione internazionale siano gratuite, che le spese delle procedure stesse sostenute dagli enti autorizzati siano ad essi rimborsate dallo Stato, e che le spese sostenute dalle coppie adottanti (direttamente e strettamente riconducibili alla procedura per l’adozione internazionale) siano integralmente deducibili ai fini della dichiarazione dei redditi.

[13] Il legislatore ha scelto di investire del problema il procuratore anziché il tribunale per i minorenni, come avveniva precedentemente, per collocare quest’ultimo in una posizione di “terzietà” rispetto ai casi sui quali deve giudicare. Al procuratore è affidato anche il compito – prima spettante ai giudici tutelari – di effettuare periodiche visite negli istituti che ospitano i minori, per verificare l’eventuale stato di abbandono di qualcuno di essi.

[14] Prorogata da ultimo fino al 30 giugno 2005, con decreto legge n. 158/2004, convertito con legge n. 188/2004; il disegno di legge in materia, presentato dal Governo il 23 settembre 2003 (A.C. 4294 “Disciplina della difesa d'ufficio nei giudizi civili minorili e modifica degli articoli 336 e 337 del codice civile in materia di procedimenti davanti al tribunale per i minorenni”), è stato approvato dalla Camera il 15 luglio 2004 ed è attualmente all’esame del Senato (A.S. 3048).

[15] Contro tale sentenza il pubblico ministero, i genitori, i parenti, il tutore ed il curatore speciale possono proporre impugnazione davanti alla corte d’appello, sezione per i minorenni. Prima di essere adottato, il minore, se ha compiuto i 14 anni, dovrà dare un consenso esplicito; se invece ha tra 12 e 14 anni dev’essere ascoltato personalmente dal magistrato, mentre i bambini più piccoli devono essere sentiti in considerazione della loro capacità di discernimento. La legge prevede altresì che siano ascoltati i figli legittimi di una coppia che chiede un bambino in adozione, se hanno compiuto i 14 anni.

[16] Il tribunale – a meno di una pronuncia immediata di inidoneità – trasmette entro 15 giorni la documentazione ai servizi socio-assistenziali degli enti locali, che acquisiscono elementi sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori e inviano entro 4 mesi una relazione al tribunale. Quest’ultimo entro 2 mesi attesta, con decreto motivato, la sussistenza o l’insussistenza dei requisiti per l’adozione. L’idoneità riconosciuta non è generica, poiché il decreto deve contenere indicazioni opportune sulle caratteristiche del minore che si reputa adatto alla coppia di coniugi. Il decreto – reclamabile davanti alla corte d’appello – viene trasmesso alla Commissione per le adozioni internazionali.

[17] Tale dichiarazione non avviene se dalla documentazione trasmessa non risulti lo stato di abbandono del minore e l’impossibilità di adozione o affidamento all’interno del Paese d’origine, ovvero allorché nel Paese straniero l’adozione non determini la cessazione dei rapporti giuridici fra il minore e la famiglia d’origine e di conseguenza l’acquisizione dello stato di figlio legittimo. In questi casi, però, se il tribunale per i minorenni riconosce che l’adozione è conforme alla Convenzione dell’Aja, può convertirla in un’adozione che produca la cessazione dei rapporti giuridici con la famiglia di origine.

[18] Nel primo caso il Tribunale per i minorenni del luogo di residenza degli adottanti dà luogo al provvedimento di deliberazione e quindi invia gli atti per la trascrizione agli uffici dello stato civile. Nel secondo caso, invece, il Tribunale riconosce il provvedimento dell’autorità straniera come affidamento preadottivo e ne stabilisce la durata, decorsa la quale, pronuncia direttamente l’adozione.

[19] La trascrizione può avvenire solo se: gli adottanti sono in possesso dei requisiti di legge; sono state rispettate le indicazioni sulle caratteristiche del minore contenute nel decreto di idoneità; vi sono state stata l’intermediazione di un Ente autorizzato e il passaggio presso le autorità centrali straniera e italiana; l’inserimento nella famiglia adottiva si è rivelato conforme all’interesse del minore.